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1.7 “Il kendō insegna al di là del dōjō”: kendō e vita

Il fatto che lo zen di Suzuki sia una filosofia che va messa in pratica per essere compresa pienamente lo rende sicuramente affascinante agli occhi dell’occidentale abituato a un tipo di filosofia più “scolastica”, fatta di pesanti manuali e confinata alla mera teoria, senza applicabilità nel quotidiano e nella vita, ed è proprio questa “immediatezza” libera da ingombranti corpus dottrinali che ha favorito la diffusione a macchia d’olio dello zen. Tuttavia, questa enfasi sulla pratica (in particolare meditativa) dello zen si inserisce in quel gioco di specchi tra Oriente e Occidente che ha interessato la riconfigurazione moderna del buddhismo.

Strettamente legata a questa costruzione è la concezione per la quale non più il canone testuale ma la prassi meditativa diventa il luogo distintivo ove si trova il “vero buddhismo”, il cuore dell’insegnamento religioso. R. Sharf (1995) ha dettagliatamente criticato l’assunto secondo il quale l’esperienza meditativa come “transformative personal experience” è storicamente un elemento centrale della pratica monastica buddhista, mostrando inoltre come le correnti buddhiste contemporanee che enfatizzano l’esperienza meditativa siano il frutto dell’incontro con l’Occidente. In effetti, in molti paesi asiatici buddhisti, nel contesto della costruzione del modernist Buddhism gli ordini monastici furono spesso profondamente riformati – nella prassi, nel ruolo sociale, nella ideologia – e quasi tutti gli insegnanti che operano oggi in Occidente (nel cosiddetto convert Buddhism, sul quale vedi sotto) sono stati educati all’interno di queste nuove correnti.145

Ciò detto, risulta più chiaro perché si è scelto di dare rilievo, tramite l’approccio selettivo al buddhismo, a quegli aspetti che privilegiano la pratica alla teoria: il fine era proprio quello di ritrarre il buddhismo come alterità radicale rispetto alla filosofia occidentale, contrapponendo all’approccio teorico della seconda quello pratico del primo. Il carattere pratico dello zen moderno gli ha conferito un’applicabilità trasversale che lo fa spesso uscire dalla dimensione della sacralità per entrare in una più quotidiana e prosaica. Cercando su google “lo zen e…”, nel menu a tendina i primi risultati a comparire sono: Lo zen e l’arte della manutenzione della bicicletta, lo zen e l’arte di mangiar bene, lo

zen e la fotografia, lo zen e l’arte di innamorarsi, ecc. Lo zen diventa applicabile a qualsiasi

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aspetto del quotidiano, proprio in virtù del suo essere qualcosa che “si fa”, una chiave per approcciarsi a un’attività, a un aspetto della vita in maniera alternativa e, a quanto pare, migliore. Non sorprende quindi che una conseguenza di questa concezione dello zen sarà addirittura la sua sportificazione tramite le arti marziali; anzi, la sua peculiare coagulazione di teoria e pratica, di filosofia e vita, fanno dello zen l’ingrediente perfetto per codificare un’ideale antropotecnica sportiva: grazie al suo essere sia una disciplina mentale, sia fisica, l’arte marziale risponde perfettamente alla domanda di benessere psicofisico della società dei nostri giorni. Il kendō si propone così come un’antropotecnica “olistica”, che interessa tanto la mente quanto il corpo.

L’applicabilità dello zen (e dunque del kendō) alla vita quotidiana ha un ulteriore risvolto sempre all’interno dell’antropotecnica: diventa uno stile di vita. Se il soggetto si ritira col suo atto di distinzione etica e nel suo “frangente allocronico ed eterotopo” della pratica, come vedremo nella seconda parte, qui vediamo come poi ritorni nel mondo, come dice d’altronde il capitolo di Devi cambiare la tua vita “Il soggetto in ritiro ritorna nel mondo”. Vediamo ora come le risposte alla mia domanda in merito al rapporto tra kendō e vita siano state estremamente uniformi tra i miei interlocutori, segno dell’efficacia delle rappresentazioni condivise, dei discorsi. Dice Fulvio

kendō è uno stile di vita, e io lo applico tutti i giorni, a scuola, nei rapporti coi miei ragazzi,

coi miei colleghi. Alcuni di loro non mi amano, perché sono molto diretto. Se una cosa non mi interessa, io sorvolo. Non perdo il mio tempo in disquisizioni inutili. Lo applico a casa, quando la sistemo e la pulisco. Per me anche fare determinati lavori manuali è zen, perché fatti in un certo modo hanno un certo senso. Anche quando sono in palestra, e metto in ordine il dō, il kote, il men… Per me è zen. È il modo come io interpreto la situazione.

