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"To mold the mind and the body": il kendō come antropotecnica

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea

magistrale in

Antropologia culturale,

etnologia, etnolinguistica

ordinamento ex D.M. 270/2004

Tesi di Laurea

“To mold the mind and the body”

Il kendō come antropotecnica

Relatore

Ch.mo Prof. Federico Squarcini

Correlatori

Ch.mo Prof. Gianluca Ligi Ch.ma Prof.ssa Franca Tamisari

Laureanda

Susanna Roffredi Matricola 853112

Anno Accademico

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Indice

Introduzione … 1

PARTE I – KENDŌ E ORIENTALISMO

I.1 “Io sono un kendōka” … 6 I.2 Ripensare l’Oriente… 10

- I.2.1 Parlare dell’altro per parlare di sé … 10 - I.2.2 Il potere delle rappresentazioni… 16 I.3 Inventando la “tradizione giapponese” … 22

- I.3.1 L’“antichità” e l’invenzione della tradizione … 22 - I.3.2 I samurai erano davvero zen? … 25

- I.3.3 L’Oriente come “diversità familiare” … 35 I.4 Comprare la spiritualità … 42

- I.4.1 Zen e mercato … 42

- I.4.2 Spiritualità: libertà e benessere … 49 I.5 “Il kendō non è uno sport”? … 55

I.6 “Il kendō è il modo migliore per capire il Giappone” … 65 I.7 “Il kendō insegna al di là del dōjō”: kendō e vita … 71

PARTE II – KENDŌ E SCULTURA DI SÉ

II. 1 L’antropotecnica … 78

- II.1.1. Essere sempre superiori a sé stessi … 80 II.2 La disciplina … 88

- II.2.1 Perché esercitarsi? … 88 - II.2.2 Icone e inadeguatezza … 91

- II.2.3 “La marzialità della certezza” … 95

- II.2.4 Bushidō: il kendō come sistema etico … 106 II.3 Kendō come secessione … 115

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- II.3.1 “Io odio la massa”: fuggire dalla sfera insozzata … 115 - II.3.2 Fuggire dal quotidiano … 125

II.4 Kendō come evasione … 127

- II.4.1 “Era un mondo completamente nuovo, e mi ha subito affascinato”: immaginazione e scultura di sé … 127

- II.4.2 “Noi viviamo un anacronismo”: kendō e “antichità” … 130 - II.4.3 Un altro mondo: allocronia ed eterotopia … 134

- II.4.4 Narrazione e sospensione dell’incredulità … 141 II. 5 “To mold the mind and the body” … 145

- II.5.1 “Devi scolpire il tuo corpo!” … 145 - II.5.2 Leib e Körper … 154

- II.5.3 “Un corpo che si muove senza bisogno di pensare”: kendō e habitus..157 - II.5.4 Sulla propria pelle: incorporare un “habitus giapponese”… 166

- II.5.5 “Nel kendō non si cresce mai da soli”: kendō come habitus e habitat 171 - II.5.6 Da jutsu a dō: il gesto etico ed estetico … 183

- II.5.7 “Il bello del kendō è che dura tutta la vita”: kendō e vitalismo … 189

Conclusioni … 194

- La scultura di sé … 194

- L’antropotecnica: inefficacia efficace … 206

Bibliografia e sitografia … 214

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Introduzione

The Purpose of Practicing Kendō

- To mold the mind and the body

- To cultivate a vigorous spirit, and through correct and rigid training, to strive for improvement in the art of Kendō

- To hold in esteem human courtesy and honor

- To associate with others with sincerity, and to forever pursue the cultivation of oneself. This will make one able: to love his/her country and society, to contribute the development of culture, and to promote peace and prosperity among all peoples.1

Come si può notare, “to mold the mind and the body” è il primo tra i propositi del kendō 剣道 (“la via della spada”) sanciti nel 1975 dalla All Japan Kendō Federation (AJKF), l’organo che si occupa della promozione e diffusione del kendō in Giappone. L’intento del

kendō di costruire sé stessi, di scolpire e forgiare mente e corpo incidendo su di essi le

antiche virtù del bushidō di cui si fa attuale depositario mi ha portato a individuare nel

kendō un’esemplare antropotecnica. Antropotecnica, d’altronde, significa proprio “essere

tecnici dell’essere umano”, ovvero “to mold the mind and the body”. Come sostiene anche Roberto Esposito, la potenzialità (antropo)tecnica dell’uomo è un fatto di natura: “l’uomo è l’animale programmato a mutare di continuo la propria programmazione […] la natura umana manifesta una tecnicità originaria che siamo non solo liberi di assumere, ma chiamati a sviluppare”.2 Basandomi principalmente sul modello di antropotecnica teorizzato da Peter Sloterdijk, filosofo tedesco e figura di spicco nel ramo dell’attuale antropologia filosofica, illustrerò come il kendō sia uno di quegli esercizi, di cui l’antropotecnica si compone, che l’uomo da sempre compie per elevarsi spiritualmente e fisicamente, spinto da una tensione derivante dall’imperativo assoluto “Devi cambiare la tua vita!” (ripreso da una poesia di Rilke) perché così non si può più andare avanti. Il kendō, dunque, in virtù del suo proporsi non come sport, ma come disciplina il cui primo scopo è la costruzione di sé stessi all’insegna del miglioramento interiore, è un chiaro esempio di antropotecnica in quanto esercizio dichiarato: significa, difatti, la via della spada, intesa

1 https://www.kendo-fik.org/english-page/english-page2/concept-of-Kendo.htm 2 Roberto ESPOSITO, Le persone e le cose, Torino, Einaudi, 2014, p. 87.

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come percorso spirituale di elevazione tramite l’esercizio con la spada stessa. L’antropotecnica descritta da Sloterdijk è un vero e proprio sistema immunitario di natura mentale, pratica e simbolica, costruito e sistematizzato per scongiurare l’horror vacui di un’esistenza priva di punti di riferimento naturalmente dati, e soprattutto per far fronte e debellare la paura della morte. Tramite l’antropotecnica, l’uomo instaura un rapporto di senso col mondo e soprattutto dà un significato alla sua vita, colmandone i vuoti inserendo ogni atto umano o elemento del mondo in una costellazione di segni e simboli, intrecciati tra loro in un rapporto di senso che testimoni l’“esserci-nel-mondo” dell’uomo: la cultura. L’obiettivo della mia tesi sarà dunque partire dall’analisi del kendō, per la quale ho condotto anche una ricerca sul campo integrata dagli anni di pratica alle mie spalle, inserendolo nel più ampio discorso dell’orientalismo, per poi ricondurlo all’ancora più ampio concetto di antropotecnica. L’orientalismo sarà protagonista della prima parte della tesi, in quanto fondamentale legittimazione del kendō come antropotecnica, il discorso da cui è plasmato e da cui attinge quell’autorità e quel prestigio che ne garantiscono l’efficacia e il fascino come dispositivo di costruzione identitaria agli occhi dei praticanti. Cercherò, con un approccio il più possibile critico, di decostruire e poi ricostruire non solo la storia del kendō, ma anche e soprattutto le sue percezioni e i significati di cui è investito, non solo a livello diacronico, ma anche sincronico, mediante le interviste rivolte ai vari praticanti con cui sono entrata in contatto nel corso della mia ricerca sul campo, ma che ho potuto percepire, sia negli altri, sia in me stessa, anche nei miei cinque anni di pratica. Analizzerò il kendō come una disciplina che è anche un atto di significazione di sé stessi e del mondo, un’antropotecnica che affonda le sue radici nell’idea di “Oriente” da cui trae quei segni, simboli e significati che conducono chi vi entra in contatto per via pratica ad avere una determinata percezione ed esperienza di esso, e che fornirà quell’equipaggiamento mentale e simbolico3 per colmare il proprio vuoto e scolpirsi in quanto individui eccezionali, stra-ordinari, forte della legittimazione conferita dall’“orientalità” del kendō. Nei primi due capitoli della prima parte infatti mi occuperò del potere sui praticanti delle rappresentazioni condivise che hanno forgiato, sedimentato e diffuso quell’immaginario collettivo legato all’Oriente; vedremo come il discorso orientalista fornisca quella griglia semiotica che i praticanti utilizzeranno per decifrare l’“Oriente”, “il Giappone”, e dunque anche “il kendō”. In seguito mi soffermerò in particolare sulla questione spinosa dell’“invenzione della

