KENDŌ E SCULTURA DI SÉ
II. 4.2 “N OI VIVIAMO UN ANACRONISMO ”: KENDŌ E “ ANTICHITÀ ”
II.4.3 U N ALTRO MONDO : ALLOCRONIA ED ETEROTOPIA
I praticanti mi hanno descritto il momento della pratica del kendō come un frangente di evasione, una sorta di bolla in cui isolarsi dai problemi quotidiani. È un mondo a parte, salutato come tale da un vero e proprio rituale d’ingresso: non importa quale sia il luogo della pratica, appena il praticante varca l’ingresso della palestra deve per prima cosa mostrare il rispetto per lo spazio con un saluto, inchinandosi mentre pronuncia “oss”. Trovo particolarmente esemplare il caso dell’allenamento del mercoledì del dōjō di Varese, che ha luogo presso la palestra Sporting. All’interno della struttura, l’allenamento si svolge in una piccola sala illuminata da luci calde e dalla pavimentazione in parquet. Fino alle 20:30, ora dell’inizio del nostro allenamento, la sala è occupata da un corso di aerobica; quando la sala si svuota, entrano i praticanti di kendō, e si assiste a una risignificazione dello spazio: da palestra, il luogo diventa dōjō, il “luogo della via”. I praticanti accorrono ad aiutare nella sistemazione della palestra, spostando l’attrezzatura sportiva (pedane, step, ecc.) che intralcia la pratica di kendō; le armature vengono allineate lungo un lato della sala, dove si disporranno anche i praticanti nel momento del saluto; dalla parte opposta c’è il lato d’onore, dove siedono i maestri. Lo spazio si articola dunque a seconda delle gerarchie, che vengono a loro volta rifondate: i nostri ruoli sociali “mondani” vengono difatti sostituiti con quelli che vigono all’interno del kendō e del dōjō: sensei 先生, senpai 先輩, kōhai 後 輩, kyūsha 級者, dan 段. Gran parte del fascino che esercita il kendō nei praticanti è determinato dal fatto che queste gerarchie non sono esclusive del kendō, ma sono viste come più autentica espressione della “cultura” e “mentalità” giapponesi, e il kendō, essendo considerato uno dei più puri esempi di queste categorie, ovviamente è uno dei modi migliori per esperirle (e soprattutto in Italia). Senpai e kohai, categorie specificamente giapponesi, indicano rispettivamente chi ha iniziato per primo la pratica del kendō e chi dopo; non importa se kōhai sia di grado (dan) di gran lunga superiore a senpai: egli avrà sempre un particolare ossequio e rispetto nei suoi confronti, perché questi, essendo arrivato prima di lui, sarà dotato di più esperienza. Particolarmente significativo è il fatto che all’interno del
dōjō si utilizzi la terminologia giapponese, non solo per indicare i colpi e le tecniche come men, kote, dō, kaeshi 返し, nuki 抜き, ecc., ma anche per rispondere ai comandi del maestro
e in segno di saluto. Quando il maestro spiega come eseguire una tecnica, i praticanti devono rispondere in coro e con partecipazione “hai”, per dimostrargli di aver recepito il suo insegnamento e di essere pronti a metterlo in atto; dopo un esercizio svolto insieme a
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un compagno, bisogna necessariamente inchinarsi reciprocamente e pronunciare ad alta voce “dōmo arigatō”, per ringraziarsi a vicenda del tempo concesso al fine del nostro miglioramento. Il saluto si svolge anche durante il seiza 正座, il momento in cui i praticanti devono disporsi in fila per indossare o sfilarsi il bogu 簿具. L’ordine da rispettare è determinato dal grado: in progressione, dan, kyūsha e non graduati; se un praticante possiede lo stesso grado di un altro, a occupare la posizione più alta nella fila sarà chi ha iniziato per primo la pratica. I praticanti dovranno inginocchiarsi, mai all’unisono, ma uno dopo l’altro rispettando l’ordine della fila, anche nel momento in cui poggiare a terra lo
shinai (sempre dopo il maestro). A quel punto, il più alto in grado dopo il maestro, che sta
in cima alla fila, pronuncia a gran voce i comandi: “men wo tore” 面を取れ (“togliete il
men”), oppure, se a inizio allenamento, “men wo tsuke” 面を着け (“indossate il men”). Si
