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Italia: avversione alle politiche di Social Investment?

L’Italia dal 1990, dopo alcune emergenze e difficoltà è un paese economicamente debole rispetto ai paesi della Unione Europea, il tasso di occupazione e di crescita è infatti

125 G. Esping-Andersen,(2000), I fondamenti sociali delle economie post-industriali, Il Mulino,Bologna

pag.143

126 Kazepov Y., Carbone D. (2007) Che cos’è il welfare state, Carocci, Roma, pag.131 127 Ibidem pag. 95

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relativamente basso. Dal 2000, le varie riforme succedutesi hanno lavorato perseguendo il tentativo di modernizzare il contesto economico e lavorativo italiano e soprattutto cercando di intervenire in modo conforme agli orientamenti comunitari e a favorire l’innalzamento del tasso di occupazione.

Da questo momento fino ad oggi, è stato un susseguirsi di interventi che mirano alla ricerca di flessibilizzazione, in entrata e in uscita, dei contratti all’interno del mercato del lavoro e la liberalizzazione e il cambiamento dei servizi per l’impiego attraverso la possibilità di compartecipazione tra il settore pubblico quello privato.

Di fronte a questi cambiamenti sembrava esistere la necessità di rivisitare anche il modo attraverso cui questi contratti venivano protetti e tutelati.

Prima però di osservare quali sono le tendenze nel contesto italiano riguardo alla disoccupazione giovanile e ai risultati ottenuti attraverso gli strumenti messi in campo è importante chiarire che l’Italia, dagli anni ’90, ha attuato numerose riforme nell’ambito delle politiche del lavoro con l’obiettivo di innalzare il tasso di occupazione.

Queste riforme sono state progettate assumendo come principale volontà quella di rinforzare le capacità di inserimento professionale e dunque di “occupabilità”. A prescindere dai dubbi risultati le politiche sembrano essersi mosse dando importanza ad alcune questioni: promozione di una maggiore flessibilizzazione nel lavoro, in entrata e in uscita; rafforzamento delle reti dei servizi per l’impiego; revisione dei percorsi di formazione ed istruzione; promozione della mobilità occupazionale.

Come illustrato sopra, la condizione del mercato del lavoro italiano rispetto allo scenario europeo è uno dei più svantaggiati e in difficoltà da ormai diversi anni. La crisi economica del 2007 ha colpito fortemente l’economia italiana insieme a quella di altri paesi ma il territorio del Sud Europa non è riuscito per diverse ragioni a rispondere in modo efficiente e positivo alle difficoltà. Uno dei maggiori problemi che si sono posti di fronte al contesto italiano negli ultimi decenni è stato proprio quello della disoccupazione, alla quale ancora oggi non sembra riuscire a trovarsi una soluzione che permetta il suo effettivo miglioramento.

Nonostante questo problema affligga tutta la popolazione, è in particolare dei giovani che in questo contesto ci occuperemo e delle politiche che sono state attuate per limitare l’impatto della disoccupazione. Iniziamo con la presentazioni di alcuni dati forniti da Eurostat per inquadrare la situazione.

Nel luglio 2017 la disoccupazione in Europa era del 7.6% e quella italiana si attestava intorno all’11.3% . Un dato che se osservato in paragone con altri paesi ci conferma le difficoltà che questo paese sta vivendo ormai da diversi anni.

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I dati che qui più ci interessano però, sono quelli relativi alla disoccupazione giovanile, che in Europa rappresentato da un tasso del 7.8% per le persone che hanno meno di 25 anni.

In Italia invece la condizione che la fig.8 ci conferma è particolarmente grave, dal 2005 al 2016 è aumentata in modo esponenziale fino ad arrivare ad un tasso del 10% tra coloro che hanno tra i 15 e i 24, anni dando dunque vita a molte preoccupazioni.

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I dati sopra citati prendono in considerazione tutte le persone tra i 15 e i 24 anni compresi coloro che sono disoccupati, il tasso che nasce è la percentuale delle persone giovani disoccupate comparate con il totale della popolazione della stessa età, all’interno di queste statistiche dunque sono considerate le persone attive come gli studenti e inattive.