3 Peter SLOTERDIJK, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, trad. di Stefano Franchini, Milano,

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tradizione” di cui anche il kendō è stato oggetto, dove mostrerò come la cosiddetta “antichità”, uno dei requisiti massimi per ottenere quel prestigio che garantisca valore e autorevolezza, sia sovente una costruzione a tavolino finalizzata proprio a ottenere questo prestigio, ma per ragioni affatto assolute, ma determinate da contingenze storiche, politiche e sociali, e soprattutto sancite da chi detiene il potere di dichiarare l’“antichità” di uno o più elementi del mondo. Nel quarto capitolo invece mi dedicherò alla “spiritualità orientale”, configuratasi come medicina per i “mali dell’Occidente” esito della crisi dei beni simbolici locali, e al mercato ad essa connesso; all’approccio selettivo allo zen che ha consentito la sua diffusione e commercializzazione, fattore che ha inciso anche sulla moderna configurazione delle arti zen e in particolare del kendō, A seguito di queste premesse teoriche illustrerò poi, nel capitolo cinque, come il discorso orientalista connoti il kendō come qualcosa di “altro” rispetto agli sport, risultando determinante nel giudizio dei praticanti che lo definiranno “superiore” proprio perché si pone esplicitamente come una “pratica valoriale” in grado di forgiare l’individuo per temprarlo alle difficoltà della vita. Nel sesto capitolo mi occuperò invece dell’inscindibilità di zen e kendō, anch’essa esito dell’invenzione della tradizione e di quella modernizzazione dello zen operata da vari intellettuali tra fine XIX e inizio XX secolo, tra cui in particolare spicca l’intervento di Suzuki T. Daisetz, che ha a sua volta come esito la convinzione che il kendō sia “il modo migliore per capire il Giappone”, conseguenza anche della configurazione dello zen non solo come espressione della pura “essenza giapponese”, ma anche in quanto prassi. Al discorso sullo zen in quanto ortoprassi sarà legato il settimo capitolo, dove vedremo come essa determini l’applicabilità dello zen, e dunque del kendō, alle esperienze quotidiane e dunque più estesamente alla “vita”, contribuendo a connotarlo come un’antropotecnica esemplare.

Nella seconda parte della tesi mi dedicherò invece più nello specifico all’intervento del kendō sull’uomo in qualità di antropotecnica, alla luce del prestigio riconosciutogli dai praticanti e di cui abbiamo svelato la genesi nella prima parte della tesi, armamentario teorico utile per comprendere meglio perché il kendō sia un’antropotecnica così efficace e valida agli occhi dei praticanti. Ricalcando il modello teorico delineato da Sloterdijk, osserverò come le esigenze che spingono gli individui a rivolgersi a un’antropotecnica per scolpire sé stessi all’insegna del valore e della distinzione siano riscontrabili nelle interviste rivolte ai praticanti di kendō, a testimonianza della validità del modello di Sloterdijk nel dare una spiegazione alle modalità con cui l’uomo affronta l’horror vacui della sua esistenza. Nel primo capitolo presenterò l’antropotecnica come fondale, come scenario

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della mia analisi del kendō; nel secondo illustrerò come la disciplina del kendō sia l’esercizio antropotecnico specifico in oggetto tramite cui incidere su di sé le virtù di cui è depositario il sistema etico del bushidō, a sua volta legato alla figura iconica del samurai. Vedremo poi nel terzo capitolo come la secessione, esito della posizionalità eccentrica plessneriana, costituisca l’avvio dell’antropotecnica-kendō, l’innesco metanoico al lavoro su di sé mediante la distinzione dalla “massa dei mediocri” il cui risultato sarà la “fuga dalla sfera insozzata”, il ritiro in quell’“altro mondo” i cui confini sono circoscritti dal

kendō e dalla comunità di praticanti che ne accoglie e riconosce le regole che analizzerò

nel quarto capitolo. Il quinto capitolo, infine, sarà dedicato alle mie considerazioni su quel risultato, integrate coi concetti di Leib e Körper, per dimostrare come l’antropotecnica, la scultura di sé non possa prescindere dalla scultura del proprio corpo, proprio in virtù del fatto che noi siamo corpi.

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PARTE I

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I.1 “Io sono un kendōka”

Dire “io sono un kendōka” non produce lo stesso effetto che dire “io sono un pallavolista”, oppure “io sono un calciatore”, sia nel parlante, sia, nella maggior parte dei casi, nell’interlocutore. L’ho constatato personalmente nel corso dei miei cinque anni di pratica del kendō, nelle occasioni in cui mi è stato domandato quale sport facessi, o quando la gente rimaneva incuriosita dall’attrezzatura per la pratica (soprattutto da shinai 竹刀 e

bokken 木剣 )4 che talvolta mi sono portata appresso in occasioni di ritrovo dopo un allenamento. Ma nel momento in cui mi trovavo a spiegare a un interlocutore che si trattava di un’arte marziale giapponese, pur non avendone mai sentito parlare prima d’ora spesso sorgeva spontaneo in quest’ultimo far rientrare il kendō, con naturalezza e senza esitazione, in quel contenitore mentale che raccoglieva immagini, suggestioni, miti e credenze, chiamato “Oriente”. Se per giunta si trattava del Giappone, allora si trattava addirittura di

Estremo Oriente. Così, il kendō diventava meno incomprensibile e misterioso, e iniziavano

ad emergere termini quali “spiritualità”, “disciplina”, “zen”, “mentalità orientale”, ecc., nonché l’immagine dal sapore un po’ romanzesco del samurai. Come era possibile che, partendo da una totale ignoranza in merito al kendō, si fosse giunti a ricollegarlo automaticamente a tutto ciò? Si era venuto dunque a formare un terreno fertile per mettere in campo (e perpetuare) quella lunga e complessa serie di rappresentazioni condivise sull’ “Oriente”, dalle radici così profonde da risalire all’antichità classica, e che tutt’ora sembra essere estremamente vitale. Nel momento in cui viene svelato che si tratta di una disciplina “orientale”, si dischiude una intricata tessitura di rappresentazioni e significati che rimandano l’uno all’altro, nonché pratiche e simboli determinati da relazioni di potere, assimilati nel corso della vita, che fungono da categoria cognitiva per la comprensione di una realtà culturale che risulta ora lontanissima, ora vicina, e per entrare in contatto concretamente con essa. Tuttavia, l’“Oriente”, come vedremo, altro non è che una categoria cognitiva che finisce per semplificare e scarnificare quella che è una realtà culturale estremamente complessa, in divenire, disomogenea, porosa. Innanzitutto, si riferisce a una

4 Due tipi di spade usate per la pratica del kendō. Lo shinai è una spada in bambù composta da quattro

stecche e serve per il combattimento; il bokken è una katana in legno destinata all’esecuzione dei kata, esercizi formali in cui vengono messi in pratica modelli di situazioni di combattimento.

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porzione di mondo talmente vasta che volerla far rientrare sotto la categoria ombrello di “Oriente” risulterebbe un’impresa non solo impossibile, ma proprio errata, nonché indice di un approccio a-critico alla complessità della cultura, cui non ci si può certo approcciare con categorie pre-confezionate come quelle all’interno del contenitore “Oriente”. Eppure questa è la via più usata per riferirsi al mondo asiatico e per relazionarsi con esso, soprattutto da parte del mondo euro-americano (ossia l’“Occidente”): il fatto che si possa constatare anche in conversazioni in ambienti di quotidiana frequentazione che ci siano delle immagini e delle definizioni ricorrenti testimonia la diffusione e l’efficacia di quel contenitore semantico che è l’“Oriente”, contenitore che si annida non solo anche, ma soprattutto nelle menti dei praticanti. La consapevolezza di praticare una “disciplina orientale” è il primo e più importante strumento distintivo del praticante di kendō in quanto tale, e, come ho potuto constatare nella mia esperienza non solo di ricerca sul campo, ma anche personale, è proprio il suo essere “orientale” ad aver spinto molti praticanti proprio verso di essa, me compresa. Non posso negare di non essere sempre stata immune alle suggestioni e alle lusinghe dell’“Oriente”, e tutt’ora, nonostante cerchi il più possibile di distanziarmi con un approccio critico che sappia smascherarne i meccanismi, non posso escludere che in qualche misura influenzi ancora i miei interessi e i miei gusti. Ma proprio in virtù dell’influenza che la nozione di “Oriente” ha avuto nel mio percorso di praticante di kendō, e poi di studentessa universitaria, cercherò di illustrare le dinamiche che conducono un individuo a investire energie, tempo e passione nella seducente promessa dell’“Oriente” di colmare quello che è un originario vuoto (identitario, esistenziale) dell’essere umano. Ma per quanto discorsi identitari come quello prima citato dell’“Oriente” mirino a naturalizzare questi significati, uno studio che decostruisca i meccanismi di formazione, diffusione e radicamento di tali discorsi, fornendo modelli che permettano un approccio critico e consapevole ad essi, non può far altro che smascherare la natura fallace, effimera ed arbitraria di questi significati. Cercherò di illustrare come le rappresentazioni (che di certo non sono scevre dai rapporti di forza e dalle logiche di potere, ma anzi, sono in rapporto simbiotico con essi) influenzino le percezioni, i giudizi e i gusti degli individui, determinando anche le mancanze da colmare e le cure da impiegare per risolverle. È per questo che accogliere in maniera a-critica nozioni come quella di “Oriente” utilizzandola come categoria cognitiva per entrare in contatto con una realtà molto più complessa di quella ci viene presentata è un approccio semplicistico e scarno, che non permette un’adeguata conoscenza del mondo, limitandosi a presentarci quella che è più una geografia

