Cosa distingue il kendō dagli sport? Innanzitutto, un kendōka non accetterebbe che lo si definisca “sport”, pena non solo sminuirlo, ma non coglierne per niente il vero significato di “disciplina”. Lo sport è relegato a mera attività fisica, dove la disciplina è sì presente, ma con la macchia dell’arrivismo: il feticismo della vittoria, la mancanza di un’etichetta ben definita, la dimensione solo ludica ecc. fanno dello sport solo un passatempo, mentre il kendō sarebbe molto di più, “un lavoro di vita” come ha detto Gioele. Ma questa concezione del kendō va fatta risalire al sistema di rappresentazioni che contrappongono Oriente e arti marziali a Occidente e sport, e sono proprio queste rappresentazioni che stabiliscono l’abisso di distanza tra le due pratiche. Distanza che, come vedremo ora, viene smentita dall’effettiva esperienza, nella pratica e nella percezione, delle due attività.
Iniziamo con la definizione di “sport”. Bennett cita due teorizzazioni: una di Allen Guttmann, che individua sette caratteristiche distintive, ovvero “secularism, equality of opportunity to compete and in the conditions of competition, specialization of roles, rationalization, bureaucratic organization, quantification, the quest for records”,129 e una di Timothy Chandler, che definisce lo sport come “a structured, goal-oriented, competitive, contest-based, ludic, physical activity” dove sono imposti “rules, goals, and the criteria by which success and failure can be judged”.130 Sia secondo Bennett, sia secondo me, il kendō rientra in entrambe le definizioni. Perché allora non definirlo come tale?
Per quanto anche nel kendō, come ammesso dai praticanti stessi, divertirsi sia non solo possibile, ma importante, tuttavia non è percepito come un divertimento “sportivo”. A tal proposito, leggiamo le parole del maestro del dōjō Kenzan di Gallarate Luigi Rigolio, tratte da un suo articolo pubblicato sulla rivista online della CIK “Ki”. Nel capitolo Il kendō
e gli “sport”, Rigolio scrive:
129 Citato in BENNETT, Kendo, cit., p. 194. 130 Ibidem.
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Il kendō è un’attività che si pratica nel tempo libero ma non è un’attività del tempo libero. Tutte le persone che praticano kendō da molti anni hanno un approccio al kendō estremamente diverso da quello del dopo-lavorista che prenota l’ora di tennis con un collega.
Kendō e divertimento infatti non vanno molto d’accordo. Di-vertirsi significa distrarsi, uscire
dalla routine per un momento di svago. Il kendō invece richiede altro approccio. Bisogna andare in profondità, concentrarsi, accettare momenti di frustrazione pura che poco hanno a che vedere con il divertimento. Il kendō può essere interessante, a tratti anche divertente, ma non può competere con altre attività sul piano del divertimento.
Personalmente ho un grande rispetto per il “gioco” come attività formativa, ma il lungo percorso del kendō va affrontato con motivazioni diverse.131
In un altro capitolo, Kendō e la competizione sportiva, manifesta la sua amarezza nei confronti del lato sportivo del kendō, percepito come “male necessario” per la sua diffusione.
Per quanto detto sopra anche la “retorica sportiva”, fatta di coppe, medaglie, Campioni, fatica ad integrarsi con il mondo del kendō. Molti principianti si avvicinano alle discipline del BUDO immaginando un ambiente “diverso” da quello sportivo. I media, impegnati a diffondere il peggio del mondo, fanno altrettanto con lo sport, riportando puntualmente tutti gli scandali.
Dunque nessuna sorpresa che molte persone disprezzino il mondo dello sport. Per costoro scoprire che il mondo del kendō presenti un lato “sportivo” è già una parziale delusione, per non dire di quando si viene a sapere delle polemiche arbitrali o di vicende che, nell’immaginario collettivo, sono tipiche del demonico ambito del “calcio”.