passa poi ai saluti: “Shōmen ni rei” 正面に礼 (“saluto allo shōmen)244 e “otagai ni rei” お 互 い に 礼 (saluto reciproco), per poi concludere con un corale “dōmō arigatō
gozaimashita”, seguito da un applauso finale. Non solo: spesso a fine allenamento si pratica
addirittura la “meditazione” al comando “mokusō”: i praticanti dovranno chiudere gli occhi e porre le mani in grembo, tenendo la mano sinistra sopra la destra, il pollice sinistro sopra il destro, e “svuotare la mente”, in assoluto silenzio. Il saluto finale si svolge con estremo rigore ed ossequio, e in una calma e silenzio che contrastano col clima precedente: dopo una sessione di allenamento in cui risuonano acuti e assordanti kiai 気合,245 dai fragorosi urti degli shinai che si incontrano e i pesanti colpi dei fumikomi 踏み込み,246 al comando di yame del maestro tutti tacciono immediatamente, si allineano sul lato della palestra del saluto per sedersi, e al fragore si sostituisce un silenzio quasi irreale. Quando ho assistito per la prima volta a un allenamento di kendō, ricordo la sensazione di straniamento ma anche di fascino che queste prassi hanno esercitato su di me: vedere rigore e marzialità unite al rispetto di un’etichetta giapponese, la bellezza dei vestiti e dell’attrezzatura, sentir parlare in giapponese, mi hanno dato l’illusione che davvero in quella palestra si fosse ritagliato uno spazio e un tempo a sé stanti, dove era possibile evadere dalla quotidianità e immergersi nell’“Oriente”. Come racconta il maestro Betti del dōjō di Bologna:
244 Lo shōmen è il lato d’onore, dove siede il maestro.
245 L’urlo che deve accompagnare il colpo, manifestazione dello “spirito combattivo” del praticante 246 Colpo del piede destro a terra quando si colpisce, su cui si scarica gran parte del peso corporeo
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Quando all’inizio abbiamo iniziato a fare kendō eravamo molto pochi, e avevamo tutti un amore, un’adorazione per il Giappone. Il fatto di utilizzare la disciplina era finalizzato a mantenere delle tradizioni all’interno di un dōjō italiano che a livello di tradizioni giapponesi non ne sapeva mezza. Quindi era anche un modo per mantenere un contatto con il kendō originale.
(maestro Stefano Betti, 9/10/2016, Bologna)
Per questo definirei il kendō come “allocronia” non solo per la questione dell’“antichità” indagata nel precedente paragrafo, ma anche per il suo essere un “mondo a parte”, vivo delle suggestioni dell’Oriente. È anche un’“eterotopia” perché riproduce, in una qualunque palestra italiana, una “porzione di Giappone”, con le sue gerarchie, la sua etichetta, i suoi costumi, la sua lingua; e questo, come ha osservato anche il maestro Betti, attraverso l’applicazione della disciplina. Anche lo zekken ゼッケン del dōjō di Varese, la “targa” su cui sono scritti i nomi dei praticanti, è bilingue: il nome figura sia in caratteri latini, sia in katakana, secondo lo schema di translitterazione giapponese. È un luogo dove, una volta entrati, si deve dimenticare il proprio “io mondano” e trasfigurarsi nel “kendōka”. Per certi versi questo processo somiglia a quei “biancori”, quelle forme di “scomparsa di sé” di cui parla Le Breton: “è possibile scomparire da sé non soltanto nell’interiorità, ma anche scegliendo un altrove” (in questo caso, il dōjō). “Iniziano una nuova vita: liberatisi della vecchia identità, delle responsabilità che li tenevano prigionieri, possono ricominciare senza dover rendere conto a nessuno proprio perché si inventano un nuovo personaggio che risponderà soltanto alle informazioni che essi daranno ai nuovi interlocutori”.247 Senza arrivare a uno sradicamento totale del proprio “io mondano”, tuttavia anche nel kendō assistiamo a questo processo di “azzeramento” di quello che si è fuori dal dōjō, della “sfera insozzata” di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Vedremo tuttavia nelle conclusioni della tesi che quella del kendō è piuttosto vissuta come un’evasione, più che esserlo davvero; d’altronde, se l’obiettivo dell’antropotecnica e dunque anche del kendō è la costruzione di sé stessi, non sarebbe controproducente fuggire da sé stessi?