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dal proporre una verità che abbia la pretesa di essere assoluta, il mio intento sarà chiarire i meccanismi alla base di certi processi identitari e di significazione, invitando a una maggiore consapevolezza della complessità della costruzione della cultura umana, che, per quanto a prima vista possa risultare dissanguata da questo approccio, è invece colta in modo più completo rispetto a quella che è solo una semplificazione e un appiattimento di essa, come adottando la categoria cognitiva di “Oriente”, che può ovviamente portare anche ad esiti estremamente negativi, come stereotipi discriminanti, razzismo, o a una visione gerarchica delle varie culture dove un paese dominante impone il proprio potere e la propria cultura a un altro paese in virtù della sua essenziale inferiorità (processo alla base del colonialismo, che vede nella nozione di “Oriente” come subalterno all’ “Occidente” la sua legittimazione).

Il potere delle rappresentazioni sarà da ricollegare, ovviamente, al contesto storico, sociale e culturale in cui vengono messi in atto, ma col mio lavoro di ricerca sul campo darò spazio anche all’esperienza personale dei vari praticanti, basandomi in particolare sulle informazioni tratte dalle interviste ai membri delle società di kendō di Varese e Venezia, di cui ho fatto parte. Sono in stretti rapporti da anni con i vari praticanti, e grazie a un clima di amicizia e confidenza già cementatosi nel corso dei nostri anni di pratica insieme, le interviste si sono rivelate particolarmente piacevoli e senza momenti di imbarazzo, sia a Varese, sia a Venezia. Ho approfittato di momenti di condivisione della pratica e non solo, come ad esempio un weekend in trasferta in Val Chiavenna dove l’allenamento è stata un’occasione per trascorrere del tempo insieme tra amici. A volte l’intervista si svolgeva in palestra prima o dopo un allenamento, ma altre davanti a un bicchiere di birra in tutta rilassatezza. Ho partecipato a diversi stage, come a Como e a Bologna, in cui ho avuto l’occasione e il piacere di parlare con maestri quali il maestro Betti e il maestro giapponese Tada Ryuzō. Ma è Fulvio, il maestro del dōjō 道場 Kyūshin-ryū 扱心流 di Varese nonché il mio primo maestro di kendō, che si è rivelato l’interlocutore privilegiato per la mia tesi. Quando gli ho parlato dell’antropotecnica, molte delle sue implicazioni erano già lucidamente e consapevolmente presenti nella sua mente, e la conversazione è proseguita con evidente partecipazione e coinvolgimento quando in vari momenti, dopo un allenamento o in occasione di cene o uscite col dōjō, abbiamo condiviso le nostre opinioni sul kendō in confidenza e affinità. Fra tutti, Fulvio è colui che più di tutti pratica kendō per forgiare sé stesso all’insegna del valore, per distinguersi

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aristocraticamente dalla mediocrità, per avvicinarsi a una cultura che lo affascina e nella quale ritrova quel senso di cui vede svuotata la sua realtà occidentale; processi, come vedremo, distintivi e fondanti dell’antropotecnica.

Il metodo che ho seguito nel mio lavoro di ricerca sul campo è in linea con quello proposto da Paul Bowman, docente dell’università di Chicago che si occupa del campo emergente dei martial arts studies. Tale approccio consiste in un’analisi congiunta tra i due metodi più in voga al momento: un’analisi più ideologica e un’analisi verificabile e più “prosaica”.5 Lungi dal voler perpetuare e rafforzare i miti e gli stereotipi delle arti marziali, Bowman propone di studiare le arti marziali sia dal punto di vista del loro effettivo sviluppo storico, cercando di essere il più oggettivi possibile, sia indagando gli effetti che diversi sistemi di conoscenza determinano a seconda del contesto. Oltre a offrire una ricostruzione prettamente storica del kendō, e dei discorsi che l’hanno generato e configurato nella sua forma attuale, cercherò, applicando il metodo della ricerca sul campo e dell’osservazione partecipante, di indagare come la personale conoscenza del kendō dei vari praticanti abbia determinato la loro specifica visione ed esperienza di tale pratica, in luce delle ideologie, delle suggestioni e dei miti portati avanti in particolare dal discorso orientalista. Prima di iniziare questa analisi è dunque doveroso un più articolato approfondimento sulla più volte citata questione dell’Oriente e dell’orientalismo. Ritengo sia opportuno darle notevole spazio non solo per l’effettiva influenza che essa ha avuto nella più diffusa percezione del

kendō, ma anche perché l’orientalismo è il luogo dell’antropotecnica “kendō”: “kendō”,

“antropotecnica” e “Oriente” saranno dunque i tre poli attraverso sui articolerò la mia tesi, poli che sono in costante dialogo tra loro, che rimandano l’uno all’altro e che si costruiscono a vicenda

5 Paul BOWMAN, Making Martial Arts History Matter, in “The International Journal of the History of

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I.2 Ripensare l’Oriente

I.2.1PARLARE DELL’ALTRO PER PARLARE DI SÉ

Perché mettere in discussione una nozione come quella di “Oriente”,6 considerata così reale da risultare ovvia e naturale? Nessun kendōka 剣道家 (praticante di kendō) che ho intervistato ha mai messo in discussione l’esistenza dell’Oriente e che il kendō sia in tutto e per tutto orientale. Il fatto che l’Oriente sia diventato qualcosa di familiare (paradossalmente, anche per la sua non-familiarità) è dovuto al fatto che esso è una rappresentazione sociale condivisa, che ha dunque una notevole diffusione e una rilevante influenza su una vasta porzione di individui. La formazione e la diffusione di immagini

turistiche ha enormemente concorso alla formazione e reificazione dell’Oriente, in quanto

coagulo di stereotipi che mirano ad esprimere l’“essenza” del territorio, finendo in realtà con l’astrarlo e lo smaterializzarlo, facendolo diventare un vero e proprio brand immediatamente riconoscibile.7

Se oggi termini come “karma”, “nirvana”, “guru”, “samsara” possono essere impiegati per siglare capi di vestiario o prodotti di profumeria, è proprio grazie al grado di riconoscibilità che essi hanno guadagnato profittando di un modo comune di “sentire” l’Oriente.8

È lo stesso meccanismo per cui dal termine “arti marziali” si ramifica un ventaglio di nozioni ricondotte a loro volta al background comune di “Oriente”, legato a un’idea di spiritualità, di disciplina, di misticismo, di irrazionalità. Degli “orientali”, Mara mi ha detto “secondo me loro sono molto più spirituali rispetto a noi. Noi siamo molto più pratici sotto molti aspetti. Loro sono molto più riflessivi”; Giovanni ha visto in loro un’attitudine comune alla disciplina; Lorenzo ha descritto “l’uomo occidentale” come una V e “l’uomo

6 Da questo punto in poi i termini “Oriente” e “Occidente” non verranno più virgolettati, a parte in casi il

cui l’ho ritenuto necessario.

7 Marco AIME e Davide PAPOTTI, L’altro e l’altrove. Antropologia, geografia e turismo, Torino, Einaudi,

2012, p. 9.

8 Federico SQUARCINI, Ex Oriente Lux, Luxus, Luxuria. Storia e sociologia delle tradizioni religiose sudasiatiche in Occidente, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007, p. 43.

