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Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, le differenze riguardo il peso detenuto dalla famiglia nella dinamica di transizione dei ragazzi norvegesi e quelli italiani, sono piuttosto evidenti fino da una prima lettura delle interviste. Come già assunto nei precedenti capitoli, sulla scia della letteratura che abbiamo sopra citato, i paesi con welfare socialdemocratico e quelli con welfare sud europeo si differenziano notevolmente per la questione del familismo. Nei campioni, vi è una significativa eterogeneità nel caso del background familiare dei nostri intervistati. Innanzitutto sembrerebbe importante sottolineare fino da subito che la maggioranza degli italiani del campione, al momento dell’intervista, viveva con la famiglia di origine. 23 persone su 32 infatti ancora avevano la necessità di vivere nella casa dei familiari, solo in 12 avevano sperimentato condizioni di autonomia provvisoria e la maggior parte di questi ultimi erano donne, ma su questo torneremo in seguito.

Il campione norvegese invece sembrerebbe rappresentare una situazione piuttosto differente, su 10 individui infatti, solo 2 persone vivevano a casa dei familiari, non per necessità ma solo temporaneamente. I due infatti dichiaravano di essere in procinto di andarsene.

Un aspetto sostanziale e da mettere in evidenza tra questi due campioni è certamente la questione legata all’autonomia del giovane e se, questa, è direttamente connessa e dipendente dalle risorse dell’intervistato o della famiglia. Nel caso del campione dei ragazzi italiani, sembra che le storie degli intervistati vadano ad essere piuttosto rappresentative della situazione delineata dalla letteratura sull’Italia. I percorsi di autonomia abitativa infatti, per quanto limitati

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numericamente, appaiono piuttosto complicati e fortemente connessi alle diverse condizioni economiche familiari oltre che lavorative. Alcuni, devono la loro autonomia alle proprietà familiari, altri ad abitazioni ereditate o avute per sé dai genitori. Spicca una pronunciata difficoltà nel caso degli intervistati italiani nel raggiungere una autonomia abitativa senza l’aiuto dei familiari e con condizioni lavorative in molti casi registrate come precarie. Le situazioni di autonomia, o semi-autonomia nel contesto italiano infatti, sembrano sostenute da una combinazione di entrate da lavoro minime, sostegno della famiglia di origine (che include la casa, trasferimenti monetari, la pensione di un genitore anziano o di un nonno), redditi del partner. Molti degli intervistati dichiarano di non avere progetti a causa delle condizioni di lavoro instabile e precario che non permettono in nessun caso di rendersi autonomi né economicamente né quindi abitativamente. Un fattore effettivamente determinante è quello delle risorse familiari che, sostengono spesso in modo continuo e per quanto possibile i figli, attraverso la concessione di case o proprietà, o trasferimenti diretti di denaro. Il rischio che un genitore possa decedere o perdere stabilità economica comporterebbe la povertà della famiglia e del figlio. La condizione economica della famiglia di origine sembra quindi giocare un ruolo fondamentale nella condizione economica dell'intervistato soprattutto relativa al presente, in particolare per ridurre i rischi dell'impoverimento affrontando alcuni compiti quotidiani (Aassve, Iacovou, Mencarini 2006). La situazione economica della famiglia nel campione sembra incidere anche sulle probabilità che i giovani proseguano gli studi verso i livelli più elevati, mentre non sembrano avere alcun effetto nella loro integrazione lavorativa, soprattutto riguardo un possibile accesso più rapido o un posto di lavoro stabile. Emerge inoltre una correlazione piuttosto significativa tra titolo di studio dei genitori e quello degli intervistati, come nel caso norvegese. Sembra infatti esistere una certa trasmissione intergenerazionale e solo pochi giovani, italiani, i cui genitori non hanno titoli oltre le scuole medie o professionali hanno proseguito gli studi fino alla maturità e oltre. Oltre al titolo di studio dei genitori sembra esserci un altro fattore che influisce sul percorso scolastico degli intervistati, la professione dei genitori. Le posizioni imprenditoriali e le professioni intellettuali dei genitori veicolano più facilmente il raggiungimento di un elevato titolo di studio dei figli. Questo invece non sembra registrarsi nel campione norvegese. Alla fine, il background familiare sembra avere un ruolo importante e influente su diversi aspetti della vita dei giovani ma, per adesso, non su quella di entrare nel mercato del lavoro rapidamente o stabilmente (Lin and Erickson 2008).

