Ricordandoci che lo zen era stato eletto ad “essenza” dell’unicità giapponese, e che il kendō si presenta come una disciplina simbioticamente legata allo zen, non riesce difficile pensare a quanto sia rilevante la questione della prassi come strumento alternativo di conoscenza. Fulvio, infatti, si è dimostrato particolarmente attratto da questo aspetto: un giorno mi ha riferito le parole di un maestro giapponese di kendō, ovvero “il kendō è il modo migliore per capire il Giappone”. Fulvio prosegue: “per me è un canale privilegiato. Il maestro era Deshimaru, ed era un maestro zen. E lui mi aveva detto anche che il kendō è il modo migliore per comprendere lo zen, perché tutto ciò che è zen non si può “dire”, parlare. Tu lo devi praticare. E attraverso lo zen io ho cercato di capire com’era l’anima dei giapponesi”.138 Il kendō non è il solito canale teorico per la conoscenza della “cultura di un paese”, quello dei libri di studio o delle lezioni universitarie; il suo plus valore è il suo essere una pratica. In questo modo, è possibile davvero, per il praticante, vivere il Giappone, riprodurre incorporandole la “mentalità” e la “socialità” giapponesi. Perché, altrimenti, moltissimi praticanti hanno ammesso di essersi interessati al kendō perché appassionati di cultura giapponese, oppure anche solo affascinati dall’Oriente? Le stesse ragioni, d’altronde, per cui l’ho cominciato io. In occasione di una cena col dōjō Mizuta nel mio primo anno di pratica con loro, il maestro Ermanno mi chiese come mai avessi intrapreso la pratica del kendō, e io risposi prevedibilmente “perché mi interessa la cultura giapponese”. La risposta di Ermanno fu: “beh, come per tutti all’inizio!”. Il maestro Betti ricorda che “quando all’inizio abbiamo iniziato a fare kendō eravamo molto pochi, e avevamo tutti un amore, un’adorazione per il Giappone”. Se un maestro con anni di pratica e insegnamento del kendō alle spalle mi ha risposto in questo modo, il fatto che fare kendō sia considerato un requisito fondamentale per una conoscenza a 360 gradi (come ha detto Emilio) del Giappone, testimonia chiaramente quanto questi discorsi attecchiscano alle menti dei praticanti. Claudio mi ha detto che in qualche modo il kendō “ti ‘costringe’ a conoscere meglio la mentalità e la cultura giapponese, perché ci sono certi aspetti fondamentali del kendō che finché non riesci a immedesimarti nella mentalità giapponese
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non puoi capire. Quindi, il praticare kendō ti trascina nel mondo giapponese, ti dà la possibilità di comprenderlo meglio, di andare oltre quello che sei in quel momento”.139
La concezione del kendō come prassi contribuisce inoltre ad alimentare l’esclusività dell’esperienza e della comprensione del kendō. Dichiarando che il kendō non possa essere compreso se non praticarlo si fanno emergere quelle rappresentazioni condivise sull’Oriente che fanno del kendō una disciplina aristocratica, quasi esoterica.
Io sono convinto che una valutazione del kendō dall’esterno non permetta di capire cosa davvero stia facendo chi fa kendō. Le persone normali, quando ci vedono combattere, pensano che noi diamo tante bastonate: sta lì a spiegare che la posizione della mano è diversa, che il colpo di shinai è a taglio…Non viene compreso. Non è immediato. Nel pugilato il pugno lo vedi, è immediato. Nel kendō il taglio è talmente veloce che quando faccio l’arbitro io certi colpi non riesco neanche a vederli. Eppure devo riuscire a vederli. La mia concentrazione è massima […] il kendō lo apprezzi se lo fai, se lo pratichi; dall’esterno no. Ti annoia. Ai mondiali io ho passato otto ore a guardare le gare; mia cognata dopo mezz’ora era già stufa. Per me invece ogni shiai era una cosa nuova: mi piaceva vedere come reagivano le contendenti. Per lei era tutto uguale. Per chi non lo pratica, non riesci a distinguere la posizione di una mano, di un piede…Vedere come reagisce uno al colpo dell’altro, la sua reattività, la sua velocità. Kendō mi piace perché è veloce e dinamico.
