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L’O RIENTE COME “ DIVERSITÀ FAMILIARE ”

I.3 Inventando la “tradizione giapponese”

I.3.3 L’O RIENTE COME “ DIVERSITÀ FAMILIARE ”

Perché l’Oriente è diventato non solo oggetto di meraviglia e fascino esotico, ma addirittura quel luogo dove poter “scoprire sé stessi”? Se è davvero un’alterità radicale, come è possibile che sia diventato il sito degli aneliti personali, la cura delle nostre insoddisfazioni, senza quel disorientamento totale che invece si supporrebbe generare qualcosa di completamente diverso dal nostro modo di pensare, ma che, al contrario, genera una fascinazione diffusa? Questo avviene perché, nella storia della relazione tra due realtà codificate come “diverse”, affinché queste diventino reciprocamente comprensibili e conoscibili è necessario che diventino in qualche modo familiari, che vengano tradotte, condizione preliminare per una diffusione di massa. Ad esempio, la visione dell’Oriente come “medicina per l’Occidente”, o come alternativa ad esso, è anche frutto della stretta associazione che viene spesso fatta tra psicologia/psicoterapia e buddhismo, anch’essa efficace proprio perché crea un ibrido tra i due campi.

Le rappresentazioni del buddhismo che circolano in certi ambiti dell’odierna psicologia sono rapportabili a certe rappresentazioni della psicologia che esistono in alcuni ambienti buddhisti. Ed è forse proprio soltanto questa sincronia che le rende reciprocamente comprensibili. L’una costruitasi rispetto all’altra ora possono commensurarsi.83

82 Ibidem.

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Il processo tuttavia non deve assolutamente annullare le differenze, anzi, deve

esaltarle, come ho detto in precedenza. Si tratta più che altro di un’operazione che renda comprensibili e dunque conoscibili le differenze, perché sono le differenze a generare

interesse(i). Come osserva anche Judith Snodgrass, nel XIX secolo buddhismo e cristianesimo nonostante le differenze riguardo ai punti cruciali del dibattito dell’epoca che rendevano li contrapponevano (ovvero: l’assenza di Dio, dell’ira divina, di un salvatore e dell’anima nel buddhismo), erano considerati simili sotto certi aspetti; veniva lasciato uno spiraglio di dialogo.84 Ben diversa la posizione dell’induismo, che invece era percepito come qualcosa di totalmente estraneo, allontanato perché non presentava quei punti di contatto che aprivano quella via di comunicazione basata sull’alterità. È l’alterità il capitale simbolico del buddhismo, non l’estraneità.

Per capire come abbia avuto inizio questo processo, occorre andare indietro al 1893, anno dell’affacciarsi in “veste ufficiale” del buddhismo zen in Occidente in occasione del World’s Parliament of Religions di Chicago, anche se già in precedenza si erano verificati contatti tra lo zen e il mondo euro-americano, grazie soprattutto alla traduzione di testi religiosi a fine XVIII secolo da parte di Max Müller, Brian Hodgson e Eugene Burnof.85 L’evento, che segna la nascita delle due grandi unità di misura “Oriente” e “Occidente”, chiamava a raccolta i rappresentanti di varie religioni nel mondo, anche se le pretese di apertura alle differenze religiose altro non era che una facciata per mascherare una manovra nazionalista che, al contrario, servisse a fortificare su scala nazionale la posizione del cristianesimo, eletto a religione universale. I delegati giapponesi, tra cui vi era anche Suzuki T. Daisetz, avevano l’obiettivo di promuovere il buddhismo zen come religione universale, sfidando così l’esclusività e la “superiorità” del cristianesimo.86 Si trattava di un gioco di specchi: il Giappone dell’epoca Meiji sentiva la pressione ideologica dell’Occidente per definirsi come paese unito sotto una religione nazionale, di modo da potersi confrontare con gli stati-nazione europei, e il congresso era l’occasione per svincolarsi dalla condizione subalterna cui era relegato, conseguenza di anni di colonialismo in Asia da parte delle potenze occidentali, e per dimostrare di essere anche loro “civilizzati”.87 Ciononostante il Giappone, benché fosse stereotipizzato come gli altri paesi asiatici, rappresentava già allora

84 Judith SNODGRASS, Presenting Japanese Buddhism to the West. Orientalism, Occidentalism, and the Columbian Exposition, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2003, p. 87.

85 COX, The Zen Arts, cit., p. 27.

86 http://pluralism.org/religions/buddhism/buddhism-in-america/at-the-1893-worlds-parliament-of-

religions/.