Per alcuni, che potremmo definire idealisti o puristi, il marcio deve rimanere fuori.132
La struttura di un allenamento di kendō non è tanto diversa da quella di uno sport: riscaldamento muscolare iniziale, studio dei colpi fondamentali, studio di tecniche e combattimento finale. È gestito da associazioni sportive, che ne curano la diffusione in Giappone e nel mondo; ci sono anche stage, competizioni amichevoli e non, tornei nazionali e internazionali; esami che conferiscono gradi e abilitazioni all’insegnamento. Eppure, non lo si definisce uno sport. Come mai? Sono proprio i discorsi che definiscono il kendō che ci dicono che non si tratta di uno sport, quelli di cui ho parlato nel primo
131 http://www.kendo-cik.it/wordpress/?p=1799 132 Ibidem.
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capitolo dell’elaborato: quei discorsi sull’Oriente contrapposto all’Occidente, sull’Oriente come luce e spiritualità che sono medicina e realizzazione per quegli individui insoddisfatti del loro habitus occidentale. Se è vero che si è storicamente sviluppato con una notevole componente più “spirituale”, soprattutto nel periodo di pace Tokugawa, il kendō è figlio del dialogo tra “Oriente” e “Occidente”, e risponde a quello che l’Occidente si aspetta dall’Oriente, in un gioco di specchi. Non è il kendō in sé che fortifica e forgia le personalità; sono i discorsi che lo sostengono a dircelo. Il kendō deve essere così, perché è orientale. Il
kendō si definisce, ed è definito, come uno dei più espliciti tra gli esercizi ascetici: è
un’antropotecnica dichiarata. L’obiettivo di forgiare corpo e mente è ciò da cui trae sostegno in ogni suo aspetto. Ma la più grande differenza tra kendō e sport risiede non tanto nella sua forma effettiva e nella pratica, ma nel contenuto dei discorsi che lo definiscono e nel grado di esplicitazione del suo potenziale antropotecnico presente proprio in questi discorsi. Questi discorsi sono effettivamente decisivi nella percezione personale del kendō, e conducono a un atteggiamento diverso nei confronti della pratica rispetto, ad esempio, al calcio: nel kendō infatti non esiste un tifo violento come quello degli ultras, e il clima che si respira ai mondiali è ben diverso da quello dei mondiali di calcio. O forse è vero che sono più i praticanti di kendō, o delle arti marziali, che danno la priorità alla crescita interiore piuttosto che gli “sportivi”, che in proporzione sono più interessati al conseguimento della vittoria. Tuttavia, è bene sottolineare come appunto non sia lo sport (o arte marziale che sia) in sé a generare questo approccio. La preponderanza di un certo approccio più “interiorizzato” e meno arrivistico al kendō è dovuto alla sua natura di
esercizio dichiarato. Questa sua caratteristica è formalizzata e istituzionalizzata nei precetti
fondamentali del kendō istituiti dalla AJKF nel 1975, già citati ma che riporterò nuovamente qui:
The Concept of Kendō
The concept of Kendō is to discipline the human character through the application of the principles of Katana (sword)
The Purpose of Practicing Kendō
- To mold the mind and the body
- To cultivate a vigorous spirit, and through correct and rigid training, to strive for improvement in the art of Kendō
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- To associate with others with sincerity, and to forever pursue the cultivation of oneself. This will make one able: to love his/her country and society, to contribute the development of culture, and to promote peace and prosperity among all peoples.133
Questa ufficializzazione dei propositi del kendō funge da vero e proprio “pilota” dell’opinione dei praticanti, che vedranno nel kendō ciò che i discorsi dicono che esso contiene. Facendo l’esempio della scherma, come già accennato lo sport con cui il kendō più si confronta perché è il suo corrispettivo occidentale, assistiamo a un fenomeno di denigrazione e stigmatizzazione da parte dei praticanti di kendō, perché nella scherma non sarebbero presenti quei valori (primo fra tutti il senso del rispetto) che farebbero grande il
kendō. La scherma è raccontata come un’attività superficiale, competitiva, e priva di
“codici d’onore”: ma ancora una volta, se pensiamo al passato della scherma, ovvero l’arte di combattimento degli spadaccini europei, riesci difficile privarlo di qualsiasi etica o morale (basti leggere I tre moschettieri di Dumas). A ciò possiamo aggiungere anche quanto detto in precedenza, ovvero che i samurai, lungi dall’essere guerrieri integerrimi e fermi nel loro codice d’onore, spesso mettevano da parte quest’ultimo per realizzare i loro scopi, anche ricorrendo a inganni, doppigiochi, imboscate, tradimenti, ecc. Come sostiene Bourdieu, lo scarto tra la regola, tra la teoria, e la pratica effettiva della regola a seconda delle circostanze è sempre rilevante, e va preso in considerazione.134
Anche l’aspetto estetico non è affatto estraneo agli sport: la ricerca costante della perfezione dell’esecuzione del gesto propria del kendō è riscontrabile in molti sport, come i tuffi o la ginnastica ritmica, che sono addirittura interamente basati sull’estetica del gesto. Il kendō invece è paradossalmente più finalizzato e “materialista”, perché in esso la ricerca formale convive con il punto da conseguire necessariamente per garantirsi la vittoria. Il tuffo, invece, è pura estetica: non dovrebbe bastare questo a rendere i tuffi lo sport ascetico, disinteressato, aristocratico per eccellenza, o ancora a fargli trascendere lo status svilente di sport? Eppure non è così; perché non è orientale.