(Fulvio, 23/09/2016, Varese)
Lo stesso discorso dovrebbe infatti valere anche per qualsiasi altro sport, eppure sono innumerevoli gli spettatori e tifosi che non hanno mai praticato lo sport di cui sono appassionati; eppure raramente ci si stupisce. Sicuramente il praticare kendō di persona mi ha aiutata nella stesura di questa tesi, e sicuramente ritengo sia importante, per una comprensione completa del kendō, averlo sperimentato sulla propria pelle. Tuttavia, credo che l’essenzialità della pratica sia particolarmente rimarcata proprio perché alle sue spalle ha i discorsi di cui ho trattato in precedenza, che alimentano l’aura di elitarismo del kendō e di conseguenza il suo prestigio agli occhi di praticanti e non. Ritengo che la soluzione ideale sia uno studio congiunto, teorico e pratico, delle arti marziali, approcci da cui si possono trarre diverse e utili conclusioni che invece non emergerebbero escludendo uno dei due.
La stretta connessione tra “kendō” e “cultura giapponese” produce una particolare attenzione all’aspetto estetico della disciplina, perché come vedremo nella seconda parte della tesi nel capitolo dedicato al kendō come evasione, nella pratica di quest’arte marziale è coinvolta anche la riproduzione di un’estetica marcatamente “giapponese”, che suscita
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fascinazione e invoglia alla pratica. Alla dimostrazione svoltasi a Varese, alcuni fra il pubblico hanno affermato di essersi fermati a guardare proprio perché attratti dall’esotismo dell’abbigliamento, come Emilio: “la prima attrazione proveniva dal vestiario”.140 La fascinazione visiva per il kendō coinvolge anche la cerimoniosità del saluto, il suo rigore, il che si ricollega a sua volta all’idea di conservazione dell’autenticità del kendō, che consente di vivere una vera e propria “esperienza giapponese”. Sempre Emilio mi ha detto: “per me chi pratica arti marziali lo fa per entrare nella cultura giapponese. La cosa principale è la cultura, comunque. Ritornare alle basi di cosa ci insegnano i giapponesi.”
L’avvicinamento dei due mondi diventa tangibile, reale, incorporato, perché con il kendō, come dice Mara, puoi conoscere la filosofia giapponese. Nell’occasione della pratica sembra crollare quel muro invalicabile che divide “mentalità orientale” e “mentalità occidentale”; o meglio, si vengono a formare delle crepe, degli spiragli che aprono una via di comunicazione tra le due parti. Claudio più volte mi ha detto che noi, in fondo, siamo italiani: non potremo mai pensare veramente come i giapponesi, non potremo mai cambiare
completamente mentalità. Secondo il maestro Betti, un’eccessiva aderenza all’etichetta
giapponese si deformerebbe addirittura in uno “scimmiottamento”, un inutile tentativo di assimilare quella che è una cultura per lui radicalmente diversa dalla nostra. Il maestro Tada Ryuzō è stato addirittura piuttosto categorico nella distinzione tra mentalità occidentale e mentalità giapponese. Tada lavora molto spesso in Europa, tra Francia e Italia, e ha avuto svariate occasioni di contatto con praticanti europei. Parlando dopo un allenamento, mi ha detto:
In japanese culture we have a different way. Teachers don’t teach so much theory, we should understand by ourselves, with experience. We shouldn’t ask sensei so much, it’s unpolite.
Sensei puts so much effort, and we should understand immediately, by ourselves. It’s very
different..
(maestro Tada, 21/09/2016, Varese)
L’insegnamento del kendō in Giappone è molto diverso, secondo l’esperienza di Tada, dal kendō in Europa: i giapponesi, avendo in qualche modo interiorizzato l’etichetta prevista dal kendō, poiché è la stessa, in forma amplificata, dell’etichetta giapponese quotidiana, non hanno bisogno di ulteriori “spiegazioni”. La teoria è ridotta al minimo, se non assente; kendō e giapponesi sono quasi una cosa sola, come se lo “avessero nel sangue”,
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“nel loro DNA”. Anche Takeuchi Jun, un ex-direttore amministrativo della AJKF, afferma che un’abilità tecnica nel kendō non basta, se non si ha una conoscenza del background filosofico e spirituale fondato sugli ideali del bushidō, la cui accessibilità risulta tuttavia estremamente problematica, sottintendendo impossibile a livello profondo, per un occidentale.141
Eppure la pratica del kendō, secondo i praticanti, può comunque aiutarci ad assottigliare le differenze, e anzi, sembra essere il modo migliore per farlo. Dice Claudio:
il kendō in qualche modo ti “costringe” a conoscere meglio la mentalità e la cultura giapponese, perché ci sono certi aspetti fondamentali del kendō che finché non riesci a immedesimarti nella mentalità giapponese non puoi capire. Quindi, il praticare kendō ti
trascina nel mondo giapponese, ti dà la possibilità di comprenderlo meglio, di andare oltre
quello che sei in quel momento.