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orientale” come una V al contrario; Claudio ha rimarcato più volte il fatto che i giapponesi abbiano “una mentalità completamente diversa dalla nostra”, parzialmente avvicinabile proprio grazie alla pratica del kendō; per il maestro Betti la mentalità giapponese è addirittura a tal punto diversa dalla nostra che ogni tentativo di farla nostra attraverso la riproduzione dell’etichetta e della disciplina del kendō si riduce a un mero “scimmiottamento”. Il riferimento costante a una “mentalità comune giapponese” è l’esito del potere delle rappresentazioni nei praticanti, e rende molto più immediato e “semplice” il trovare nel kendō e nell’Oriente il rimedio a ciò che si sente essere in crisi nel proprio bagaglio culturale e identitario. Per Claudio e per molti altri praticanti, fare kendō è prima di tutto un “cambiare mentalità”, adottando quella orientale per completarsi e migliorarsi.

Entrare nel dōjō vuol dire lasciarsi dietro una mentalità diversa, entrare in una dimensione spirituale a sé stante, dove il tuo scopo non è più quello che avevi prima, ma riuscire a migliorare te stesso, per poi portare questo allenamento anche nella vita quotidiana. Però secondo me c’è proprio bisogno di staccare, soprattutto per noi occidentali, staccare dalle nostre abitudini. Perché il modo di camminare, il modo di porsi con gli altri, nel kendō è più definito dall’etichetta giapponese, che è più rigida rispetto alla nostra, e quindi anche tu devi riuscire a staccarti dalla tua mondanità, dal tuo essere occidentale, per riuscire a entrare in una spiritualità, in una mentalità diversa […] Diciamo che l’anima rimane occidentale, è inutile far finta di essere diverso. Noi siamo italiani, quindi facciamo questa cosa da italiani. Però comprendere, e cercare di assimilare e simulare la mentalità giapponese, aiuta a capire meglio quello che bisogna fare, e aiuta anche a vedersi in maniera distaccata, sotto un’altra luce, e poter migliorare, perché secondo me le arti marziali, tutte queste arti nipponiche, la mentalità, per me offrono un miglioramento. Poi, ognuno ha le sue opinioni. Però aiuta a migliorare sé stessi.

(Claudio, 22/09/2016, Varese)

Il discorso orientalista ha una funzione identitaria, che in questo caso si rivela particolarmente spiccata perché propone delle chiavi di comprensione di una porzione di mondo costruita come un’alterità radicale rispetto a quello dove prende forma; e parlare dell’altro è forse una delle forme più efficaci per parlare di sé stessi. Dicendo “noi siamo italiani”, Claudio sta facendo riferimento a un habitus “italiano” da cui non è possibile uscire completamente per abbracciarne uno “orientale”, ma in questo modo sta dicendo cosa per lui sono gli italiani, in cosa si distinguono rispetto ai giapponesi, facendo ricorso a quelle grandi unità di misura che sono “Oriente” e “Occidente” per descrivere e stabilizzare sé stesso dal loro confronto. Attraverso lo stereotipo si enucleano ed esaltano quei paradigmi fondativi di un paese e di un’epoca come si vorrebbe che fossero, e nel caso dell’Oriente e del Giappone in particolare, come un’alterità radicale rispetto all’Occidente. Infatti, l’Oriente come è comunemente percepito è ciò che non è l’Occidente, è un “noi”

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contrapposto a un “loro”. Edward W. Said, pioniere degli studi post-coloniali, nella sua opera capitale Orientalismo (1978) illustra come Oriente e Occidente non siano altro che

discorsi, ovvero, per usare l’accezione di Foucault, quell’insieme di enunciati prodotti e

riprodotti all’interno di pratiche sociali, che configurano non solo i contenuti dei discorsi (prescrivendo dunque cosa si possa non si possa non solo dire, ma anche sapere), ma anche

chi ha l’autorità di pronunciarli. Il discorso è, dunque, un sito di potere: tutta la nostra

conoscenza, le nostre modalità di rapportarci col mondo e con gli altri, e in ultimo anche la nostra soggettività, sono definite dal discorso. Il linguaggio è il primo medium attraverso cui si articola e agisce il discorso: la nominazione e la classificazione attraverso il discorso è infatti la condizione di possibilità della nostra conoscenza.

Any language community, such as medicine, will share a methodology, phraseology and a body of thought which makes up their discourse. This discursive field contains within it rules governing language use within the community; thus certain usages will be prohibited as unacceptable or excluded altogether.9

Attraverso il linguaggio noi diamo senso a un mondo liquido e amorfo, privo di punti di riferimento naturalmente dati, enucleando ed etichettando i suoi elementi attraverso la nominazione per entrare in contatto concreto con esso. Serge Moscovici scompone il meccanismo alla base del linguaggio, nel quale individua nell’ancoraggio il processo tramite cui noi “ancoriamo” un significato a una parola.10 Non c’è dunque alcuna corrispondenza tra “realtà oggettiva” e linguaggio, proprio perché il significato che diamo alla prima non è qualcosa di “intrinseco” e presente in natura, in attesa di essere scoperto dall’uomo; anzi, è il discorso e il linguaggio attraverso cui agisce ad avere il potere di determinare i significati. Risulta chiaro, dunque, quanto grande sia questo potere e quanto sia determinante nella nostra percezione della realtà e nel nostro rapportarci con essa. L’approccio che adotterò io, detto costruzionista, è quello che mira a decostruire i meccanismi di formazione dei discorsi, e si contrappone a quello essenzialista, che vede le componenti del mondo come dotate di valore ontologico, di un’essenza immutabile.

Said definisce l’orientalismo come un discorso prodotto dalle potenze euroamericane in quanto “sistema di conoscenza dell’Oriente”, come “rappresentazione europea

9 Paul WAKE e Simon MALPAS, The Routledge Companion to Critical Theory, London, Routledge, 2006,

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dell’Oriente”, e come “un modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienze europea occidentale”, nonché “uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso”. 11 Il discorso orientalista infatti è una rappresentazione che si propone di fornirci gli strumenti per comprendere il diverso asiatico, e si articola secondo una logica di opposizione binaria: esso vede contrapposto un Oriente a un Occidente come fossero bianco e nero, l’uno l’immagine in negativo dell’altro. Sull’Oriente verranno dunque grottescamente proiettate tutte le caratteristiche che l’Occidente non vuole che gli appartengano: se i paradigmi fondativi dell’Occidente sono “la ragione, la scienza, il progresso, la libertà, l’individuo, la mascolinità, la razza bianca, ecc.”, quelli dell’Oriente saranno, o meglio dovranno essere, la tradizione, l’irrazionalità, la staticità, il gruppismo, la femminilità, la razza colorata, ecc.12 L’inconsistenza di questi paradigmi è facilmente smascherabile constatando come essi subiscano un’evoluzione nel corso del tempo. Uno degli stereotipi ricorrenti riguardo ai giapponesi, com’è noto, è che siano dei lavoratori efficientissimi, addirittura ai limiti del disumano; che siano sempre in perfetto orario, con una mentalità gruppista, volenterosi, rispettosi del loro capo con una devozione degna di un samurai per il suo signore. Sicuramente, il discorso sull’alterità orientale è qualcosa che colpisce, nel bene o nel male: per i praticanti più appassionati come Fulvio, rivolgersi all’Oriente è dovuto alla “non accettazione della situazione nella quale vivi, che è quella occidentale”;13 Alessandro e Rosario invece hanno confessato di essere quasi intimoriti dalla “stranezza” dei giapponesi, addirittura quasi robotica e disumana.

Io l’ho sempre temuto perché riconosco che sono molto diversi da noi. Sono stato sempre incuriosito, ma mi son mantenuto sempre distante, perché mi fanno un po’ paura! Li vedo come una macchina troppo perfetta. Io sono un tecnico industriale, e loro hanno insegnato anche a noi occidentali molte cose sotto l’aspetto dell’organizzazione industriale per avere il massimo della produttività. Li ho sempre visti come macchine perfette, poco umane, e questa cosa mi ha sempre mantenuto un po’ lontano. Poi certo, è un universo molto complesso, ci vorrebbe forse una vita per studiarli, conoscerli da punto di vista comportamentale.

(Rosario, 30/09/2016, Mestre)

Ma vediamo invece il passo citato da Iwabuchi Koichi, un resoconto dell’esperienza in Giappone dei missionari tedeschi:

11 Edward W. SAID, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. di Stefano Galli, Milano, La

Feltrinelli, 2013 (rist.), p. 12.

12 Toshio MIYAKE, Occidentalismi. La narrativa storica giapponese, Venezia, Cafoscarina, 2010. 13 Fulvio, 23/09/2016, Varese.

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The steady, systematic world to which we Nordic people were educated in unknown here on the average […] The Japanese worker is hardly willing to submit himself to the military discipline which according to our standards must rule the modern factory. He takes his holiday whenever he likes, he comes and goes as he pleases, and if he is scolded for such behavior, he leaves the company.14

Nessun praticante (e non solo) descriverebbe mai i giapponesi come nell’immagine di cui sopra. Eppure, un tempo gli stereotipi dominanti nel mondo europeo erano questi: totalmente opposti a quelli attuali.