Con questi esempi non voglio tuttavia denigrare eccessivamente il kendō: questo processo avviene con qualsiasi prodotto umano, se accogliamo una visione costruzionista e non essenzialista, che nega un valore ontologico agli elementi della realtà. Abbiamo sempre bisogno di qualcuno o qualcosa che ci dica “cosa è” qualcosa per maturare un
133 https://www.kendo-fik.org/english-page/english-page2/concept-of-Kendo.htm
134 Pierre BOURDIEU, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello
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giudizio di valore e un gusto personale. Il mio intento è piuttosto spingere a riconoscere che i propositi del kendō non sono appannaggio esclusivo del kendō, perché chiunque, anche chi pratica lo sport considerato più “sciocco” o “insulso”, può vedere in esso quello che un kendōka vede nel kendō. Prendiamo ad esempio lo sport forse più elementare di tutti: la corsa. Pur non avendo alle spalle un’immagine di statura iconica e di prestigio come quella del samurai o quell’etica eroica e guerriera ad essa connessa, nonché un corpus teorico e pratico legato alla spiritualità orientale come base legittimante, anche i podisti hanno elaborato una “filosofia della corsa” atta a nobilitare il loro sport. Cercando su google le parole chiave “filosofia” e “corsa” campeggiano numerosi articoli a riguardo: “La corsa? Non è solo fitness, è anche filosofia”; “Correre è una filosofia: perché si corre”; “Filosofia della corsa”; “La corsa come filosofia di vita”, e via dicendo (e questi sono solo i risultati in italiano). Prendiamo degli estratti dall’ultimo sito citato, “La corsa come filosofia di vita”: si legge la storia di Salvo, podista appassionato che ha fatto della corsa parabola esistenziale ed elemento chiave della ricerca di senso nella sua vita.
Anni di sacrifici, anni ad inseguire tanti piccoli sogni, alcuni raggiunti, altri visti volare via. Tante di quelle volte sono “caduto”, ma altrettante volte mi sono saputo rialzare e sono ripartito, ed ogni volta con una forza interiore sempre più forte […] Una continua sfida con sé stessi, prima che con gli altri. Fissare degli obiettivi e provare sempre a raggiungerli, costi quel che costi. Anni interi vissuti con questa filosofia che mi ha accompagnato non solo nella corsa ma anche nella vita, e mi ha sempre permesso di vivere con determinazione ogni singolo giorno […] Alla Stramilano ci andrò per festeggiare il mio compleanno, ma ci andrò soprattutto per sfidare me stesso!135
Se si sostituissero i termini relativi alla corsa con quelli del kendō, ne risulterebbe un discorso molto simile a quello di un kendōka, per non dire identico. Molti dei miei interlocutori hanno addotto le stesse motivazioni di Salvo per legittimare e dotare di senso la loro pratica del kendō: il concetto di “sfida contro sé stessi”, in particolare, è ricorrente. Sia il kendō, sia la corsa, sono descritti come “palestre di vita”, frangenti di tempo finalizzati a coltivare il proprio carattere, la propria determinazione, che ci offrono quei limiti destinati ad essere superati per temprarci alle sfide della vita, anche quando la forza di volontà è al minimo. Ermanno, maestro del Mizuta Kendō Venezia, mi ha detto:
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Nel kendō combatti prima di tutto con te stesso. Il primo nemico sei tu stesso. Conosci la frase: “Se conosci te stesso, conosci mille nemici”. La competizione è interiore, e questo mi piace moltissimo. Nella vita, come ben sai, ci sono alti e bassi. Ci sono le persone più deboli e quelle non dico più forti, ma meno deboli. Chi riesce e chi non riesce. Col mio carattere, la mia tenacia, la mia caparbia, ho sempre voluto riuscire, non mi sono mai arreso, prima di arrendermi devo proprio essere…! Quindi forse karate prima, e kendō dopo, mi hanno dato questa forza di mettermi in discussione.