(Fulvio, 23/09/2016, Varese)

Anche Ermanno dice

Il discorso che si fa ai principianti, “quando entri lasci [il dōjō] blabla”, non vale più quando arrivi a un certo livello. Dentro quella porta o fuori, è uguale. Giustamente qui si pratica una disciplina, ma non è che quando esci cambia tutto. No, sono uguale. Sono me stesso: me stesso fuori e me stesso dentro. Qui dentro faccio la pratica del kendō, ma fuori sono me stesso e so come comportarmi, il rispetto, qualsiasi emozione. Il kendō insegna al di là del

dōjō, anche e soprattutto fuori. Infatti c’è sempre questa unione delle due cose, di

sopravvalutare troppo il kendō, o sopravvalutare troppo la vita personale. Devi equipararle invece, devono camminare assieme. Allora si riesce.

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Kendō e vita vanno di pari passo, per i praticanti: il kendō forgia quella persona che

deve essere forte in vista della vita. Come dice Ermanno, “il kendō insegna al di là del

dōjō”:146 il soggetto in ritiro deve ritornare nel mondo, e ciò è possibile perché lo zen è una prassi applicabile al quotidiano; se così non fosse stato, la pratica del kendō sarebbe stata una reclusione totale, senza vie d’uscita, chiuso in sé stesso. Mara, praticante del Kyūshin- ryū di Varese, mi ha confidato “nel tempo io sono cambiata tantissimo, grazie ad esperienze di vita, ma anche grazie al kendō. Diciamo che le mie esperienze di vita e il kendō sono andate di pari passo, sostenendosi l’un l’altro, e la persona che sono oggi è tale anche grazie al kendō.” Anche Alessandro mi dice

vedo nel kendō cose che riesco ad applicare nel mondo, per gestire le tensioni, non lasciarsi schiacciare, anche sul lavoro. Sicuramente mi ha aiutato molto per la crisi con Silvana soprattutto la psicoterapia, però secondo me sono stati entrambi gli aspetti, mente e corpo, a farmela superare.

(Alessandro, 26/11/2016, Varese)

Un aspetto del kendō che i praticanti trovano particolarmente determinante nella formazione di un carattere più solido e strutturato è il fatto che il kendō sia un’arte marziale che si fonda sull’attacco, non sulla difesa. La guardia del kendō è sempre propositiva, proiettata in avanti; le schivate sono sconsigliate, considerate mezzucci da gara. Fulvio ci ha sempre detto che per evitare un colpo bisogna rispondere con un altro colpo: se il mio colpo sarà più veloce e preciso di quello dell’avversario, avrò la meglio. L’attacco, inoltre, non si esaurisce nel momento in cui viene sferrato il colpo, ma come dice Lorenzo è sempre propositivo per un altro colpo.

Forse l’idea che un colpo nel kendō non è mai a sé stante, ma è sempre un’azione che ti deve portare a qualcos’altro. È solo l’inizio di una infinita successione di cose a cui tu vai sempre rispondendo positivamente. L’ippon è una certa chiusura nel kendō, chiudi il colpo e l’azione, ma sei comunque sempre propositivo per un’altra azione. Quindi non c’è quest’idea che dopo il colpo sia tutto finito, ma ogni colpo è sempre propositivo. E questo si rispecchia anche molto nella vita, secondo me.

(Lorenzo, 20/10/2016, Venezia)

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Alla mia domanda se pensa che il kendō possa aiutare nella vita, Lorenzo mi ha risposto con sicurezza che si rivela utile “nell’attitudine nei confronti di tutte le situazioni che devi affrontare nella vita: università, amici, amore, famiglia, soldi. Sicuramente ti dà la capacità di attendere di più le cose, ma anche di saper rispondere più tempestivamente”.147 Allo stesso modo, Andrea mi ha detto che “il kendō può esser visto come un modo per affrontare la vita: il tuo avversario un giorno potrebbe essere il fidanzato che ti lascia, un amico con cui litighi, un lavoro che non ti soddisfa… Mille cose. Il kendō allena la resilienza con cui affronti determinate cose”.148 Allo stesso modo, secondo Giacomo l’abitudine a coltivare in allenamento stati mentali come quello di sutemi 捨て, “sacrificio”, aiutano poi ad applicarli nella vita.