In Italia oggi dunque i giovani si trovano esposti fortemente ai cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nel mercato del lavoro e ne risentono più degli adulti. Questa fascia della popolazione in molti casi si trova a passare buona parte della vita in condizioni di disoccupazione o instabilità lavorativa. Come abbiamo meglio specificato nel secondo capitolo questa particolare circostanza implica un importante allungamento della transizione verso la fase adulta e l’indipendenza dalla famiglia di origine.

Nel mercato italiano pare esserci una cronica incapacità di assorbire l’offerta di lavoro giovanile, negli ultimi venti anni infatti la disoccupazione delle persone giovani è aumentata

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drasticamente rispetto a quella degli adulti, questo significa che vi è una assoluta e più forte esposizione al rischio di disoccupazione dei primi rispetto ai secondi128.

Cerchiamo adesso di capire se anche in questo paese, come nella precedente terra scandinava è stato possibile intervenire con politiche di investimento sociale e che tipo di interventi sono stati previsti per migliorare la condizione di criticità che abbiamo precedentemente analizzato. Le politiche di social investment abbiamo visto essere state perseguite con successo dai paesi nordici e dalla Norvegia, i quali rispecchiano differenze strutturali rispetto ai paesi che vengono definiti sud europei.

Dalle ricerche emerge che le politiche di investimento sociale hanno maggiore probabilità di successo e impatto sulla crescita economica e sulla eguaglianza delle opportunità solo se ci sono delle specifiche condizioni di base. Si suppone inoltre che l’utilizzo delle stesse possa apportare un impatto positivo sulla crescita economica. Rispetto agli altri paesi sudeuropei l’Italia, è parsa riluttante nell’adottare questo tipo di politiche a causa di diversi fattori e ragioni che possiamo sintetizzare così: la forte inerzia istituzionale nei confronti dei nuovi rischi sociali; il suo alto livello di familismo che si oppone alle politiche di conciliazione cura-lavoro; bassissimi investimenti nel sistema di istruzione e nelle politiche attive del lavoro.

Gli interventi di letti di investimento sociale sono considerati non solo come un modo per realizzare protezione ed eguaglianza sociale, ma anche come un investimento sul futuro, sulle giovani generazione e quindi come guadagni economici futuri.

Le precondizioni però, di cui si necessita per attuare e perseguire questo tipo di politiche sociali, non sembrano incontrarsi in territorio italiano ma sembra piuttosto che manchi in modo strutturale l’investimento in capitale umano per aumentare la occupazione e la produttività economica, la defamilizzazione per produrre aumento della occupazione femminile, la volontà di aumentare l’occupazione e la costruzione di “ponti sociali” per creare lavori nuovi e di qualità129.

In Italia le spese sociali sulla famiglia e sulla cura dei figli, politiche attive del lavoro, sono molto basse da sempre, dalle statistiche sembrano esser addirittura le più basse di tutti gli altri paesi OECD dal 2000, con l’eccezione della Polonia. Le ragioni degli scarsi sviluppi delle politiche di investimento sociale in questo paese sembrano dover essere attribuiti alla forte inerzia istituzionale e alla sbilanciata e bassa spesa sociale pro capite.

128 D.Carbone,F. Farina, A.Vincenti, (2004) Giovani della società dei lavori, Istituto di sociologia,

Università degli studi di Urbino, Roma pag.8

129Y. Kazepov, C.Ranci (2016), Is every country fit for social investment? Italy as an adverse case,

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Per tutta questa serie di ragioni, nel discorso pubblico, il welfare italiano è percepito come un costo improduttivo che anzi, favorisce al crescita del debito pubblico.

In realtà,in chiave di investimento sociale, il welfare state dovrebbe essere considerato come un modo attraverso cui promuovere crescita economica, occupazione e produttività economica. In questo contesto di ricerca ci occupiamo principalmente della difficile transizione dalla scuola al lavoro e della disoccupazione che attanaglia le fasce giovani della popolazione, per questo ci interessa osservare, per sommi capi, che tipo di rapporto esiste tra la occupazione e la educazione in Italia. Secondo le fonti statistiche l’Italia è uno dei paesi con più basso tasso di persone laureate rispetto al contesto OECD, il quale risulta avere una media di circa il 38% di persone laureate, rispetto all’Italia che è intorno al 21%.