Non solo: il caso del Giappone è particolarmente interessante perché si tratta non semplicemente di “Oriente”, ma di “Estremo Oriente”: dunque, il massimo grado di alterità e alienazione dalla nostra “realtà occidentale”. Uno degli esiti contemporanei di questa retorica che interessa la definizione di “Giappone” è infatti il concetto di “doppio-orientalismo”:15 il fatto che in Giappone convivano, come in nessun altro paese al mondo, modernità e tradizione, il cosiddetto “paese dei contrasti”. Questa è una delle retoriche più famose in circolazione, quella che viene sempre addotta a principale motivo di fascinazione per il mondo giapponese. Retorica che risulta facilmente smantellabile: come mai, per un italiano, vedere un tempio shintō (magari anche di recente ricostruzione, come non è raro in Giappone) accanto a un grattacielo avveniristico suscita una meraviglia che invece non ha mai trasmesso il vedere un grattacielo svettare dietro a una chiesa romanica a Milano? Ma d’altronde,

il turista sa cosa vuole vedere e fa di tutto per trovarlo, anche a dispetto dell’evidenza. Questo è particolarmente chiaro nel caso del turismo “esotico”, che concede più spazio all’immaginazione perché percorre spazi solitamente lasciati vuoti dai nostri pensieri quotidiani. Ecco allora che l’altro, il nativo, finisce per apparire, ai nostri occhi, sempre più simile a quello descritto e fotografato dalla guida, sulla rivista, sul catalogo, anche quando questo è diverso”.16

14 IWABUCHI Koichi, Complicit Exoticism: Japan and Its Other, “Continuum”, vol. 8, n. 2, pp. 49-82,

2009, p. 49.

15 Toshio MIYAKE, Mostri del Giappone. Narrative, figure, egemonie della dis-locazione identitaria,

Venezia, Edizioni Ca' Foscari-Digital Publishing, 2014.

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Sono sterminate le rappresentazioni nelle guide turistiche, nei siti internet, nei programmi televisivi17 o in qualsiasi altro testo divulgativo (e non) sul Giappone che promuovono questa immagine, innumerevoli le copertine di giornali con una geisha intenta a telefonare con un cellulare di ultima generazione, ammirata come una particolarità esclusiva del paese; oppure il maestoso monte Fuji che fa da sfondo a uno shinkansen 新 幹線, il treno ad alta velocità più veloce al mondo. Uno dei responsabili dell’imposizione di questo stereotipo è Il crisantemo e la spada, testo antropologico scritto da Ruth Benedict nel 1946. La Benedict non era certo nella posizione più imparziale e affidabile possibile: l’opera le era stata commissionata direttamente dal governo americano, al fine di “conoscere meglio” il nemico giapponese. Inoltre, aveva condotto la sua ricerca sul campo intervistando solamente i prigionieri giapponesi nelle carceri americane.18 Come si evince già dal titolo dell’opera, la Benedict articola la sua descrizione dei giapponesi come un confronto in chiave contrastiva tra mentalità occidentale/americana e mentalità orientale/giapponese, tra cultura della colpa e cultura della vergogna. Il Giappone è dipinto non solo come il paese i cui valori fondanti sono opposti a quelli americani, ma anche come il paese in cui questi valori sono in contrasto tra loro stessi, anche all’interno del contesto giapponese.

The Japanese are, to the highest degree, both aggressive and unaggressive, both militaristic and aesthetic, both insolent and polite, rigid and adaptable, submissive and resentful of being pushed around, loyal and treacherous, brave and timid, conservative and hospitable to new ways.19

L’enorme successo dell’opera della Benedict, anche tra gli ultra-nazionalisti giapponesi che ancora lo ritengono un testo valido per capire l’unicità della loro cultura,20 ha sicuramente contribuito a connotare nel sentire comune il Giappone come paese contraddittorio, misterioso, incomprensibile, alieno, caratteristiche che lo rendono sia sinistro, sia affascinante. E anche nella mia esperienza di campo, ho potuto constatare che

17 Si veda il programma Turisti per caso, andato in onda in Italia negli anni novanta, dove i due conduttori

viaggiano per il Giappone promuovendo un’immagine del paese che è un tanto divertente quanto

sconcertante tripudio di stereotipi e osservazioni razziste. Il programma riscosse un enorme successo, e fu ritrasmesso molte volte nel corso di quegli anni.

18 Robert DÈLIEGE, Storia dell’antropologia, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 87.

19 Citato in Rupert A. COX, The Zen Arts. An Anthropological Study of the Culture of Aesthetic Form in Japan, London, RoutledgeCurzon in association with the Royal Asiatic Society of Great Britain and

Ireland, 2003, p.14.

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i maestri delle palestre dove ho condotto principalmente la mia ricerca, Varese e Venezia, consideravano entrambi questo testo utile per comprendere il kendō e il Giappone, inserendolo nella lista di libri consigliati per approfondire il kendō a livello teorico.

Il fatto che il Giappone sia il “paese dei contrasti” raramente passa sotto il vaglio critico, ma è considerato scontato e naturale. Come è possibile? Come scrive Toshio Miyake, “tutte queste rappresentazioni dell’altro nascono da una geografia immaginaria così radicata da orientare i criteri vigenti della classificazione culturale e dell’identificazione collettiva”.21 La categoria di “Oriente” fornisce una griglia cognitiva contente parole chiave per la sua comprensione, e così facendo influenza a tal punto gli individui da pilotarne le percezioni, adattando non tanto sé stessi a una realtà nuova, ma la realtà allo schema di Oriente fornito dalle rappresentazioni.22

I.2.2IL POTERE DELLE RAPPRESENTAZIONI

Ho già accennato l’importanza del ruolo che le rappresentazioni svolgono nella nostra percezione del mondo e conseguente interazione con essa; ora lo riprenderò più approfonditamente.

Secondo Stuart Hall, la rappresentazione è una delle pratiche principali nel processo di produzione della cultura. La cultura infatti è costituita di significati condivisi, e il fatto che siano condivisi è possibile grazie al linguaggio, che produce e fa circolare questi significati. E ancora, questo è possibile proprio perché il linguaggio è un sistema di rappresentazioni, che si esprime attraverso segni e simboli che comunicano agli altri i nostri concetti, le nostre idee e i nostri sentimenti.23

Noi non percepiamo la realtà “così com’è”, semplicemente come una risposta del nostro sistema nervoso agli stimoli dell’ambiente (approccio riduzionista biologista);24 come nota Serge Moscovici, la facoltà di astrazione e immaginazione del nostro sistema cognitivo è tale da creare delle rappresentazioni “che ci guidano verso ciò che è visibile ed a cui dobbiamo rispondere, oppure che collegano l’apparenza con la realtà, oppure ancora

21 MIYAKE, Occidentalismi, cit., p. 7.

22 IWABUCHI, Complicit Exoticism…, cit., p. 47.

23 Stuart HALL, Representation, Cultural Representations and Signifying Practices, London, Sage in

association with the Open University, 1997, p. 1.

24 Fred MYERS, Logica e significato della collera fra gli Aborigeni Pintupi, in “Ricerca Folklorica”, n. 35,

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che definiscono tale realtà”.25 Citando Bower, sostiene che le rappresentazioni facciano da surrogato

per una visione o un suono che potrebbero darsi in natura […] destinate a produrre la stessa esperienza cui potrebbe dare origine il mondo naturale […] in realtà noi sperimentiamo solo, e percepiamo solo un mondo in cui, ad un estremo, abbiamo familiarità con cose fatte dall’uomo che rappresentano altre cose fatte dall’uomo, e, all’altro estremo, con surrogati di stimoli di cui non vedremo mai l’originale, il loro equivalente naturale, quali le particelle elementari o i geni.26

Come sostiene Stuart Hall, il nostro sistema cognitivo ci permette di pensare a un oggetto (ad esempio un bicchiere) anche quando non lo abbiamo davanti agli occhi, perché quando lo cogliamo col nostro sistema percettivo, nella nostra mente si forma un concetto di esso, e possiamo riferirci ad esso tramite il linguaggio.27 Il linguaggio è dunque un sistema di rappresentazioni, poiché lavora attraverso “cose che stanno per qualcos’altro”, e può essere di vari tipi: linguaggio parlato, che usa i suoni; linguaggio scritto, che usa le parole; linguaggio del corpo, che usa la gestualità, ecc.28