La pregnanza di questo processo di “reset” è sancita dall’atto di ingresso nel dōjō, un vero e proprio rituale che viene considerato di valenza quasi sacrale da certi praticanti. Dice Claudio in merito al rito di ingresso:
quello è il primo passo per entrare nella mentalità giusta per fare kendō. Cioè, quando entri, inizi già con un rito, diciamo, molto giapponese, molto nipponico. Il saluto al luogo, cosa
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che al massimo facciamo in chiesa col segno della croce, ti fa entrare in una mentalità diversa. L’inchino, fatto nella dovuta maniera, inizia già a portarti in un’altra dimensione. È il primo passo per entrare nello stato d’animo corretto per poi affrontare tutto l’allenamento; non è un semplice attraversare una soglia, ma nella tua testa si stacca proprio la parte “mondana”, e inizia una dimensione anche spirituale già abbastanza definita. Eppure, la dimensione in cui entri rimane; ti stacchi dal solito luogo della mentalità italiana, per cui sì, c’è un rispetto, ma è al massimo il non buttare le cose per terra; entri in una dimensione diversa, dove il rispetto deve essere più intenso, anche come atteggiamento, come posizione del corpo, come rispetto anche verso gli altri. Di per sé non è che importa il luogo, il pavimento, le mura, importa quello che rappresenta. Quindi, che sia la palestra, o un prato, per dire, per fare un esempio diametralmente opposto, comunque quando entri nel dōjō, per me questo è cambio di mentalità. Quindi si entra in una dimensione un po’ diversa…Parecchio diversa, dove la tua presenza ha un altro significato.
(Claudio, 22/09/2016, Varese)
Anche Giacomo concepisce il dōjō come un “recinto sacro”, dove è opportuno purificarsi al pari di quando si entra in un santuario shintō, o in una chiesa.
quando entri nel dōjō è come se tu entrassi in chiesa. Non lo dico in modo offensivo, ovviamente, ma tu in quel momento entri in un luogo che è sacro, dove si fa quella cosa lì secondo quelle regole lì. Quando superi la soglia dovresti purificarti della tua vita mondana […] io più che il “sé mondano” lascio da parte “le cose mondane”. Quando entri in un santuario giapponese, la prima cosa che fai è purificarti, anche passando sotto i torii. Al di là del torii non puoi fare certe cose, come dire parolacce, e in teoria neanche farti male, non puoi sanguinare, perché entri in un luogo sacro. E quando entri nel dōjō è la stessa cosa, tu entri in un recinto sacro.
(Giacomo, 27/01/2017, Varese)
Il luogo fisico è un pretesto per creare quello che è un luogo mentale e relazionale: ma quella che inizialmente sembrerebbe una fuga dalla quotidianità, diventa altresì uno spazio di implementazione identitaria, uno spazio “interiore” che di conseguenza separa nettamente la “sfera personale”, di cui il soggetto ribadisce l’appartenenza e il suo potere assoluto su di essa, e la “sfera non personale”, contribuendo a definire un “io” contrapposto a un “non-io”, da cui si ritira con un atto di distinzione etica.248
Separando la mia forza e il mio ambito di competenza da tutte le altre forze e competenze, si apre davanti ai miei occhi una sfera operativa nettamente definita, nella quale il mio saper- fare, la mia volontà, ma soprattutto l’incarico di plasmare la mia stessa esistenza assurgono,
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in un certo senso, al potere assoluto […] Il lavoro antropotecnico su sé stessi inizia con l’evacuazione dello spazio interiore mediante lo sgombero di ciò che non ci riguarda.249
Questa sfera operativa altro non è che la dimensione del dōjō per il kendōka, il luogo del “workshop dell’appropriazione di sé”,250 dove il praticante definisce la propria sfera personale dove dimostra di saper-fare, facendo emergere quella che è la sua “vera personalità” grazie al potere assoluto di cui gode in questa sfera. E si può notare chiaramente quanto le parole di Claudio, la sua concezione di dōjō come luogo in cui si abbandona il proprio “sé mondano”, combacino con le teorie di Sloterdijk secondo cui ogni antropotecnica inizia con lo “sgombero di ciò che non ci riguarda” nello spazio interiore: fare piazza pulita di tutto ciò che potrebbe interferire con l’antropotecnica che ci apprestiamo ad applicare su noi stessi.