Una questione che sembra strettamente connessa a questo tipo di dato è la struttura molecolare del sistema produttivo italiano. Nel 2012 risultava che il 47% delle aziende italiane fossero molto piccole, composte da un minimo di uno e un massimo di nove persone impiegate. Questa struttura ha per lungo tempo reso evitabile l’impiego di personale altamente qualificato, combinato alla poca tendenza dei manager italiani verso la ricerca e l’innovazione tecnologica. Nel tempo è rimasto stabile il tasso di occupazione delle persone con bassa qualifica mentre è sceso il numero di personale altamente qualificato occupato. Per questa ragione sembra che il 15% delle persone occupate in Italia siano caratterizzate da “over-education”, ovvero il livello di istruzione risulta più alto della qualifica che servirebbe per il lavoro svolto.

Un investimento sociale dunque, dovrebbe modificare in parte i campi di investimento della spesa pubblica, conferendo attenzione alla istruzione terziaria, impiegando energie nella struttura occupazionale, supportando la crescita e la produttività.

L’Italia sembra incapace di creare una occupazione di buona qualità e di fare entrare i giovani nel mercato del lavoro se non, con contratti a breve termine che li spingono spesso in una occupazione non-standard e una condizione di lavoratore povero. I giovani sono spinti ai margini del mercato del lavoro a causa delle barriere in entrata, della mancanza di protezione istituzionale, e di un mismatch tra domanda e offerta. Per affrontare questa condizione negli anni passati furono fatte diverse riforme nel campo delle politiche del lavoro, le quali in alcuni casi abbracciavano l’idea del Social Investment attraverso training, apprendistato, orientamento130.

Entro il contesto europeo il più recente e articolato tentativo di risposta alla difficile transizione dei giovani dalla scuola al lavoro e alla disoccupazione è stata la Garanzia Giovani, promossa nel 2013. Questo progetto nasce essenzialmente con l’obiettivo di consentire ai giovani che non studiano e non lavorano l’accesso ad una opportunità occupazionale, educativa o di formazione

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professionale. Non si garantisce un lavoro, ma si garantisce un servizio nella fase delicata della transizione. Si offre un tirocinio, un corso di formazione , un servizio di orientamento al lavoro, progetti nel servizio civile.

In Italia la Garanzia Giovani sembra poter avere successo esclusivamente se si svilupperà insieme ad un cambiamento e una implementazione delle politiche attive del lavoro, mirando inoltre ad una maggiore sistematicità e omogeneità negli interventi, i quali, oggi, sembrano assolutamente frammentati e differenti in base alle regioni di riferimento.

La attivazione della Garanzia Giovani infatti, è concordata attraverso linee guida a livello centrale ma amministrata dagli enti locali, il 93% delle risorse finanziarie sono gestite dalle regioni, le quali sappiamo essere in Italia caratterizzate da differenze strutturali131.

Negli ultimi anni si sono susseguite delle leggi in materia di politiche del lavoro che hanno tentato di promuovere nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato e di ridisegnare la governance delle politiche attive del lavoro. Nel 2014 è stata attuata sotto l’egida del governo Renzi, la legge delega 183 conosciuta come Jobs Act. La legge non prevede espressamente politiche destinate ai giovani ma tenta, attraverso la promozione dei lavori a tempo indeterminato, la creazione di una migliore rete di centri per l’impiego e agenzie del lavoro di facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro accompagnando questi cambiamenti con un maggiore livello di tutela sociale.

I principali strumenti che oggi sembrano essere dedicati espressamente ai “giovani” (fino ai 29 anni di età) sono l’apprendistato, che esiste ormai da moltissimi anni ma di cui è stata modificata la normativa da poco e la alternanza scuola-lavoro che invece è più recente132. (per uno schema europeo di sostegno alle transiz)

Apprendistato

Per quanto riguarda quindi le politiche attive, uno dei loro obiettivi è quello di valorizzare il capitale umano per consentire un migliore e più rapido accesso al mondo del lavoro. L’apprendistato sembra essere uno dei mezzi in assoluto più preziosi per questo scopo e viene utilizzato in ogni altro paese europeo. È un contratto a causa mista che implica l’obbligo della formazione ed è particolarmente conveniente per i datori di lavoro grazie agli sgravi fiscali.