Anche se non abbiamo accesso a una determinata realtà, ad esempio se non siamo mai stati in Giappone, abbiamo tuttavia una rappresentazione di esso pervenutaci in vari modi nel corso della nostra esperienza (come abbiamo visto nel caso dell’immagine turistica), che condizionerà inevitabilmente i nostri giudizi di valore, le nostre aspettative e le nostre emozioni nei confronti di quel paese, sia che in futuro lo si visiti, sia che non lo si visiti. Anche Marco Aime e Davide Papotti osservano che con la proliferazione di immagini, che negli ultimi anni grazie a internet e alle nuove tecnologie è diventata addirittura incontrollabile e strabordante, si è contribuito a definire delle precise “immagini turistiche” che pre-esistono all’esperienza reale del posto, stimolando l’interesse del viaggiatore a intraprenderne la visita e punto di riferimento per pianificare i luoghi “da vedere assolutamente”.29

Difatti, nonostante sia una retorica comune dire che l’aver visitato fisicamente un luogo è garanzia di autorevolezza, non è affatto vero: le rappresentazioni che abbiamo

25 Citato in Serge MOSCOVICI e Robert M. FARR (a cura di), Rappresentazioni sociali, Bologna, Il

Mulino, 1989, p. 25. Corsivo mio.

26 MOSCOVICI e FARR (a cura di), Rappresentazioni sociali, cit., pp. 25-26. 27 HALL, Representation…, cit., p. 17.

28 Ibidem, p. 4.

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immagazzinato nella nostra mente inerenti a quel paese di certo non svaniranno automaticamente visitandolo, o andandoci a vivere; anzi, in qualche modo potrebbero addirittura rinforzarsi, perché noi tenderemo a vedere quel paese col filtro fornitoci dalle rappresentazioni e dai discorsi, se non ci equipaggiamo di un armamentario critico per cercare di capire il più possibile i meccanismi che regolano e costruiscono le rappresentazioni. Non è possibile avere una visione completamente neutra e senza filtri della realtà, soprattutto se quella che stiamo cercando di decifrare è una realtà culturale. Lo stesso discorso è valido soprattutto per coloro che sono i nativi del paese in questione: nel nostro caso, i giapponesi. Avere l’occasione di conoscere, o meglio ancora essere allenati da un maestro giapponese di kendō è sempre un evento, è indice di prestigio, perché automaticamente, in quanto giapponese, lui sarà il rappresentante rappresentativo più autorevole della cultura giapponese, e allenarsi con lui sarà garanzia di un’esperienza “pura” e “autentica” del kendō, non contaminato dalle scorrettezze derivate dal kendō italiano “di seconda mano”. A tal proposito, Fulvio mi ha detto:

Inutile che noi andiamo a cercare maestri europei o coreani: non ci daranno la stessa dimensione che ci dà un maestro giapponese, perché loro lo hanno insito nel loro DNA, fa parte della loro cultura muoversi in quel modo. Gli altri cosa possono darti a parte la tecnica? Possono essere bravissimi, ma non possono darti la stessa postura.

(Fulvio, 23/09/2016, Varese)

Anche Claudio è della stessa opinione:

in Giappone il kendō è ad alti livelli anche perché loro hanno già la mentalità giusta, anche se in ogni caso un po’ va corretta. Siamo noi che dobbiamo avvicinarci a loro. Avere un maestro giapponese che ha la mentalità giapponese, conosce il kendō perché lo pratica da tantissimo. Banalmente, quando si dice “Qual è la prova dell’esistenza di Cristo?” e si risponde “il vangelo”. Tu sai che ti sta indirizzando bene, che quello che ti indica è un valido percorso per raggiungere i tuoi obiettivi.

(Claudio, 22/09/2016, Varese)

L’espressione di Claudio è forte: ha conferito addirittura alla presenza del maestro giapponese una portata evangelica. La reazione di Claudio va fatta risalire al fatto che promuovendo il kendō in un determinato modo si vuole che il kendō sia puramente giapponese, che sia cristallizzazione di “giapponesità”; e chi meglio di un giapponese può

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rappresentarlo nella sua essenza? Pur condividendo sostanzialmente la visione di Fulvio e Claudio (“penso che, indipendentemente dal grado del maestro, potrebbe essere anche primo kyū, se viene da una cultura che è giapponese, e tu stai cercando di entrare nell’ottica, di capire la disciplina nel suo profondo, una persona nativa del posto ha sicuramente qualche cosa da darti […] è la loro cultura, non la nostra, quindi noi avremo sempre qualcosa da imparare da loro”),30 Mara tuttavia ridimensiona l’importanza che riveste l’incontro con un maestro: “ogni tanto, noi occidentali ci facciamo anche un po’ prendere dall’emozione, neanche fosse una divinità scesa in terra!”.31

Se si considera che il Giappone è un paese con una cultura percepita come “radicalmente diversa” da quella occidentale, avere a che fare con un vero maestro giapponese sarà ovviamente di vitale importanza. Questo perché noi abbiamo in mente la rappresentazione del giapponese come depositario del “Giappone autentico”, come “rappresentante rappresentativo” della “realtà giapponese”. Come dice ancora Moscovici, “la rappresentazione che abbiamo di qualcosa non è direttamente connessa al nostro modo di pensare, ma, viceversa, […] il nostro modo di pensare, e ciò che pensiamo, dipende da tali rappresentazioni, vale a dire dal fatto che disponiamo o meno di una data rappresentazione”.32 Moscovici sottolinea inoltre l’impossibilità di uscire dal sistema delle rappresentazioni: l’uomo, in quando essere sociale, non può interagire col mondo in altro modo; ne risulta dunque che “non ci arrivano mai delle informazioni che non siano state distorte da rappresentazioni ‘sovraimposte’ ”.33 La decostruzione delle rappresentazioni non deve tuttavia essere finalizzata semplicemente a verificare che un determinato significato che essa veicola sia effettivamente vero o no: Said stesso afferma che le nozioni sull’Oriente diffuse dal discorso orientalista a volte hanno anche un effettivo riscontro “empirico”; ma proprio in virtù del fatto che le rappresentazioni veicolano dei simboli dotati di significati, e i significati sono convenzionali, dobbiamo soprattutto concentrarci sugli effetti che esse hanno, sulla loro funzione all’atto pratico.34 Occorre studiare come influenzino le persone e come concorrano alla formazione dell’identità individuale, e come siano non solo il prodotto, ma la condizione stessa di possibilità del rapporto uomo-mondo e uomo-uomo.

30 Mara, 22/09/2016, Varese. 31 Ibidem.

32 MOSCOVICI e FARR (a cura di), Rappresentazioni sociali, cit., p. 30 33 Ibidem, p. 26.

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Pur non essendoci una corrispondenza pura e limpida tra mondo reale e linguaggio, poiché i significati sono costruiti da quest’ultimo tramite le rappresentazioni,35 allora perché il più delle volte questi significati sono considerati ovvi e insindacabili, proprio come fossero davvero lo specchio veritiero della “realtà”? Il motivo è che la loro arbitrarietà viene mascherata da naturalità; ciò che è dinamico, mutevole, e in inarrestabile divenire, viene fissato come se fosse sempre stato così, dotato di valore ontologico. Vediamo ora quanto radicati nelle mente dei praticanti siano questi discorsi: Fulvio parla di sostanza atavica dei giapponesi, di “DNA”; molti praticanti mi hanno detto, riferendosi a certe attitudini dei giapponesi, che “ce l’hanno nel sangue”, “ce l’hanno insito”, al punto che, come ha affermato Mara, anche un primo kyū 級36 sarebbe in grado di arricchire un praticante straniero più esperto di kendō solo in virtù del suo essere giapponese. Sono parole ricorrenti nei loro discorsi. Se un simbolo, un elemento costituente di una rappresentazione, viene semplicemente descritto, senza interrogarsi sulla sua origine, non viene messo in discussione, e ci si abitua a pensarlo in un certo modo; ma così facendo la descrizione si rivela invece uno strumento prescrittivo molto più efficace e subdolo della prescrizione stessa.