Dobbiamo anche considerare un altro fattore importante: la differenza nella durata della transizione è ovviamente connessa al titolo di studio. Quindi, se da un lato sono innanzitutto gli intervistati intorno ai trent'anni ad avere una occupazione, anche se spesso precaria o temporanea, e se è vero, che il titolo di studio elevato non costituisce un fattore di maggiore

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integrazione lavorativa tra gli intervistati, dobbiamo dire che il confronto deve tenere di conto della diversa durata della transizione a partire dall'uscita dal percorso di istruzione. Un altro aspetto da tener e in considerazione è che degli 11 laureati totali, 7 erano in possesso di una laurea in scienze umane, sociali e politiche, titoli per cui la domanda di lavoro, soprattutto in un territorio come questo, appare meno dinamica e le difficoltà di trovare lavoro erano molte, a differenza, come vedremo, del caso norvegese.

Analizzando ora il caso norvegese cercheremo di evidenziare le differenze che emergono rispetto al caso italiano.

Nel nostro campione norvegese solo 2 persone su 10 vivevano in casa con la famiglia di origine, il resto delle persone invece viveva con il partner o con dei coetanei. Ma coloro i quali vivevano ancora in famiglia dichiaravano di essere prossimi al trasferimento in una propria abitazione, autonoma da quella dei genitori. Entrambi infatti avrebbero potuto farlo in qualsiasi momento data la possibilità economica ma, per motivi contingenti avevano scelto di risiedere ancora nella casa dei familiari. Quello che emerge fin da subito parlando con tutti gli intervistati è la forte volontà e desiderio di rendersi autonomi immediatamente dopo aver compiuto la maggiore età. Sembra esistere in questo territorio una forte cultura dell’indipendenza, in più situazioni e più interviste è emerso infatti che l’individuo, una volta compiuti i 18 anni è responsabile di sé stesso, non solo simbolicamente. Questo ci permetterà in seguito di riflettere su alcune questioni. Anche nel caso di questo campione comunque, come nel caso italiano, possiamo affermare che il gruppo è ben rappresentativo rispetto alla definizione del contesto norvegese proveniente dalla letteratura. I percorsi abitativi di questi intervistati infatti, non sembrano essere particolarmente insidiosi, anzi, anche coloro i quali non possedevano lavoro stabile, potevano comunque godere della propria indipendenza. Questo è uno degli aspetti cruciali che caratterizza il contesto norvegese. Se nel caso italiano sembravano fondamentali le risorse economiche della famiglia di origine, soprattutto per la questione abitativa, in questo contesto non sembravano avere nessun tipo di influenza o peso nel percorso di autonomizzazione dei giovani intervistati. Le abitazioni in cui vivevano infatti erano in alcuni casi affittate e in altri acquistate ma sempre grazie alle loro risorse economiche. Diverso era il caso delle persone che avevamo categorizzato come coloro i quali erano coinvolti, al momento dell’intervista, nelle misure previste dal NAV. Il gruppo che abbiamo classificato nel capitolo 4 come persone che si sono “lasciate attivare” erano forniti attraverso il NAV di una abitazione da condividere o meno con degli inquilini. Nonostante dunque la condizione di disoccupazione, queste persone venivano sostenute dallo stato e gli era data la possibilità di rendersi indipendenti dalla famiglia di origine, la quale non sembrava avere nessun ruolo o partecipare alle spese quotidiane del figlio. Le domande previste dal questionario sulla partecipazione economica delle famiglie nella

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vita degli intervistati veniva sempre percepita con stupore. La risposta infatti era sempre negativa e molti di loro affermavano che la famiglia interveniva solo ed esclusivamente in casi di emergenza. A dimostrazione del fatto che all’interno di questo contesto esiste una indipendenza non solo simbolica, alcuni intervistati, hanno affermato che talvolta i figli pagano l’affitto ai genitori nel momento in cui decidono, per varie ragioni, di rimanere nella abitazione. La diversa percezione della autonomia nel contesto norvegese gioca certamente un ruolo importante ma devono essere considerati in ogni caso gli interventi delle politiche pubbliche, le quali appaiono essenziali nel percorso di transizione di ogni giovane.