131 P.Vesan, (2014) La Garanzia Giovani: una seconda chance per le politiche attive del lavoro in Italia? Il

Mulino- Rivisteweb, Bologna

132 P.Vesan, (2016), Per uno schema europeo di sostegno alle transizioni attive: prime riflessioni a partire

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È una forma di attivazione che permette l’acquisizione di competenze da parte della popolazione giovane e sembra rientrare a pieno nel contesto dell’investimento sociale. (investire nel sociale pag 67)

Il percorso verso l’istituzione dell’apprendistato, considerato come parte essenziale di politiche di Social Investment iniziò in Italia nel 1997 con il “Pacchetto Treu”, con cui inizialmente si prevedeva la possibilità di accedere solo per coloro che erano entro in 24 anni di età e successivamente, date le difficoltà, si innalzò a 29. (is every country fit for…)

Tuttavia, nel contesto italiano, nonostante gli investimenti fatti per questo tipo di strumento, l’apprendistato non sembra dare i risultati sperati, né per quanto riguarda l’agevolazione dell’ingresso dei giovani nel contesto lavorativo né sembra formarli ed elevare le loro competenze lavorative. Infatti dalle diverse ricerche emerge che vi sia innanzitutto una forte divergenza in base ai territori, con una forte ed evidente penalizzazione delle regioni del Sud, nelle quali vi sono ancor meno possibilità e opportunità rispetto alle già scarse risorse nei territori del centro e del Nord. Inoltre, uno degli aspetti che appaiono più problematici è quello della formazione all’interno dell’apprendistato, nonostante infatti dovrebbe esserci alla base, un piano formativo strutturato, l’effettiva realizzazione sembra scarsa e non sembra configurarsi come da aspettative.

L’applicazione pratica dell’apprendistato sembra sempre più configurarsi come uno strumento a disposizione del datore di lavoro che intende assumere personale per il tempo di cui necessita avvalendosi di notevoli sgravi fiscali.

Inoltre, il tentativo di flessibilizzare i contratti e dare vita a diversi tipi di tirocini, lasciando piuttosto libere le regioni di gestire le risorse e i progetti, ha comportato un rafforzamento delle differenze sociali e territoriali e irrobustito le disuguaglianze, piuttosto che creare maggiore eguaglianza.

Potrebbe dunque, l’apprendistato, essere un vero investimento sociale in grado di valorizzare il capitale umano e dare vita alla attivazione della forza lavoro giovane, ma per adesso, sembra che il contesto non sia favorevole allo sviluppo di questo tipo di intervento come invece accade negli altri paesi europei133. La mancanza di sistematiche strategie nazionali e capacità di indirizzare le politiche verso la risoluzione di problemi strutturali, implica una forte disfunzionalità nonostante l’utilizzo di strumenti che rientrano a pieno titolo tra quelli di investimento sociale134.

133 U. Ascoli, C.Ranci,G. Sgritta (2016), Investire nel sociale, la difficile innovazione del welfare italiano,

Il Mulino, Bologna, pag. 67

134 Y. Kazepov, C.Ranci (2016), Is every country fit for social investment? Italy as an adverse case,

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Raccordo scuola-lavoro

Negli ultimi anni si è sempre più sottolineato a livello europeo e nazionale, l’importanza relativa alla possibilità di mettere in contatto il mondo dell’istruzione con il mondo del lavoro, puntando all’obiettivo primario di favorire gli inserimenti occupazionali dei ragazzi grazie ad un maggiore allineamento dei percorsi di studio con i fabbisogni del mondo del lavoro.

Si sostiene sempre più un modello educativo nuovo, che aiuti i giovani nel processo di costruzione della propria vita in situazioni di incertezza e di transizioni continue. Nel progetto europeo “Europa 2020” i punti chiave sono proprio: educazione all’imprenditorialità, alternanza scuola-lavoro, orientamento135.

Nonostante le difficoltà del contesto italiano, caratterizzato da austerity e retrenchment, nell’ultimo decennio, sono state previste diverse iniziative nel tentativo di mettere in contatto in modo efficiente il sistema formativo con quello del mondo delle imprese, non sempre, purtroppo, con risultati consistenti.

Come abbiamo già ripetuto gli strumenti utilizzati per favorire la cooperazione tra istruzione, mondo del lavoro e formazione sono considerati generalmente i metodi migliori nell’ottica di investimento sociale.