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un Oriente positivo, non barbarico: era giocoso, un po’ infantile, docile, frivolo, ma non brutale e sanguinario; tuttavia, era ugualmente interessante.88 Era dunque un terreno favorevole per far germogliare quella che sarà la visione successiva della spiritualità orientale positiva. Per fuoriuscire da questa rappresentazione limitante, i delegati giapponesi dovettero conformarsi alle categorie imposte dalla “modernità occidentale”: presentarono lo zen come razionale, come un sistema etico ateo compatibile con la filosofia occidentale e con gli ultimi sviluppi scientifici.89 Inoltre, presentarono lo zen come la religione del Giappone; strettamente connesso al nazionalismo e alla formazione degli stati moderni, era quindi il risultato del gioco di specchi tra Oriente e Occidente.90 È in questo contesto infatti che lo zen viene eletto a religione nazionale, come “pura essenza” del Giappone come viene spesso rappresentato tutt’ora. Tra gli esponenti più rilevanti fautori di questa operazione troviamo, in seguito, Okakura Kakuzō con The Ideals of the East (1902) e The Book of Tea (1906) e Nitobe Inazō con Bushidō: the Soul of Japan (1900): quest’ultimo testo risulta particolarmente importante per la mitizzazione della figura del

samurai e del suo essere diventato una vera e propria, riconoscibilissima e sfruttatissima,

icona del “Giappone”. Okakura, invece, in The Ideals of the East teorizza un'estetica panasiatica sintetizzata nell'affermazione “L'Asia è una”, basata sui “valori asiatici” dell'armonia e dell'esistenza non-conflittuale di contraddizioni. Nonostante l'attenzione agli aspetti religiosi, estetici e umanitari dell'opera di Okakura, questi furono parzialmente trascurati in virtù di una rilettura e di un reimpiego del testo in chiave più prettamente politica, che giustificasse l'espansionismo coloniale giapponese ponendo il Giappone in una posizione gerarchicamente superiore rispetto agli altri paesi asiatici.91

Anche Cox, parlando dell’opera di John Clarke Oriental Enlightmenment (1997), osserva che il rapporto tra Asia e mondo euro-americano è costruito su un dialogo e un’osmosi tra i due campi, processi che hanno in comune un disincanto nei confronti del razionalismo illuminista considerato di matrice occidentale, e visto come condizione della modernità.

This sense of spiritual vacuum in the modern condition was at its height in the 1950s and 1960s and is particularly evident in the search for ‘aesthetic purism’ by the ‘beat’ and ‘hippie’

88 COX, The Zen Arts, cit., p. 39.

89 SNODGRASS, Presenting Japanese Buddhism…, cit., p. 200. 90 Ibidem, p. 196.

91 Kevin Michael DOAK, Dreams of Difference. The Japan Romantic School and the Crisis of Modernity,

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movements […] these movements understood Zen both as a form of mystical religiosity with the promise of self-discovery, and as a form of knowledge of and about the Orient.92

La rappresentazione dell’Oriente come medicina per l’Occidente è dovuta anche alla correlazione tra buddhismo e psicologia/psicoterapia di cui ho parlato prima. Avvicinarsi all’Oriente è un atto terapeutico; esprimendosi coi termini di psicologia di facile comprensione, anche il buddhismo zen, nelle rappresentazioni condivise, può essere recepito anche da chi non ha alcuna conoscenza di cosa esso sia, del suo milieu storico- culturale, ecc. Diviene una “diversità familiare”, ma proprio perché si tratta di un buddhismo appositamente riconfigurato in seguito al suo rapporto con la modernità occidentale e in relazione alle richieste del suo tempo.