Claudio parla proprio di “dimensione”, concetto più esteso che comprende spazio e tempo insieme, e abbiamo visto anche il senso di “reclusione” del kendō nel parallelismo tra dōjō e monastero. Inoltre, anche Giacomo avanza il parallelo tra dōjō e chiesa, luoghi sacri in cui i codici di comportamento subiscono una sensibile revisione, epurandosi dalla “sozzura” del mondano. Abbiamo visto inoltre come Bodei e Le Breton considerino queste “fughe da sé” come un dispositivo di costruzione identitaria fondamentale: integrando le loro osservazioni con quelle avanzate da Sloterdijk, possiamo notare come questo processo passi attraverso una trasfigurazione del sé in uno spazio e tempo altri, quelli in cui è enucleato il dōjō, dove il “te stesso” mondano viene, più che abbandonato, epurato dei gravami dell’habitus fuggendo dalla “sfera insozzata”, per dirla con le parole di Wittgenstein. La trasfigurazione della palestra in dōjō apporta valore: il dōjō diventa un luogo quasi sacrale, di purificazione, dove decostruirsi per poi rigenerarsi all’insegna del miglioramento. Dice Fulvio, parlando della palestra dello Sporting 2000:
Prima è una palestra, che è un luogo insulso, adibito solo all’attività fisica. Quando entriamo noi, il primo gesto è un gesto di saluto, ti inchini al luogo dell’apprendimento, il luogo dell’illuminazione, e diventa dōjō. È il salone centrale di un tempio zen, e noi lo riconosciamo per tale. Noi infatti ci sediamo su un lato del dōjō è perché riconosciamo il lato d’onore, dove si siede il sensei. Per i maestri quello è anche il luogo dei kami, degli antichi, di chi ci ha preceduto, della tradizione. Il luogo dell’antico ma non passato, che è sempre valido. E l’inchinarsi è riconoscere questo: inchinarsi è considerare che chi ci ha preceduto sono persone non da venerare, ma da considerare ancora.
(Fulvio, 23/09/2016, Varese)
249 Ibidem. 250 Ibidem.
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Fulvio riprende il discorso dell’“antichità” e la fa coincidere con “valore”: un gesto antico, tradizionale, è un gesto dotato di senso. Nomina anche i kami, creando una connessione tra “kendō”, “Giappone” e “sacralità”. Ed esattamente come dicono Sloterdijk e Bowman, per Fulvio “antico” non equivale a “vecchio”, ma è quel passato che è sempre attuale, un “non passato”, un “presente perdurante”.251
Come abbiamo detto prima, lo spazio è un pretesto: qualsiasi luogo può diventare, potenzialmente, dōjō. Con queste parole, Claudio dice che
il dōjō è il posto dove pratichi. Però […] il dōjō è il “luogo della via”: non è importante il luogo dove sei, ma l’attenzione, il riguardo, la mentalità che hai verso quel posto. Se tu lo fai in una palestra, hai la definizione della palestra; se tu ti vuoi allenare all’esterno, questa definizione delle mura non c’è più.
(Claudio, 22/09/2016, Varese)
Il dōjō non è tanto un luogo fisico: può essere una palestra come un prato, o una sala qualunque. Il dōjō è principalmente uno spazio mentale, generato e definito da relazioni rifondate e sensibilità re-indirizzate; è un microcosmo, ma sospeso, differenziato rispetto al “resto del mondo”. Ritorna qui utile il parallelo con la vita conventuale:
La vita monacale si distingue dunque dalla vita normale per tre aspetti: in primo luogo, l’ingresso in un ordine religioso implica l’adesione al sistema di regole accuratamente prescritte che animano la vita monastica di questa o quella osservanza. All’interno della cultura normale, invece, si cresce senza che mai nessuno ci chieda se vogliamo sottometterci alle sue regole, nella maggior parte dei casi, anzi, senza mai riflettere se, in generale, i modi di vivere del posto siano caratterizzati da una regula.
