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La Bibbia nell’utopia della traduzione

3.5 “Cambio di nozione, cambio di notazione”

4. Teoria della traduzione

4.4 La Bibbia nell’utopia della traduzione

La teoria e la pratica della traduzione di Henri Meschonnic acquisiscono un valore storico particolare se vengono situati nel contesto europeo. Questo perché “l’Europa è nata dalla e nella traduzione. L’Europa si è fondata solamente su delle traduzioni[, e] si è costituita solamente sulla cancellazione di quest’origine tutta di traduzione” (Meschonnic 1999: 38). Questo vale tanto per la sua scienza e la sua filosofia, che sono soprattutto di origine greca, quanto per la sua religione, che nasce dall’ebraismo e si promulga col cristianesimo attraverso la diffusione della Bibbia. È una caratteristica unicamente europea, “nel senso che i grandi testi fondatori sono delle traduzioni, e non sono tali se non in traduzione, e le grandi traduzioni sono prima di tutto quelle dei testi sacri” (39). La problematica interna a questa cultura della traduzione è che i testi tradotti sono ormai acquisiti, “assimilati”, dalla cultura europea, al punto che non sono più nemmeno

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percepiti come traduzioni, nel senso di Meschonnic, cioè come rapporto tra due lingue-culture. Il testo di origine viene in una certa maniera cancellato, e il testo d’arrivo naturalizzato nella cultura ricevente. Per questo Meschonnic parla dell’ “occultamento dell’occultamento che è quello dell’ebraismo, in tutta la storia del teologico-politico occidentale” (38). Le traduzioni hanno offuscato la lingua-cultura ebraico-giudaica ellenizzandola e cristianizzandola, in modo che leggendo la Bibbia “cristiana” si abbia l’interpretazione del Vecchio Testamento per mezzo del Nuovo, e la spiegazione della tradizione giudaica nel cristianesimo. Un esempio rapido che mostri questa cancellazione è la traduzione, già citata più sopra, all’interno del libro del profeta Isaia di “la giovane donna” con “la vergine”. La traduzione cancella il testo ebraico originale sovrapponendoci l’interpretazione cristiana. Inoltre questa cancellazione è semplicemente ignorata dalla maggior parte dei lettori e talvolta anche dagli esperti del settore, cosicché si ha “un’occultazione dell’occultazione” del testo ebraico.

Va aggiunto che “la versione dei Settanta è il testo che ha alimentato il cristianesimo, e, da secoli, preferita al testo masoretico”, che è “rigettato” dal cristianesimo in quanto la notazioni delle vocali e dei ta‘amim è tardiva, del VI-IX secolo (Meschonnic 2007:135). A ciò Meschonnic argomenta che “la scrittura consonantica non notava le vocali [e] il nome ta‘amim non designa solamente una forma grafica ma una gestualità e un’oralità che provano che la notazione non ha fatto altro che mettere per iscritto un’oralità necessariamente anteriore” (ivi). In sintesi, Meschonnic critica la presa di posizione filologica della maggior parte dei traduttori cristiani che si rifanno principalmente alla versione greca dei Settanta e non tengono conto del testo masoretico. Tale lavoro di traduzione che parte da un’altra traduzione e non dal testo originale, che sarebbe l’ebraico, non viene apertamente riconosciuto o comunque pochi ne sono a conoscenza, cosicché, in generale, non ci si rende conto che nel leggere la Bibbia non stiamo leggendo una traduzione di quella ebraica, ma soprattutto una versione derivante da quella greca, pesantemente influenzata dal teologico-politico cristiano.

La ripresa del testo masoretico, oltre ad essere una critica filologica su quale dovrebbe essere il testo fonte, di cui ci siamo limitati ad esporre la posizione di Meschonnic senza inoltrarci nel dibattito perché esula dagli obbiettivi di questa tesi, intende essere il primo passo per una “de-teologizzazione” della Bibbia. Con questo termine vuol dire prima di tutto “un reagire contro, un non più permettere, la cristianizzazione multisecolare del testo biblico[, c]he è una teologizzazione” (138). Una contromossa a quello che chiama “l’anti-giudaismo filologico

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cristiano” (Meschonnic 1999: 38), cioè l’imposizione autoritaria, quindi teologico-politica, di un’impostazione che favorisce la religione cristiana, senza permettere che venga messa in discussione.