Questo riconfezionamento dello zen necessitò ovviamente di un “approccio selettivo” che enucleasse solo determinati elementi del buddhismo in base all’immagine che si voleva costruire, ignorando quelli “scomodi” che contraddicevano quelli selezionati in modo da organizzare un quadro coerente, solido e, dunque, gestibile. Gli sforzi provenivano da entrambe le parti, sia sul fronte giapponese, sia su quello europeo, dove le operazioni di traduzioni dei testi tra XIX e XX secolo seguirono questo criterio che inevitabilmente produsse una gerarchizzazione tra “buddhismo vero” e “varianti regionali” da scartare.93 Se la prima “forma” del buddhismo moderno aveva velleità più “razionaliste” e scientifiche, ad essa se ne accostò presto un’altra ben diversa (il che ci dà l’idea di quanto le canonizzazioni, ben lungi dall’essere veritiere, siano negoziate a seconda dell’interesse particolare). Fu negli anni venti, grazie alla pubblicazione dei saggi di Suzuki comparsi sulla rivista inglese Eastern Buddhism, che il buddhismo zen iniziò a riscuotere un successo strepitoso in Occidente, ma attraverso il filtro di Suzuki: abbandonata la visione di uno zen razionale, che non aveva riscosso il successo sperato, Suzuki fu il principale responsabile della visione condivisa e contemporanea dello zen come dominio del mistico e dell’irrazionale, come forma di conoscenza del mondo alternativa a quella canonica e occidentale. Il motivo del successo di questa nuova riconfigurazione dello zen è dovuto proprio al fatto di essersi conformato a una certa visione condivisa dell’Oriente, dovuta in particolar modo all’allora di successo Società Teosofica che veicolava un’immagine esotica di Oriente, pregno di suggestioni ammalianti ed occultismo intrigante. Suzuki rilesse lo zen

92 COX, The Zen Arts, cit., pp. 28-29.

93 Marta SERNESI e Federico SQUARCINI, Forme e volti del buddhismo contemporaneo, in “Religioni e

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in luce del nuovo lessico teosofico grazie al lavoro di traduzione di testi buddhisti insieme al teosofo Paul Carus (a cui si era rivolto proprio per consigli su come diffondere il buddhismo in Occidente per un pubblico vasto),94 e venne così accettato: si assistette a quella che era una rinegoziazione del buddhismo, al punto da venir rinominato “New Buddhism” (shin bukkyō 新仏教). L’operazione che compì è quella che Iwabuchi definisce “esotismo complice”: così facendo, Suzuki riconfermò e rafforzò l’etichetta di “orientale” applicata al buddhismo zen, esaltando gli aspetti che la rendevano tale (come il misticismo contrapposto alla razionalità occidentale) e rendendolo fruibile su vasta scala mediante una semplificazione delle sue componenti, spesso svuotate del loro spessore storico. Venne infatti sradicato dal suo contesto, reso a-storico, di modo che i suoi assunti fossero astratti a verità universalmente valide che potessero essere accolte da un vasto pubblico. Lo zen di Suzuki è edulcorato, diretto e semplice, di facile diffusione e fruizione. Trovo che il caso della meditazione (mokusō 黙 想 ) alla fine di un allenamento di kendō sia un caso particolarmente eclatante di questo “approccio selettivo” ereditato dallo zen di Suzuki: quella che è una pratica complessa, che richiede anni di esercizio guidato da maestri specializzati, che comprende un corpus di conoscenze di sutra buddhisti, viene replicato senza una preparazione adeguata e ridotto a un semplice stare in silenzio, seduti, con le mani conserte in grembo (la sinistra sopra la destra, il pollice sinistro sopra il pollice destro), e “svuotare la mente”. Ma soprattutto, lo zen di Suzuki è “pura esperienza”, è un “percepire la realtà così com’è”, esalta l’immediatezza e la pratica.95

Contrapponendosi alla religione come corpus di dottrine, lo zen diventa invece qualcosa che, per essere davvero compreso, va fatto, praticato. Non si tratta di un totale rifiuto del linguaggio; piuttosto, esso è incorporato nell’esperienza, e sfida la logica occidentale con la sua apparente irrazionalità che tuttavia nasconde la “verità”.96 È proprio questo suo essere apparentemente “anti-intellettuale” a suscitare interesse nel pubblico occidentale, a farlo accogliere come un mezzo di conoscenza di sé e del mondo alternativo e più autentico, e ragione del suo successo planetario. Come vedremo nella prossima sezione, questo è fondamentalmente connesso anche all’importanza del corpo, all’esigenza e all’imperativo di dover fare qualcosa col proprio corpo. In ogni caso, lo zen di Suzuki non è totalmente scollegato da quello presentato a Chicago: con esso condivideva le velleità nazionaliste, l’essere identificato come la religione, l’anima del Giappone, al punto che

94 SNODGRASS, Presenting Japanese Buddhism…, cit., p. 261. 95 SUZUKI, Lo Zen e la cultura giapponese, cit., pp. 29-30. 96 Ibidem, p. 28.