(Ermanno, 22/11/2016, Mestre)
Anche Giacomo si è espresso in maniera molto simile, rimarcando inoltre la penuria di valori degli sport occidentali in confronto al kendō, in cui mancherebbe virtuosamente il feticismo della vittoria e i cui gesti sono al contempo etici ed estetici, eleggendolo dunque più a “pratica valoriale” che a sport:
Senza nulla togliere a quelle persone che si allenano come dei matti, che fanno gare, per me, fondamentalmente, il kendō non è un percorso che ti insegna ad ammazzare una persona, non ti insegna a sconfiggere un avversario. Secondo me, il kendō è una cosa che ti insegna a superare te stesso. Il kendō è fondamentalmente un processo di automiglioramento, una lotta che fai contro di te per farti maggiore di quello che sei oggi, e per essere domani migliore di oggi. Io penso che trascurare questo aspetto del kendō lo riduca a uno sport. Come ho detto prima, a me ha sempre affascinato il fatto che quello del kendō non fosse un gesto solamente pragmatico, ma avesse una valenza estetica e che possedesse dei valori.
(Giacomo, 27/01/2016, Varese)
Vediamo ora quanto le considerazioni di Giacomo somiglino a quelle di Mara.
inizialmente ho iniziato kendō senza sapere davvero cosa mi aspettava. Solo dopo averlo iniziato ho capito che potevo trarne dei benefici. Sinceramente non riesco a trovare delle discipline altrettanto efficaci nella formazione del carattere: io ho fatto pallavolo, ma l’unica cosa che può fare a livello di carattere è solo darti un po’ di determinazione, il fatto che magari in squadra non devi abbatterti, perché se stai perdendo peggiori solo la situazione, o se sei capitano devi tirar su il morale alla squadra, e sì, da quel punto di vista forgia un po’ il carattere. Ma tu sei lì con l’idea “gioco e mi diverto”. Nel kendō sì, puoi divertirti e ti diverti quando combatti, soprattutto quando sei in amicizia coi tuoi compagni, ma tu sei lì con l’idea che devi migliorarti, mentre negli sport occidentali il miglioramento è visto solo come miglioramento fisico e pratico. Sarebbe come voler migliorare solo la forma nel kendō, ma in quest’ottica arriverei al massimo a terzo dan. Oltre non riesci andare, perché è richiesta anche una componente psicologica. Se mi trovo davanti un avversario, anche avendo la forma migliore del mondo ma non ho imparato a conoscere me stessa, e a migliorarmi anche dal punto di vista caratteriale, è difficile che io riesca a prevalere.
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“Sport occidentali” e “arti marziali orientali” non sono però compartimenti stagni, ma possiamo notare varie spie che ci dicono quanto in realtà l’una guardi all’altra per legittimarsi in vari modi. In particolare, gli sport occidentali hanno spesso mutuato quella terminologia e “bagaglio concettuale” proprio delle arti marziali per rispondere alla pressione esercitata da queste ultime. Vediamo un articolo tratto dal sito della nota rivista ancora una volta di corsa Runner’s World: aprendo la pagina, vediamo subito la foto di una ragazza in tenuta da ginnastica, seduta in una stereotipata posizione di meditazione. L’articolo si intitola Corsa, culto e meditazione: viene qui illustrato come anche la corsa possa essere un esercizio di meditazione zen.