Inoltre, Meschonnic intende anche svolgere un lavoro di “elucidazione” della “confusione tra il sacro, il divino e il religioso, [per] necessità del pensiero, e per cessare di confondere il teologico-politico con le cose della fede” (Meschonnic 2007: 139). Con “sacro” intende “il mito dell’unione originaria tra le parole e le cose, tra gli uomini e gli animali […], tra gli uomini e la natura… L’arcaismo primitivo[,] fusionale, il sacro per se stesso annulla come tale, la libertà dell’uomo” (Meschonnic 2005: 175). Da non confondere con “la pulsione verso il sacro”, che è “un’emozione interamente umana”, mentre il sacro è anche “la divinizzazione delle forze naturali, e la loro nominazione – il politeismo insieme alla magia” (176). “Il divino”, invece, “è il principio che ha creato tutte le creature viventi”, che era “naturalmente e primitivamente mescolato al sacro” (ivi). Questa unione rimarrà tale fino all’incontro di Mosè con il roveto ardente (Esodo 3) quando il patriarca chiede il nome di Dio che al posto di dare come risposta un nome proprio o comunque una nominalizzazione della sua divinità, che lo fisserebbe o limiterebbe in una categorizzazione linguistica, si svela attraverso un verbo “Io sono colui che sono!” (traduzione della Bibbia di Gerusalemme, EDB, 2009 – Meschonnic traduce l’imperfettivo ebraico invece con “Je serai / que je seria” che riprende la promessa del versetto 12 “Je serai avec toi”). Lì, inizia una teologia negativa a causa dell’impossibilità di nominare Dio, che diventa una “trascendenza assoluta”, perché non più afferrabile, categorizzabile, nemmeno linguisticamente, benché “in rapporto con l’umano” (ivi). A partire da ciò il divino si è distaccato dal sacro, in quanto il secondo è il tentativo stesso dell’uomo di controllare il primo – spesso identificato con le forze naturali -, appunto “la magia e il politeismo”.

Ora, il ritorno alla fusione dei due è un problema dei cosiddetti “testi sacri”, che appunto Meschonnic chiama “testi religiosi” per non confondere Dio, con la “voce di Dio”, coi testi fondatori delle religioni, che sono atti del linguaggio, umano. Credere che siano direttamente ispirati da Dio, o scritti da Dio stesso è una questione di fede e non di scientificità. “Sacralizzare direttamente la lingua, e tutte le sue unità, fino alle lettere, è esattamente fare dell’idolatria, nel senso definito da Maimonide, rendere un culto a ciò che è fatto dall’uomo” (177). Questa identificazione del sacro e del divino è maggiormente confusa perché implicata dal “religioso – o la religione”, che è “la socializzazione, l’istituzionalizzazione, la ritualizzazione,

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l’appropriazione, il sequestro, la gestione del divino” (ivi). Essendo il culto gestito dalla religione, si crea anche una sovrapposizione tra il religioso e il divino e la religione si appropria del divino, sacralizzandolo. Ed essendo la religione un’attività sociale, essa è anche politica, quindi “il religioso è teologico-politico” (ivi). I termini “testo sacro” e “lingua sacra” sono una conseguenza della confusione tra queste tre distinte dimensioni, sacralizzando il testo e la sua lingua, confondendoli con il divino stesso, con la “verità”, e non accorgendosi che invece si sta parlando di “testi religiosi”, del religioso o di una religione. Meschonnic ribadisce infatti che l’ebraico biblico “non dice che è una lingua sacra, dice lechon haqódech, lingua o linguaggio della santità” (Meschonnic 2007: 125). Intendendo per “santità” il divino nella sua trascendenza, e quindi “il linguaggio è ciò con cui è in rapporto, e solamente in rapporto, con essa” (ivi). La lingua del testo religioso viene così privata della sua “sacralità” o “divinità” e diventa la via che mette in relazione l’uomo con il divino. È un fatto umano, non trascendentale.

Da questo punto di vista, perché di questo si tratta, e non di una verità, il testo biblico, come potrebbe essere anche il Corano, non posseggono più un’essenza che li rende intoccabili, “sacri”, bensì sono un linguaggio che crea una relazione, soggetta alla teoria del linguaggio che li ha prodotti. Non si tratta qui di dire se una religione è “vera” o meno, o se lo è più di un’altra, ma di stabilire che la Bibbia, come potrebbe essere anche il Corano, non rappresentano una “verità” trascendentale in se stessi. La distinzione di questi tre termini riporta il testo biblico ad un livello puramente materialistico, quindi privo dell’autorità dottrinale che tende a “sequestrare” e infine manipolare, più o meno coscientemente, più o meno in buona fede, questi testi per motivi confessionali, teologico-politici.