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sarà impiegato funzionalmente nell’ideologia delle guerre mondiali come nobilitazione del militarismo (processo che sarà cruciale anche per la moderna configurazione del kendō).97 Infatti, come vedremo, il kendō viene eletto da molti praticanti come “il modo migliore per capire il Giappone”, un modo per “vivere” davvero un’esperienza giapponese.

Dopo questo excursus, risulta chiaro quindi come la re-invenzione moderna del passato giapponese sia tutt’ora influente e viva nelle rappresentazioni condivise dell’Oriente in generale, e nella percezione del kendō in particolare. Infatti, anche se come abbiamo visto prima non si può dire che i samurai fossero (solo) zen, il kendō è invece nato in seno a quella rivitalizzazione e rivisitazione dello zen sviluppatasi alla fine del XIX secolo, l’esito di quei discorsi volti a circoscrivere una “spiritualità giapponese” basata sullo zen. Quindi sì, si può dire che il kendō sia “zen”, ma quello zen delineato dal Congresso di Chicago in avanti, la cui forma è stata influenzata da circostanze storiche quali i discorsi nazionalisti imperanti in tempo di guerra. Non a caso, inoltre, il periodo di maggior diffusione del kendō fu proprio negli anni settanta, anni del revival del nazionalismo in cui circolavano le teorie Nihonjinron 日本人論 sull’ “unicità giapponese” che traevano grande forza da questi discorsi.

È necessario dunque mettere in discussione qualsiasi categoria “fissa” e “stabile”, soprattutto quando concerne concetti come “nazione” e “patria”, che abbia delle pretese di naturalità. La naturalità è una performance, è la legittimazione dell’interesse contingente grazie alla dotazione di capitale simbolico da parte di chi possiede l’autorità per farlo. La ritualizzazione legittima un interesse, che implica delle strategie per sciogliere determinate tensioni all’interno di un gruppo in crisi, instabile, dandogli stabilità nel farlo entrare nel dominio del sociale. “Disporre del capitale di autorità necessario a imporre la definizione della situazione, in particolare nei momenti di crisi quando il giudizio collettivo vacilla, significa essere in grado di mobilitare il gruppo rendendo collettivo un incidente privato attraverso la solennizzazione e l’ufficializzazione”.98 Con la ritualizzazione e la ripetizione nella performance, lo status di naturalità è raggiunto, al punto che ne siamo talmente influenzati da non renderci nemmeno conto della sua arbitrarietà, scambiandola per naturalità. Occorre quindi “scongelare”, come invita a fare Clifford Geertz, concetti congelati e rigidi come “tradizione”, “identità”, “religione”, “ideologia”, “valori” e

97 SNODGRASS, Presenting Japanese Buddhism…, cit., p. 267.

98 Pierre BOURDIEU, La parentela come rappresentazione e come volontà, in Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello Cortina editore, 2003, p. 110.

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“nazione”, e addirittura “cultura”, “società”, “stato” e “popolo”, inquadrandoli in una prospettiva postmoderna che rifiuta l’assunzione di modelli globali.99 Ma il panorama postmoderno, e una prospettiva multiculturale, se non approcciati con i dovuti strumenti critici fanno correre il rischio di intendere il multiculturalismo come l’arena di conflitti e incomprensioni, piuttosto che di una maggiore tolleranza e relativismo, proprio a causa della concezione delle culture come scatole chiuse e impenetrabili. Il fatto stesso di parlare di “culture” ci fa cadere nel tranello dell’essenzialismo, perché parlare ad esempio di “cultura giapponese”, “cultura indiana”, “cultura europea”, o peggio ancora “cultura occidentale” e cultura orientale” ci fa credere che esse siano dei contenitori di elementi coerentemente legati tra loro da corrispondenza immediatamente individuabili e definibili come “giapponesi”, “indiane”, “occidentali”, “orientali”, ecc. Tutti i praticanti che ho conosciuto parlano di cultura e mentalità marcate come “giapponesi”. La prospettiva è estremamente limitante, perché soffoca fin da subito quelle che possono essere occasioni di dialogo e confronto; ma è anche una prospettiva che affascina, perché conferisce un apparentemente stabile ordine al mondo, dividendolo in categorie nette che soddisfano meglio di altre il bisogno umano di stabilità. E queste categorie, essendo così nette, genereranno altrettanto nette differenze; e la differenza, in una prospettiva meno sanguinosa e grave del conflitto etnico, ma comunque legata ad esso e a problematiche che affondano le loro radici nel colonialismo, è strumentale all’alimentazione di un altro, grande oggetto di interesse: il mercato.

99 Clifford GEERTZ, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo,

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