(Claudio, 22/09/2016, Varese)
Ecco perché, come vedremo nello specifico nella seconda parte della tesi, sarà necessario assimilare un habitus giapponese per poter realmente conoscere il Giappone sulla propria pelle: grazie al lavoro antropotecnico, è possibile “diventare un po’ giapponesi”. Vediamo a tal proposito il caso di Ermanno, che mi ha inoltre raccontato con orgoglio questo episodio in cui ha dimostrato di aver assimilato il metodo giapponese di insegnamento del kendō.
come ben sai, Venezia è passaggio di turisti. Tempo fa erano passati due ragazzi giapponesi, e hanno chiesto se potevano guardare. Uno mi dice che avevo il metodo giapponese di insegnare, e per me è stato un grande onore, vuol dire che avevo appreso. Poi ero appena stato in Giappone, dal maestro Mizuta. Mi ha detto che come insegnavo, come trasmettevo il mio kendō, era abbastanza orientale, e mi ha fatto molto piacere.
(Ermanno, 22/11/2016, Mestre)
Ancora Mara mi ha detto che, pur ritenendo come anche Claudio che noi occidentali “pensiamo in modo diverso”, quindi non potremo mai rispettare l’etichetta con la facilità e la naturalezza dei giapponesi, tuttavia il kendō
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Ti introduce in un’ottica completamente diversa. Riesci a capire come pensano anche persone di una cultura completamente diversa. E nonostante questa etichetta il tuo “io” viene fuori per forza di cose, perché attraverso rigidi insegnamenti riesci a trovare dentro te stessa qualche cosa.
(Mara, 25/07/2016, Tradate)
Si tratta infatti di “cambiare sé stessi”, di diventare “altro da sé” al fine, quasi paradossale, di “scoprire sé stessi”, e Marta Sernesi fa notare come sia proprio una prerogativa del buddhismo moderno quella di offrire un’esperienza di “trasformazione del sé”, proprio perché enfatizza l’aspetto della pratica.142
At heart, martial arts as they are practiced in Japan are “practice arts,” like flower arrangement and tea ceremony. Practice arts entail a type of situated learning (Lave & Wenger, 1991), wherein individuals learn a practice by doing, while at the same time developing a social competence within a community of practice (Singleton, 1998: 4). Practice arts often hold a long-term goal of self-improvement through the learning process (Hahn, 2007), so actions that impede that goal are antithetical to the practice art itself.143
Tutti i praticanti che ho intervistato si sono detti cambiati nel profondo dalla pratica del kendō, si sono sentiti liberati dalle loro repressioni. Mi racconta Mara:
più andavo avanti, più mi incuriosiva, perché non è soltanto un esercizio fisico, ma anche qualcosa che ti aiuta a crescere come persona, nella tua interiorità. E quindi sì, nel tempo sono cambiata tantissimo, grazie alle mie esperienze di vita, ma anche grazie al kendō. Diciamo che le mie esperienze di vita e il kendō sono andati di pari passo, sostenendosi l’un l’altro, e la persona che sono oggi è tale anche grazie al kendō.
(Mara, 22/09/2016, Varese)
Lorenzo Perrucci parla di un “rapporto di crescita legato alla cultura orientale”;144 Gioele mi ha detto che “sicuramente non si cambia mentalità solo all’interno del dōjō, ma essendo un lavoro più profondo, che si porta avanti nel tempo, per forza di cose bisogna agire sulla propria vita, sul proprio pensiero […] Non solo come un passatempo da fare nel tempo libero la domenica, ma un lavoro di vita”. Allacciandoci alle parole di Gioele,
142 SNODGRASS, Presenting Japanese Buddhism…, cit., p. 267.
143 Benjamin M. COLE, Lessons from a Martial Arts Dōjō: A Prolonged Process Model of High-Context Communication, in “Academy of Management Journal”, 2015, vol. 58, n. 2, pp. 567-591, 2015, p. 570. 144 Lorenzo, 11/07/2016, Madesimo.
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vediamo ora la stretta correlazione tra kendō e vita, anch’essa esito dei discorsi orientalisti che ho illustrato.
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