Hai presente il concetto di sutemi, “sacrificio”? Io ci ho messo molto tempo ad acquisirlo, e anzi, non credo di averlo ancora acquisito del tutto. Certo, un conto è farlo ad allenamento, un altro è farlo nella vita, ma penso abbia migliorato la mia propensione a non esser troppo passivo. Penso mi abbia aiutato a mantenere quello stato di tranquillità della situazione di eventuale attacco.

(Giacomo, 27/01/2017, Varese)

Anche l’atto di indietreggiare è segno di debolezza e insicurezza: mai farlo durante un combattimento; durante il sonkyo 蹲踞 quando ci si alza bisogna fare sempre un passo in avanti, puntando con determinazione lo shinai contro l’avversario. Non bisogna mai lasciar trapelare la minima titubanza, o meglio, non bisogna mai provarla: il kendōka ideale è il kendōka che riesce a combattere con una mente limpida, non intorbidita da pensieri superflui e distraenti. Tutti questi aspetti, la tempestività d’azione, la propensione all’attacco, la sicurezza nel combattimento, nonché l’importanza di instaurare delle relazioni sane e rispettose, fanno del kendō una vera e propria “palestra di vita” agli occhi dei praticanti. Per questo praticanti come Claudio Santagati hanno ammesso di aver cominciato kendō proprio per essere forti caratterialmente e fisicamente, per reagire anche ad episodi di discriminazione o bullismo.

147 Lorenzo, 20/10/2016, Venezia. 148 Andrea, 25/07/2016, Tradate.

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Il kendō è profondamento inserito nella vita del praticante: se lo sport, come abbiamo visto nell’articolo del maestro Rigolio, è per quest’ultimo svago, passatempo, di- vertimento disimpegnato, il kendō è invece proiettato alla vita, inserito in essa, perché della vita deve accettare tutti gli ostacoli e le complicazioni. Per lui “il kendō invece richiede altro approccio. Bisogna andare in profondità, concentrarsi, accettare momenti di frustrazione pura che poco hanno a che vedere con il divertimento. Il kendō può essere interessante, a tratti anche divertente, ma non può competere con altre attività sul piano del divertimento”.149 Abbiamo visto tuttavia che il momento della pratica del kendō è un frangente di evasione: ma è un’evasione percepita come sensibilmente differente da quello che può essere un mero momento di relax. È un’evasione necessaria per concentrare le energie mentali, liberandole del superfluo, in vista del miglioramento di sé stessi. Anche per Claudio praticare kendō è parte di un ciclo continuo di evasione e ritorno al mondo.

Entrare nel dōjō vuol dire lasciarsi dietro una mentalità diversa, entrare in una dimensione spirituale a sé stante, dove il tuo scopo non è più quello che avevi prima, ma riuscire a migliorare te stesso, per poi portare questo allenamento anche nella vita quotidiana. Però secondo me c’è proprio bisogno di staccare, soprattutto per noi occidentali, staccare dalle nostre abitudini. Perché il modo di camminare, il modo di porsi con gli altri, nel kendō è più definito dall’etichetta giapponese, che è più rigida rispetto alla nostra, e quindi anche tu devi riuscire a staccarti dalla tua mondanità, dal tuo essere occidentale, per riuscire a entrare in una spiritualità, in una mentalità diversa.

(Claudio, 22/09/2016, Varese)

Kendō e vita dialogano: il praticante fa kendō in vista della vita e di conseguenza la

sua vita si adatta al kendō, fino a una compenetrazione dei due momenti che, in una fase avanzata, diventano indistinguibili. Ma questo non è ovviamente un processo immediato, come dice Fulvio, ma “lento e lungo”.

Non riesci ad acquisire subito quei principi da applicare poi nella vita di tutti i giorni. Però, dopo anni e anni e anni, ti rendi conto che il tuo modo di essere all’interno e all’esterno del

dōjō è la stessa cosa. Non ci sono variabili così intense: ti comporti in base a quel modello di

vita che hai voluto assumere, e che è diventato tuo.

(Fulvio, 23/09/2016, Varese)

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Ma soprattutto, e questo ci aggancia alla seconda parte della tesi, il nesso kendō-vita è fondamentale per il più ampio discorso dell’antropotecnica: è proprio questo “nesso inscindibile” che conferisce al kendō la sua autorità in quanto antropotecnica, il garante della sua efficacia, una risposta senza ambiguità all’imperativo: “Devi cambiare la tua vita!” proprio perché si offre di intervenire sulla vita stessa, di colmare le lacune dell’uomo fornendogli un’interfaccia col mondo, l’habitus. Della sua efficacia in questa operazione tratteremo nel corso della tesi.

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PARTE II