Una similitudine tra i due campioni si riscontra nel momento in cui analizziamo la questione della trasmissione intergenerazionale relativa al titolo di studio, sembra infatti che tutti coloro i quali avevano una laurea o stavano frequentando l’università avessero i genitori o quantomeno i fratelli con possesso del titolo o iscritti. Anche un ragazzo coinvolto al momento dell’intervista nelle misure del NAV aveva provato a frequentare la facoltà di ingegneria per un anno senza però riuscire a conseguire il titolo e a finire il percorso di studi. Anche in questo caso la madre risultava laureata. Non sembrano invece esserci delle similitudini tra i lavori svolti dai genitori e quelli intrapresi dai figli. Nell’ambito delle interviste è emerso che i figli sono generalmente poco propensi a confrontarsi con i genitori riguardo le scelte da prendere nella vita, sia quelle scolastiche che quelle lavorative. Questo potrebbe essere determinato anche dal fatto che nel momento in cui il figlio diviene maggiorenne spesso esce dalla abitazione dei familiari e vengono dunque a generarsi minori occasioni di confronto. La combinazione di maggior numero di opportunità sul mercato, penetrante intervento statale e un differente rapporto tra figlio e famiglia derivante da una cultura tradizionalmente differente sembrerebbe implicare una minor necessità di appoggio e sostegno da parte della famiglia di origine, una minore imitazione dei genitori da parte dei figli, e una minore necessità degli stessi di cercare rifugio e protezione nella famiglia. Questo ovviamente comporta una indipendenza più marcata anche nel percorso di transizione e dunque in una fase di orientamento e ricerca di una occupazione.

Altra questione che appare differente è la possibilità di trovare occupazione a seconda del titolo di studio in possesso. Abbiamo visto come nel caso italiano le persone laureate in scienze sociali o materie umanistiche non hanno potuto in tale contesto mettere in campo e sfruttare le proprie conoscenze e abilità. Questo a causa della difficoltà primariamente di trovare una occupazione e secondariamente che fosse coerente con gli studi fatti. Nel caso norvegese invece i nostri 5 intervistati laureati possedevano anche esse il titolo in materie umanistiche o in scienze sociali ma a differenza degli altri erano tutti occupati in campi assolutamente corrispondenti. La questione emersa nel campione italiano del genere e del livello di istruzione

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è molto simile a quello che è stato riscontrato anche nel campione norvegese, le 5 persone laureate erano tutte donne.

6.5 Caratteristiche della transizione

Andiamo a vedere adesso come si caratterizza la transizione per gli intervistati, dal punto di vista delle aspettative, delle capacità implementate, dalle esperienze formative e dalla ricerca del lavoro, oltre che degli eventi occupazionali e dei periodi di disoccupazione.

Le domande del questionario miravano a capire la valutazione degli intervistati riguardo le istituzioni scolastiche e tentavano di comprendere la percezione della loro stessa preparazione e capacità acquisite, sugli strumenti che avevano utilizzato per cercare lavoro e su che tipo di occupazione erano riusciti a trovare.

Nel caso italiano le aspettative al momento dall'uscita dall'istruzione erano molto più elevate tra gli intervistati con più alto titolo di studio, anche se rispetto alle competenze percepite come proprie erano piuttosto contenute. Questo accade a causa di una valutazione negativa tra gli intervistati in possesso del titolo universitario, della capacità dei corsi universitari nell'offrire competenze pratiche e spendibili oltre che teoriche. È importante considerare che le opportunità offerte dal mercato del lavoro italiano e norvegese sono molto diverse. Nel contesto italiano per coloro che erano laureati in materie umanistiche e sociali erano relativamente basse, mentre nel contesto norvegese abbiamo riscontrato il contrario. In Italia infatti i laureati non erano riusciti una volta terminato il percorso scolastico ad accedere a lavori coerenti mentre nel contesto norvegese i laureati nelle stesse materie si.

Riguardo il tipo e la frequenza di eventuali esperienze di lavoro, tirocinio, formazione, volontariato, etc. intraprese prima o durante la ricerca del lavoro non emergevano nel campione italiano particolari differenze in base ai percorsi di studio, appariva invece come un elemento presente in modo trasversale nella storia degli individui a prescindere dal titolo.