Il dōjō è quel luogo dove entra in vigore un sistema di regole nuovo, che dovrà essere rispettato con un’attenzione e consapevolezza ancora maggiori rispetto alla quotidianità. Fra tutti i valori di cui le regole si fanno veicolo, il rispetto occupa la posizione privilegiata, soprattutto per Ermanno: “vedi, per me il rispetto e l’onore sono basi. I giapponesi hanno un credo: patria, l’imperatore, la famiglia, il lavoro… E io avevo questa
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mania dell’ordine, di parità, di rispettare gli altri, di cercare delle cose più eque”.252 Claudio inoltre dice:
ti stacchi dal solito luogo della mentalità italiana, per cui sì, c’è un rispetto, ma è al massimo il non buttare le cose per terra; entri in una dimensione diversa, dove il rispetto deve essere più intenso, anche come atteggiamento, come posizione del corpo, come rispetto anche verso gli altri.
(Claudio, 22/09/2016, Varese)
Il dōjō è il luogo dove la sensibilità viene acuita, amplificata, e di conseguenza anche le virtù cardine per il praticante come il rispetto e l’attenzione.
Abbiamo visto dunque il ruolo chiave che l’immaginazione ha nel kendō. Alcuni praticanti forse non approverebbero quanto detto perché sminuirebbe la “realtà” del kendō, ma trovo che invece sia fondamentale, perché è quel dispositivo mentale senza il quale lo slancio ascetico non potrebbe altrimenti attuarsi. Solo tramite l’immaginazione possiamo renderci conto dei vantaggi che otterremmo cambiando la nostra vita, proprio figurando mentalmente come saremmo se riuscissimo a incorporare il nostro modello ideale. La capacità mentale dell’uomo di immaginare altre vite, di uscire dai limiti del reale e di sé stesso, è la condizione di possibilità della metanoia, distinzione etica, del salto ascetico e dell’esecuzione degli esercizi antropotecnici.
Il dōjō può divenire anche un luogo di riscatto sociale: quando si inizia la pratica del kendō come principianti, tutti sono uguali, allo stesso livello. Da quel momento, all’individuo si apriranno numerose porte, si offriranno svariate possibilità con cui sarà possibile creare e “personalizzare” (inteso proprio come “plasmare come persona”) sé stessi. Sottoponendosi a un sistema di regole nuovo, si vede offerta la possibilità di diventare anche un uomo nuovo. Le gerarchie, come abbiamo detto, ci sono, ma ora sono tutte alla portata del praticante che, se spenderà le sue energie nel modo migliore, potrà sperare di raggiungerle. Non si tratta tanto di brama di primeggiare sugli altri praticanti come un arrampicatore sociale: è piuttosto una nuova occasione per trovare e costruire attivamente una dimensione di senso, per rifondare quelle relazioni percepite come insoddisfacenti, inadeguate a sé stessi, tramite l’evasione fantastica da esse. L’immaginazione è infatti “un antidoto alla povertà e alla finitezza di ogni esperienza individuale”, e grazie ad essa possiamo da una parte
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porre rimedio alla dipendenza da condizioni non scelte, diventate necessarie e ormai irrimediabili, ma che a posteriori appaiono casuali (luogo e data di nascita, corpo sessuato, famiglia, lingua comunità), dall’altra, di contrastare il progressivo restringimento del cono dei possibili nel corso degli anni. Letteratura, teatro ed esperienza riflessa attraverso la filosofia o la storiografia ci rendono partecipi delle infinite combinazioni di senso che gli inevitabili limiti storici e geografici dell’esistenza individuale rendono, di fatto, inaccessibili.253
L’immaginazione è il punto di partenza per incorporare in noi il modello ideale. Praticare kendō è un modo per entrare in un contesto e in una “mentalità” diversa, “parecchio diversa”. Abbiamo dunque a che fare con un modello, quello del samurai e della società giapponese, per il quale il kendō è una vera e propria “chiave d’accesso”. Ermanno, maestro del Mizuta Kendō Club Venezia, intima in un allenamento: “Non pensate alla occidentale!”. Praticare kendō è la via per sentirsi in qualche modo giapponesi, di immaginare un’altra vita altrimenti inaccessibile, seppur fantasticata.