In Italia vengono introdotti dei progetti di questo tipo per la prima volta nel 2003, ma raggiungono scarso successo, infatti, solo il 2,6% dei giovani nel 2011 sembravano essere coinvolti in questo tipo di progetto, a differenza ad esempio della Germania (19,2%) o dell’Olanda (32,4%). Nel 2012 il 45,6%delle scuole secondarie ha cercato di aderire a questi programmi, incrementando dunque la partecipazione totale.

Il governo Renzi con la legge 107 del 2005, meglio conosciuta come “La buona scuola” ha dato vita ad un progetto di “alternanza scuola-lavoro”, obbligatoria per tutti gli studenti delle scuole superiori. Gli interventi programmati sotto il termine “raccordo scuola-lavoro” sono volti a sostenere l’inserimento occupazionale dei giovani attraverso l’investimento in educazione e capitale umano in stretto rapporto con le necessità espresse dal mercato del lavoro.

Come si legge nella Guida Operativa del Ministero dell’Istruzione, la misura dell’alternanza scuola-lavoro vorrebbe:

“attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica, sulla base di convenzioni con imprese o con le rispettive associazioni di rappresentanza o con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, o con enti,

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pubblici e privati, inclusi quelli del terzo settore, disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di tirocinio che non costituiscono rapporto individuale di lavoro.”

Secondo questo progetto la scuola deve favorire la formazione di competenze nuove e lavorare anch’essa contro la disoccupazione e il mismatch tra domanda e offerta.

Vengono previste, a seconda delle scuole, 400 o 200 ore di formazione che possono essere svolte in associazioni sportive e di volontariato, enti culturali, istituzioni e ordini professionali per dare modo di sviluppare esperienze coerenti alle attitudini e alle passioni di ogni ragazza e di ogni ragazzo136.

La forte frammentazione del contesto italiano,gioca un ruolo importante, implica risultati spesso disparati anche all’interno di brevi distanze a causa delle diversità strutturali insite e profonde nelle regioni, in termini di dinamismo economico, sociale, capacità istituzionale e a seconda delle risorse che detengono, non sempre sufficienti. Si riscontrano infatti delle differenze sostanziali tra le regioni del centro-nord che registrano numerosi partecipanti a programmi di alternanza scuola- lavoro, rispetto invece a quelle del sud che non sembrano riuscire ad attivare percorsi simili e con la stessa partecipazione. Sembra inoltre assolutamente insufficiente, per non dire quasi nullo, il coinvolgimento finanziario degli attori esterni privati, si registra un bassissimo interesse e impegno da parte dei datori di lavoro nel collaborare e partecipare allo sviluppo di questi progetti in Italia a differenza degli altri paesi europei in cui esemplare risulta la Germania137.

L’ipotesi progettuale inoltre, nasce quasi esclusivamente dal dirigente scolastico o dagli insegnanti e anche questo può comportare differenze sostanziali tra scuole e tra territori138. Per concludere possiamo dire che è difficile ancora leggere risultati precisi riguardo a questo nuovo percorso intrapreso dal governo italiano per aiutare la forza lavoro giovane ad avere accesso al mercato del lavoro, i dati disponibili fino ad ora non sembrano darci notizie particolarmente positive, non mostrano infatti differenze rilevanti tra coloro che hanno partecipato o meno a questi progetti nell’ingresso del mercato del lavoro.

Per concludere, i dati e le riflessioni relative al sistema del mercato del lavoro italiano non sembrano essere rassicuranti, anzi, delineano un territorio in forte difficoltà e che ha urgenza di essere sostenuto attraverso una serie di interventi trasversali.

136 La Buona Scuola https://goo.gl/Ds7Au5

137 U. Ascoli, C.Ranci,G. Sgritta (2016), Investire nel sociale, la difficile innovazione del welfare italiano,

Il Mulino, Bologna, pag.358

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Senza una ripresa della domanda di lavoro è molto difficile pensare che il progetto europeo di cui abbiamo sopra discusso possa davvero funzionare e fornire una risposta adeguata, sembrerebbe migliore l’idea di investire sul rilancio delle politiche per la competitività e lo sviluppo e sulla istruzione pubblica. Questo però comporterebbe importanti oneri sulla spesa pubblica e in un contesto come quello attuale, attanagliato dall’austerity non sembra facile da