Per raggiungere questo status di naturalità è necessario che queste rappresentazioni si impongano non attraverso una violenta coercizione, ma attraverso l’egemonia.37 L’egemonia, pur prescrivendo, si maschera da descrizione; agisce dunque in maniera molto più sottile, sotterranea, ma anche più efficace. Questo perché fa leva sui vantaggi che si possono ricavare da essa accettandola, stimolando così quel consenso che consentirà alle rappresentazioni di innestarsi in maniera molto più duratura e radicata. Quali sono questi vantaggi, nel nostro caso? La risposta la ricaveremo dal testo di Sloterdijk Devi cambiare

la tua vita: in quanto discorso identitario, l’Oriente va a colmare quelle lacune esistenziali

dell’uomo che non sa chi è e perché è al mondo, offrendo una cura alla sua condizione di “storpio”. Ma osservando questo processo da una prospettiva diversa vedremo come in realtà siano proprio questi discorsi identitari a dirci cosa dobbiamo pensare e chi siamo; non si tratta di un mero processo di “svelamento” di un “io” primigenio, puro, autentico e soffocato dalle sovrastrutture e dai condizionamenti sociali, come molte retoriche vogliono far credere; un nucleo sotterraneo e immodificabile, che ci rende unici. Sono proprio le

35 Ibidem, p. 28.

36 Fascia di gradi del kendō sotto il dan. 37 SAID, Orientalismo, cit., pp. 15-16.

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costruzioni culturali che generano il “vero io”, il nostro carattere, che sarà piuttosto la risultante della stratificazione nel tempo di tutti quei discorsi, rappresentazioni, modelli con cui siamo entrati in contatto nella nostra esperienza e assorbiti tramite un atto di imitazione; il concetto di imitazione è un passo fondamentale nel cammino ascetico dell’uomo per perseguire l’icona, il modello. Ma queste costruzioni non forniscono solo le risposte, ma anche le domande stesse. Come si vedrà, è il discorso orientalista che in vari periodi storici come gli anni settanta ci ha presentato un Oriente come medicina per le lacune dell’Occidente, e nel momento in cui dice che ci sono delle lacune nell’Occidente, il discorso crea quelle lacune. Se i kendōka vedono nel kendō un arricchimento per loro condizione di occidentali, o addirittura un rifugio da quello che è percepito come un habitus ormai sterile e privo di senso, come per Fulvio, è perché il discorso ha configurato l’Oriente in questo modo. Secondo Moscovici le rappresentazioni hanno due ruoli: quello di

convenzionalizzare e quello di prescrivere.38 Nel primo caso, tutto ciò che ci circonda (persone, oggetti, eventi, ecc.) viene dotato di una definizione, di una forma che li rende immediatamente riconoscibili e comprensibili perché socialmente condiviso; prescrittiva, invece, perché è la rappresentazione che ci dice cosa dobbiamo pensare. Si tratta di un rapporto di essenziale interdipendenza e sinergia tra le strutture cognitive dell’essere umano, e le strutture oggettive, ovvero le istituzioni: entrambe si determinano a vicenda. Le prescrizioni delle strutture oggettive (ad esempio un’ideologia imperante in un momento storico) determinano i modelli, le unità di misura con cui dobbiamo confrontarci per adeguarci alle sfide che impone una società, a loro volta definite in base a desideri di potere e interessi formatisi con l’intrecciarsi di molteplici cause remote e occasionali, sfide in base alle quali dobbiamo cambiare la nostra vita. L’identità “occidentale” e “orientale” non hanno un’esistenza ontologica, ma sono proprio unità di misura, modelli di rappresentazione costruiti nel discorso orientalista che serviranno come punto di riferimento per costruire la nostra identità. Come dice Sloterdijk, è l’uomo a creare l’uomo:39 le unità di misura, i paradigmi dominanti saranno diversi a seconda del periodo storico, perché a determinarli sarà chi detiene il potere in quel momento.

38 MOSCOVICI e FARR (a cura di), Rappresentazioni sociali, cit., p. 27. 39 SLOTERDIJK, Devi cambiare la tua vita…, cit., p. XXVIII.

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I.3 Inventando la “tradizione giapponese”

I.3.1L’“ANTICHITÀ” E L’INVENZIONE DELLA TRADIZIONE

Affinché le unità di misura di cui ho parlato prima vengano accettate è necessario che siano naturalizzate, di modo che diventino insindacabili, mascherando la loro natura arbitraria e convenzionale. Si torna così al discorso già accennato in precedenza sulla naturalità della rappresentazione, la quale deve il suo potere persuasivo al fatto che “tanto più la sua origine è stata dimenticata, e la sua natura convenzionale ignorata, tanto più essa si è fossilizzata: ciò di cui essa è l’ideale gradualmente si materializza, cessa di essere effimero, mutevole e mortale per diventare invece durevole, permanente e immortale”.40 Quanto osserva Moscovici è condiviso anche da Sloterdijk nel suo discorso sull’antichità che tratterò più approfonditamente nella seconda parte della tesi: la statua di Apollo che, arcana e solenne, pronuncia l’imperativo “Devi cambiare la tua vita!”, trae la sua autorità di pronunciarlo proprio perché antica, assoluta, al di fuori del tempo e dello spazio. Se un imperativo può cristallizzarsi in un paradigma, è proprio perché a pronunciarlo è stata un’entità trascendente; dunque, l’imperativo stesso sarà trascendente. Se qualcosa è antico,

deve essere valido, come sostiene anche Fulvio: “il futuro per me è volgare; l’antico è

pregno di significati. Se io mi comporto in certo modo, è perché ha un significato”.41 Rispettare l’antichità diventerà implicitamente un obbligo, ma non percepito come tale, perché il paradigma che è “effimero, mutevole e mortale” sarà invece presentato come “durevole, permanente, immortale”, perché qualcosa di naturalmente dato, come fosse così da sempre. L’antichità affascina, e genera consenso; non per nulla, la cosiddetta “invenzione della tradizione” è un espediente ampiamente utilizzato a questo scopo in vari periodi storici: caso esemplare è il Giappone dal periodo Meiji (Meiji jidai 明治時代), ovvero dal 1868 in poi. In quegli anni, l’introduzione di istituzioni, idee e tecnologie marcate come “occidentali” scatenò una duplice reazione: da un lato, una frenetica ed entusiasta assimilazione delle novità d’importazione; dall’altro, un richiudersi in sé stessi da parte delle classi più conservatrici di fronte a quella che pareva una grave minaccia per

40 MOSCOVICI e FARR (a cura di), Rappresentazioni sociali, cit., p. 34. 41 Fulvio, 23/09/2016, Varese.

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l’integrità culturale giapponese, che di fronte allo straniero rischiava di snaturarsi e decadere. La risposta sarà un discorso speculare a quello dell’orientalismo e ad esso legato: l’auto-orientalismo. L’assimilazione del Giappone come “Oriente” divenne così radicata anche nella popolazione “subalterna” da non subire più il potere in modo totalmente passivo come invece afferma Said, appropriandosi così della stessa arma usata dalla popolazione dominatrice per contrattaccare, definendosi in quanto “Oriente” contrapposto all’“Occidente”. Ma ribaltando la gerarchia. Nell’urgenza di generare un consenso il più diffuso possibile, soprattutto in seguito allo scoppio delle guerre mondiali, lo strumento più efficace fu un riscoprire la propria “orientalità” e “giapponesità”, il Nihon no kokoro 日本 の心, in un tanto idealizzato quanto indefinito passato giapponese, favoleggiato come un’età dell’oro contrapposta alla decadenza del presente, che doveva essere riportato alla luce per ridare lustro e onore a un paese che doveva mettersi in gioco in un teatro mondiale in vista della guerra. Il passato, l’antichità, diventa depositario dell’“autenticità giapponese”, che altro non è che una realtà immaginata. Come dice Massimo Raveri,

Il passato viene riletto, si estrapolano idee e concezioni utili al presente in cui si vive, si toglie loro la dimensione storica, per fissarle quindi in una dimensione a-temporale, quasi metafisica, come se queste idee e questi valori fossero “da sempre” a fondamento di quella cultura. E alla fine di questo processo di elaborazione simbolica si dice che questa è la vera identità, la autentica natura della “nostra gente”. Non è vero: una società ha molteplici “identità” che per di più si trasformano nel tempo. Ma in una fase di forte mutamento è utile credere in una visione “mitica” del proprio paese, una visione molto chiara, molto stabile a cui ancorarsi, non per capire il passato, ma per dare un senso al proprio futuro.42

Un’operazione a tavolino, dunque: coloro che detenevano il potere nel Giappone di quegli anni produssero un sistema di rappresentazioni funzionale alle richieste delle condizioni politiche e sociali dell’epoca, sistema che ci ha fornito quell’inventario di icone che tutt’ora sono considerate rappresentative del “Giappone”: basti pensare al celebre fiore di ciliegio. Pur essendo effettivamente, in virtù della sua diffusione in Giappone da secoli, un fiore rilevante nella cultura giapponese, il suo essere simbolo della bellezza della caducità della vita è solo uno dei molteplici significati di cui è stato investito nel corso della storia, ma che si è imposto come unico proprio in occasione della seconda guerra mondiale,