Quando abbiamo chiesto agli intervistati italiani riguardo il periodo dedicato alla ricerca del lavoro, emergeva che tutti avevano utilizzato più strumenti diversi in base alle loro diverse conoscenze e competenze, in nessun caso sembrava possibile parlare di attesa passiva. Erano comunque rintracciabili alcune differenze che vedremo tra poco. La prevalenza utilizzava strumenti più tradizionali come le reti informali, le domande dirette, l'accesso ai servizi pubblici per l'impiego e la ricerca attraverso internet. Alcuni avevano accettato di intraprendere dei percorsi di tirocini sperando attraverso di essi di formarsi e trovare un posto di lavoro. Le agenzie private sembrano essere per il campione italiano, in modo simile a quello norvegese, lo

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strumento meno utilizzato, in pochi hanno tentato i concorsi pubblici. Dalle analisi dei dati emerge che erano le donne ad usare una maggiore varietà di strumenti, insieme ai più anziani e coloro che avevano titoli di studio più elevati. Il servizio pubblico era valutato dal campione di intervistati italiani in modo assolutamente negativo, sostenevano che fosse inefficiente ed inutile. Chiaramente le condizioni del mercato del lavoro italiano non ci hanno dato la possibilità di capire se erano i servizi a non funzionare oppure era una questione maggiormente legata alla mancanza effettiva di posti di lavoro. Nei fatti però sembra che la percentuale di persone che trova lavoro attraverso i servizi pubblici presso Massa Carrara e in Italia generalmente sia molto bassa (Cicciomessere et al. 2017).

Gran parte degli intervistati di Massa Carrara ha fatto ricorso ai network relazionali e alla ricerca informale attraverso conoscenze, le differenze che si notavano erano quelle relative ai laureati i quali oltre che fare ricorso ai metodi tradizionali hanno utilizzato anche la formazione, i tirocini e il servizio civile.

Per quanto riguarda l’occupazione, quasi tutti gli intervistati italiani avevano avuto almeno una esperienza di lavoro dal termine della scuola Molti di loro avevano svolto numerose attività e si poteva considerare una media di almeno 4.5 esperienze a persona. Non vi erano particolari connessioni tra le esperienze di lavoro fatte e i titoli di studio posseduti. Differenze e varietà tra gli intervistati riguardavano non solo il numero ma anche il tipo di esperienze lavorative. Dai dati raccolti emergeva che vi erano solo 3 contratti a tempo indeterminato su 32 persone, prevalevano rapporti precari e a chiamata dei quali molti erano al nero. C’erano poi alcuni contratti a termine e tirocini che gli intervistati consideravano come lavoro, date le pressioni, le ore lavorate e le capacità richieste, venivano però retribuiti come borse-lavoro. Il percorso lavorativo dei giovani facenti parte del campione italiano si rivelava dunque molto frammentato, con la possibilità di stabilizzazione solo per pochi, e la prevalenza di occasionalità e precarietà. In molti, a causa della necessità di un guadagno economico si vedevano costretti ad accettare anche i lavori provvisori o incerti i quali però non portavano in seguito a nessun tipo di stabilità al contrario, in molti casi, conducevano successivamente a lavori simili. Durante questo periodo le persone intervistate hanno cambiato tipo di lavoro molte volte passando spesso da una settore all’altro rendendo piuttosto complicata e fragile la propria identità professionale lavorativa. Molti di loro, come immaginabile, hanno vissuto momenti disoccupazione sia di lunga che breve durata, è un elemento costantemente presente nell'esperienza dei giovani intervistati, sia in possesso di titoli che in assenza degli stessi, sembrerebbe incidere maggiormente per frequenza nelle vite delle donne.

Vediamo adesso all’interno del contesto norvegese quali similitudini e differenze possiamo riscontrare. Per quello che riguarda la preparazione scolastica, a differenza del contesto italiano

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gli intervistati si dichiaravano tutti piuttosto soddisfatti. Corsi universitari e tirocini curriculari erano organizzati in maniera ottimale ed efficaci, apparivano concordi nell’affermare che la preparazione ottenuta attraverso il sistema scolastico fosse ideale. Solo uno degli intervistati lamentava la poca possibilità tramite la scuola di apprendere conoscenze pratiche. La maggioranza però percepiva la propria preparazione e formazione come assolutamente sufficiente per accedere al mercato del lavoro.