L’obbiettivo di una tale “de-teologizzazione” è quello di “re-ebraizzare” la traduzione della Bibbia, ovvero mostrare il rapporto tra i due testi, la fonte e quello d’arrivo, affinché il testo originale, ebraico, non venga mascherato o cancellato. Perché “nella Bibbia, in ebraico, [c’è] un lavoro del linguaggio che è unico[, che] gioca il ruolo di parabola, di una leva teorica, di una profezia”, in quanto dal suo ritmo “viene un’organizzazione della parola per mezzo dei te‘amim in tutto il testo biblico, radicalmente estranea dalla nostra rappresentazione greca del linguaggio in versi e prosa” (134). È per questo che oltre a de-teologizzare la Bibbia, Meschonnic attua anche una pratica di “de-divinizzazione” [débondieuser], vuole “de-accademizzare, dopo aver de-ideologizzato” (138), cioè eliminare l’imposizione ellenizzante, in prosa e in versi, metrica formale, della nostra teoria del linguaggio. “Per cancellare la cancellazione dell’irriducibilità del

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linguaggio biblico al pensiero greco del linguaggio nel quale ci siamo talmente immersi che non lo sappiamo neanche più” (ivi). Non si tratta pertanto di “un’impresa religiosa”, ma di entrare nel “contenzioso tra l’ascolto della significanza, l’ascolto della forza del linguaggio e dell’ermeneutica”, di cui “non disconosco in alcun modo la sua necessità[, ma] provo a battermi contro la sua arroganza” (159), contro il discontinuo del segno. Vuole quindi “rimettere questi testi nel loro movimento proprio, riconoscendolo come tale, compito indissociabilmente filologico e poetico” (Meschonnic 1999: 220). È dunque per questo che Meschonnic ritraduce la Bibbia, per rimetterla in movimento, “per far ascoltare quello che tutte, dico bene tutte, le atre traduzioni cancellano”, per “fare in francese l’ascolto scrupoloso degli accenti del testo, i te‘amim, che sono i suoi ritmi, la sua prosodia e anche le violenze della sua grammatica. [...] Lavoro a far intendere il poema, che è tutt’altra cosa rispetto al senso delle parole” (Meschonnic 2007: 133). Le sue traduzioni francesi dei libri dell’antico testamento sono fatte per “taamizzare” [taamiser], per oralizzare, cioè per rendere nella traduzione la forza del linguaggio di un discorso nella sua relazione con la lingua, e non riducendo quindi tutto un testo al “senso”, a quello che dicono le parole.

Nella sua traduzione sarà quindi fondamentale l’organizzazione dei te‘amim del testo masoretico, che sono “un’accentazione continua [che] gerarchizza, semantizza, ritmizza il testo biblico e regola la cantillazione” (Meschonnic 1982: 473). Ma non hanno solamente una funzione melodica, di cantillazione, ma sono la “sola punteggiatura del testo”, che non ha il valore logico di quella moderna francese, ma ha una funzione “disgiuntiva e congiuntiva”, che può essere in contrasto o meno con la sintassi e la grammatica – effetti ritmici che producono senso (ivi). Questo particolare tipo di notazione, che secondo Meschonnic è fondamentale per intendere l’ “oralità” del testo ebraico, è resa in francese soprattutto dall’organizzazione tipografica del testo, attraverso l’uso di spazi bianchi, singoli o doppi, e l’utilizzo dell’a capo. “Il linguaggio biblico è preso prima di tutto nella sua materialità […], come una dizione, prosodia e ritmo che dominano, inseparabili dalla significazione, dal rapporto tra valore e significazione che fa un testo” (Meschonnic 1973a: 451).

La Bibbia gioca un ruolo fondamentale nell’utopia di una trasformazione radicale della teoria del linguaggio che domina l’Europa. L’ebraico può essere quella “profezia” che mostra al dominio del segno che un’altra impostazione linguistica è possibile e che un cambio dal regno del discontinuo a quello del continuo del ritmo è auspicabile. Un continuo che mette in relazione

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vivere-dire, parola-scrittura, significato-significante, io-tu, individuo-società nella reciprocità delle categorie logiche linguaggio-poetica-etica-politica.

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