42 Massimo RAVERI, Itinerari nel sacro. L’esperienza religiosa giapponese, Venezia, Cafoscarina, 2006,

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poiché impiegato nel processo di estetizzazione degli attacchi suicidi dei kamikaze 神風.43 È la creazione a tavolino di un mito, di qualcosa di così antico da diventare incontestabile, proprio come dice Sloterdijk, ma proprio per questo affascinante ed efficace. Leggiamo anche le parole di Alan Tansman:

Fascism, then, was an ideology for molding and controlling the masses in order to nationalize them – or for nationalizing them in order to mold and control them – in accordance with the myth of a “natural” nation that had no history but was timeless and composed of individuals connected through natural bonds […] Fascism roots the nation in a mythic past so that it can march, unified, into a technologically advanced future. In place of history, fascism emphasizes nature; in place of politics, it evokes beauty.44

Un riverbero di questi discorsi è riscontrabile anche nelle parole del maestro Tada Ryuzō, che contrappone piuttosto nettamente l’esperienza di insegnamento e pratica di

kendō in Giappone rispetto a quella nel mondo europeo:

I practiced in France, so that’s why I have a lot of european friends. The main difference is the education. In Japan, we don’t need to explain, we just obey, and then we search our way. We search by ourself what is target. But in France, or maybe also in Italy, they need a target, and it is a very different target. Experience also is different. More theory is necessary, how to teach zen, both in France and Italy […] In japanese culture we have a different way. Teachers don’t teach so much theory, we should understand by ourselves, with experience. We shouldn’t ask sensei so much, it’s unpolite. Sensei puts so much effort, and we should understand immediately, by ourselves. It’s very different.

(maestro Tada, 21/09/2016, Varese)

Nonostante la pretesa di legittimazione di naturalità da parte del discorso fascista, il “Giappone fascista” è più una geografia immaginaria che una realtà effettiva, con tutte le sue disomogeneità e contraddizioni; è a-storico, a-geografico, sovrannaturale; sgravato della sua contingenza, diventa ab-solutum, come l’imperativo “Devi cambiare la tua vita!”. La premessa sulla questione dell’invenzione della tradizione è fondamentale anche per il caso del kendō, poiché il kendō stesso è stato oggetto di reinvenzione e risignificazione,

43 Quando il simbolismo dei fiori di ciliegio era inserito nel contesto del teatro nō, significava addirittura il

passaggio allo stato di follia di un personaggio. Cfr. Emiko OHNUKI-TIERNEY, Kamikaze, Cherry

Blossoms, and Nationalism. The Militarization of Aesthetics in Japanese History, Chicago, University of

Chicago Press, 2010.

44 Alan TANSMAN, The Aesthetics of Japanese Fascism, Berkeley, University of California Press, 2009, p.

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soprattutto per quanto riguarda l’incontestabile legame zen-samurai-kendō, dato per ovvio anche dal maestro Tada, in realtà molto più inconsistente di quello che comunemente si pensa. Fu soprattutto Suzuki Daisetz Teitarō 鈴木大拙貞太郎, della cui influenza nella configurazione contemporanea dello zen parleremo più diffusamente nei prossimi paragrafi, il responsabile della diffusione dell’apparentemente insolubile dicotomia zen-samurai, come si può osservare nel suo scritto Lo Zen e il samurai contenuto nell’opera Lo Zen e la

cultura giapponese (1959). Più in generale, l’importanza che è stata attribuita allo zen è

sproporzionata, nonché opera di reinvenzione da parte di influenti intellettuali del XIX secolo come Kaiten Nukariya 忽滑谷快天, Okakura Kakuzō 岡倉覚三 e Hisamatsu Shin’ichi 久松 真一.45

I.3.2I SAMURAI ERANO DAVVERO ZEN?

Nel paragrafo precedente ho parlato di “invenzione della tradizione”; ora illustrerò come esso interessi il legame zen-samurai, e di conseguenza anche i fondamenti stessi da cui il kendō trae legittimazione: non si può infatti parlare di kendō senza parlare di zen, pena svuotarlo e ridurlo a una mera attività fisica. Una delle più affascinati promesse del

kendō è quella di forgiare dei samurai moderni: facendo ricorso alla retorica dell’antichità,

attingendo al serbatoio di miti e suggestioni ai limiti del fantastico che riguardano la figura del samurai, il kendō si pone come una via per riattualizzare qui ed ora qualcosa di lontanissimo nel tempo e nello spazio, forgiando la mente e il corpo dei praticanti. Questo connubio di disciplina mentale e fisica è ricondotta alla consustanzialità di kendō e zen. Perché il kendō sia effettivamente spirituale, rivolto al miglioramento di sé, è necessario che sia zen. Ma i samurai erano davvero zen?

Sfatando ogni mito, i samurai non erano zen; o meglio, solo una minoranza seguiva i suoi precetti. La dottrina zen era complessa e di difficile fruizione per un samurai che poteva anche non avere un alto grado di istruzione (e anche questa realtà incrina l’immagine popolare del samurai colto e sensibile che, tra una battaglia e l’altra, legge haiku e osserva commosso i ciliegi cadere). È vero che molti seguaci dello zen erano guerrieri, ma pochi

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guerrieri erano zen: i samurai infatti erano prevalentemente amidisti.46 Il più popolare buddhismo di Shinran 親鸞, Nichiren 日蓮 e Ippen 一遍 era molto più semplice e ugualmente soddisfacente per i loro bisogni di trovare un sostegno nell’affrontare il rischio della morte in battaglia: bastava recitare il nenbutsu念仏per assicurarsi la salvezza prima di morire. Fino al XVII secolo i rapporti tra zen e samurai erano alquanto scarsi. Come si può già notare, l’immagine del samurai che ci perviene dalle rappresentazioni è alquanto romanticizzata e mitizzata: fino al periodo Kamakura (Kamakura jidai 本来 時代,1185-1333), oltre a non essere così influenti politicamente come si pensa (non ci fu infatti nessuna “ascesa dei samurai”), i samurai non erano solo nobili guerrieri che seguivano l’inviolabile codice d’onore del bushidō 武士道(“la via del guerriero”, sistema etico dei samurai), anzi, spesso ricorrevano ai mezzi più subdoli per vincere una battaglia. Per loro, vincere era l’unica cosa che contava.47 Questa immagine eroica e integerrima dei samurai proviene anche da celebri opere letterarie come gli Heike monogatari 平家物語 (Racconti di Heike, XIII sec.) o i Taiheki 体癖 (Cronache della grande pacificazione, 1370 circa), che erano tuttavia una visione idealizzata di quello che doveva rappresentare il samurai modello, e non per niente si tratta di opere letterarie, senza pretese di veridicità storica. Eppure, questa rappresentazione ha oscurato una realtà che invece prevedeva una ben più alta dose di pragmatismo, che implicava anche ricorrere a inganno, ricatto, doppiogiochismo, imboscate, promesse infrante, spionaggio, ecc., e anche la lealtà al proprio signore in realtà veniva rispettata o meno a seconda della convenienza.48 Non c’era dunque alcuna velleità di infondere di spiritualità l’arte della guerra, o almeno, non in maniera sistematica e diffusa, e soprattutto ciò non era intrinsecamente legato allo zen. Le tecniche di uso della spada non erano elaborate o raffinate, almeno fino quando, in seguito alla formazione dello shogunato Muromachi (Muromachi jidai, 室町時代 1338-1573) a Kyoto e al conseguente afflusso di

samurai nella capitale, si diede avvio a un processo di estetizzazione e di sistematizzazione

in un’etichetta delle loro tecniche di battaglia: a Kyoto, i samurai iniziarono a rivestire anche posizioni di autorità rimpiazzando i nobili, e la pressione sociale a conformarsi alla raffinatezza del clima di corte li spronò a rendere più decorose le loro grezze tecniche e

46Oleg BENESCH, Reconsidering Zen, Samurai, and the Martial Arts, in “The Asia Pacific Journal, Japan

Focus”, vol. 14, issue 17, n. 7, settembre 2016, p. 3. Dello stesso autore sullo stesso argomento, si veda il più approfondito Oleg BENESCH, Inventing the Way of the Samurai. Nationalism, Internationalism, and

Bushido in Modern Japan, Oxford, Oxford University Press, 2014.

47 Alexander C. BENNETT, Kendo. Culture of the Sword, Oakland, University of California Press, 2015, p.

31.

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