Una delle domande previste nell’intervista era relativa ad eventuali occupazioni durante gli anni del liceo e dell’università. La metà degli intervistati ha sempre lavorato durante il periodo scolastico, chiaramente attraverso contratti stagionali e temporanei. A distanza di alcuni anni sembravano tutti molto soddisfatti delle esperienze vissute e, riuscire a costruire una rete di rapporti lavorativi fino da giovani sembrava agli occhi di tutti gli intervistati poter facilitare la transizione e il percorso successivo.

Incrociando i dati risultava che delle persone che avevano lavorato durante la scuola superiore, la maggioranza erano universitari o laureati, i quali avevano proseguito con lavori part-time o intermittenti anche durante i periodo universitario. Solo una di loro non aveva frequentato l’università ma aveva lavorato durante il periodo della scuola superiore e adesso aveva un lavoro stabile. Riguardo agli strumenti utilizzati nella ricerca del lavoro emergeva che ognuno di loro aveva cercato in modo diverso a seconda delle competenze e conoscenze acquisite, tuttavia sembrava aver avuto più successo, secondo la maggior parte degli intervistati, il network e i legami creati nei passati ambienti lavorativi.

Sembrerebbe inoltre esserci un legame tra il lavoro svolto negli anni della scuola, sia universitaria che superiore, e la stabilità lavorativa e/o facilitazione nell’ingresso del mondo del lavoro una volta completato il percorso di studi. In parte questo, potrebbe essere dovuto al fatto che le persone che avevano lavorato, risultavano avere maggiore esperienza e conoscenze rispetto al mondo del lavoro ed essere dunque “favoriti”. A conferma di questo sembrerebbe esserci il dato relativo alle persone intervistate coinvolte nelle misure del NAV, le quali, hanno dimostrato di non essere particolarmente propositive e di avere problemi nel cercare e trovare una occupazione di qualsiasi genere. Questi intervistati infatti, nonostante alcuni avessero completato il percorso scolastico diversi anni prima, risultavano aver avuto esperienze occupazionali molto limitate. Le storie di queste persone sembravano essere spesso segnate da delle difficoltà personali o familiari, le quali potrebbero aver influenzato il percorso della loro vita, limitando indirettamente l’accesso al mercato del lavoro. A livello di analisi sembra comunque che coloro i quali al momento dell’intervista avevano un lavoro stabile erano quelli in possesso di un titolo universitario o diploma e che si erano attivati in modo autonomo fin dai primi anni di scuola superiore lavorando costantemente.

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A differenza del contesto italiano l’utilizzo del tirocinio risultava più limitato anche se, una delle intervistate è riuscita ad accedere ad un contratto di lavoro proprio grazie a questo tipo di percorso previsto all’interno del corso di laurea. Una seconda persona, invece, in modo simile a quello che accadeva nel campione italiano, al momento dell’intervista era al secondo tirocinio retribuito della sua vita e lamentava di non essere particolarmente soddisfatta della retribuzione e della poca stabilità. Nonostante tutto era un percorso formativo in linea con l’ambito del suo titolo universitario. Dalle discussioni affrontate durante i colloqui tenuti con personale e intervistati sembrava emergere che, al contrario di ciò che accade in Italia, il tirocinio, in Norvegia era utilizzato come strumento per preparare una persona per accedere ad una occupazione, attraverso l’implementazione di conoscenze e capacità. In Italia invece in molti casi, come sottolineato sopra sembra essere uno strumento che favorisce il risparmio di denaro del datore di lavoro senza favorire il giovane nell’accesso ad un lavoro.

Diametralmente opposta a quella italiana, nel contesto norvegese, risulta la percezione individuale degli intervistati in relazione ai servizi pubblici. Nonostante alcuni attraverso di questi non hanno trovato lavoro, l’opinione di tutti gli intervistati era la stessa, appare infatti che per ognuno di loro i servizi pubblici siano efficienti e funzionino molto bene, attraverso