Scott Jurek, fondista americano molto noto a livello internazionale, attribuisce il suo
successo nelle gare all’approccio meditativo. “Quando corro è come se spegnessi il rumore
del mondo - afferma -. Alcune persone, mentre s’allenano, pensano a come risolvere i loro
problemi o ascoltano musica. Io cerco di concentrarmi sul mio corpo e di godere di ciò che mi circonda. Questo mi è di grande aiuto nelle gare. Sono in grado di correre come se avessi il pilota automatico e di superare i momenti di crisi. Come si fa? Non esiste una vera spiegazione, è un fatto spirituale”. Quello che Jurek descrive, a qualcuno potrebbe suonare familiare. Questo stato elevato di consapevolezza si avvicina al concetto di “corsa zen”. Vivere il running con un maggior senso di consapevolezza e di apprezzamento può renderti più forte, più sicuro e, forse, anche più felice.136
Vengono esposti anche i “benefici spirituali” della corsa, che aiuterebbe a “rasserenare la mente, facilitare l’introspezione e aiutarti a diventare più virtuoso e completo”. Se anche lo sport dunque può aiutare a coltivare lo spirito, e può addirittura adottare il lessico delle arti marziali, che proprio in virtù della stilizzazione e dello sradicamento cui è stato sottoposto diventa traslabile e applicabile ai contesti più disparati, dove sta la differenza?
Curiosando per la libreria La Feltrinelli di Mestre, ho potuto notare una sezione piuttosto nutrita di testi dedicati alla filosofia dello sport. E non comprendeva solo arti marziali, anzi: i testi trattavano di tennis, corsa, ciclismo, ecc. Nell’introduzione al testo La filosofia va in
bicicletta, vediamo un excursus sull’humus culturale del ciclismo, fatto risalire alla filosofia
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greca dovuto al contesto “occidentale” in cui è sorto il ciclismo, e dunque ad essa intrinsecamente legato.
Oltre ad essere un fenomeno sociale e di costume, lo sport costituisce anche un’autentica espressione di cultura […] una di quelle [pratiche sociali] che riflette con maggiore fedeltà gli umori di una società e consente di penetrare nelle pieghe più intime della storia. Lo sport è stato inventato dagli antichi greci, al pari di altre forme di vita che sono entrate a far parte del nostro modo di pensare e di organizzare il mondo. Tra queste, una delle più importanti e durature nel tempo è stata la filosofia.137
Vediamo qui messo in atto uno dei meccanismi che abbiamo già avuto modo di analizzare in precedenza: l’appello all’“antichità” come statuto legittimante, come licenza di autorevolezza. E quale modello più autorevole della filosofia greca? In questo modo, anche uno sport occidentale come il ciclismo può vantare un legame con la filosofia, non solo le arti marziali o il kendō con lo zen, di modo da competere con loro ad armi pari.
Ma possiamo notare un’ulteriore analogia con il kendō: il legame tra sport e “mentalità” del paese in cui nasce. Alla mia domanda rivolta a Claudio su cosa, a parer suo, mancasse all’Occidente che invece lui ha trovato nell’“orientalità” del kendō, la sua risposta è stata:
il rispetto. Lo sport e le arti marziali sono il riflesso della mentalità del paese. Perché non è nato qualcosa come il kendō qui in Italia? Qui, questo tipo di combattimento era più subdolo, non da incontro diretto. Rispettava più la mentalità occidentale, più alla ricerca di redenzione, salvezza, seconde possibilità. Guarda il combattimento a fioretto, ci vogliono 15 punti. A
kendō abbiamo gare con 3 punti, perché effettivamente nel kendō con 3 punti puoi uccidere
una persona. Nella scherma sono tante piccole ferite che possono anche non portarti alla morte, quindi puoi fermarti, essere curato… C’è sempre l’idea di una sfida, ma con una scappatoia. Mentre gli scontri del kendō non durano un’eternità. Due colpi. Trovo che sia questo che manca all’Occidente. Visto che ci sono seconde possibilità, si trovano sempre scappatoie, mezzucci per togliersi la responsabilità. Mentre nell’atteggiamento giapponese no. Se c’è qualcosa che non va, questo si ammazza, oppure, se ho fatto una cavolata, mi dimetto. Mentre qua è un “Ma no, è colpa di quello lì, ma sai, è successo questo e quest’altro”.