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La metrica non è il ritmo del discorso

3. Il ritmo secondo Meschonnic

3.2 La metrica non è il ritmo del discorso

Uno dei punti cardine della critica di Meschonnic sul ritmo è il suo lavoro di “igiene” per una disambiguazione dei termini che vengono comunemente utilizzati per delineare le analisi testuali. In modo particolare, e con un tono spesso polemico, le parole “metro”, “metrica” e “ritmo” sono state l’oggetto di lunghe critiche con l’obbiettivo di districarne significati che nel corso degli anni si sono sempre più sovrapposti. “È importante fare una critica della nozione tradizionale di ritmo[,] per meglio comprendere e sentire quello che avviene nel linguaggio, e a cosa la nozione tradizionale di ritmo, come elemento sonoro, paradossalmente, ci rende sordi” (Meschonnic 1998b: 26). “Come c’è un socialismo degli imbecilli, la metrica è la teoria del ritmo degli imbecilli” (Meschonnic 1982: 143).

L’attitudine provocatoria è palese, forse eccessiva, tuttavia Meschonnic non lancia solamente accuse, ma fornisce uno studio approfondito sul significato attuale della parola “ritmo” passando al vaglio una lunga serie di dizionari, di diverse lingue e di diversi campi di studio come la linguistica, la musica, la poetica e la filosofia (Meschonnic 1982: 149 – 184). Quest’ampia analisi lo porta a constatare che, “almeno nel campo culturale occidentale delimitato da questi dizionari[,] tutti dicono la stessa cosa”, che non è però “una prova della verità di quello che dicono”, difatti “questa unanimità definisce al contempo un sapere comune e un’origine comune” (151), ma non uno statuto di correttezza. Questa “cosa”, che irretisce tanto

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Meschonnic e lo sprona ad una critica così veemente, è la “mancanza di rigore” della critica che “nasconde le confusioni inerenti alla nozione corrente di ritmo, e che non tiene conto non solo della disparità dei domini, ma nemmeno della storia stessa della nozione e del suo statuto d’universale” (Meschonnic 1998b: 20). La sua esposizione mostra come nei vari dizionari di linguistica, di poetica, di musica, di filosofia, in diverse enciclopedie e in altri tipi di vocabolari, la descrizione radicata oggi del “valore” di “ritmo” presenti questo concetto come “una regolarità, un’alternanza, un gioco, più o meno variabile, tra la simmetria e la dissimmetria” (15). Inoltre, questa lettura di “ritmo”, che come abbiamo visto nello studio di Benveniste deriva soprattutto dalla tradizione platonica, sconfina e si mischia in maniera quasi “naturale” con il significato di “metro” e “metrica”, creando una confusione nelle definizioni. Al termine della sua analisi, Meschonnic sintetizza così: “Tre elementi si condizionano inseparabilmente: il primato della nozione di regolarità per definire il ritmo, la confusione tra il ritmo e il metro, e il primato del metro sul ritmo[, e] questa circolarità è senza uscita fintanto che uno di questi elementi è presente” (Meschonnic 1982: 184).

Il problema dell’attuale concezione di “ritmo” risiede soprattutto nell’invasione di campo della definizione del ritmo musicale in quello della poetica o del linguaggio più in generale. Meschonnic ci ricorda che la “metrica designa al tempo stesso la misurabilità, che suppone delle unità di misura, e l’organizzazione regolata – secondo delle convenzioni che variano da una lingua-cultura ad un’altra, e da un’epoca a un’altra” (Meschonnic 1998b: 20). Tuttavia, “la metrica, storicamente, è legata alla musica e alla danza” e non è quindi un caso “che la sua unità sia il piede, perché si batte la misura col piede: un battere, e un levare”(ivi). Però questo “implica necessariamente che ogni metrica sia binaria – tempo debole, tempo forte – anche se ogni tempo può contare più unità di durata” (ivi). Se la metrica è quindi la misura di una regolarità, e il ritmo è fondamentalmente un ritmo regolare, è facile far scivolare il concetto di metrica in quello di ritmo e farli quasi sovrapporre. Una tale prospettiva critica avrebbe come primo effetto quello di dar vita ad “un’universalizzazione” dei discorsi, perché molto spesso si tenta di giustificare o definire il ritmo metrico a partire dai fenomeni naturali (periodicità delle stagioni, dei giorni…), da quelli del corpo umano (il battito cardiaco, la respirazione…), o dai ritmi musicali, coreografici, pitturali e poetici, in maniera indiscriminata. In tutto questo, Meschonnic vede una ricerca dell’origine, di un ordine cosmico, del “primato del numero, dell’ordine, originariamente

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cosmico e poi teologico” (Meschonnic 1982: 568), che però tende a negare l’alterità e la specificità della storia, e la storicità dei discorsi (Bourassa 2013).

Meschonnic denuncia che nel corso della storia occidentale c’è stata una fusione tra le nozioni di ritmo e quella della sua misura, e che sono oggi sovrapposte. Di conseguenza, nota anche l’indistinzione tra l’idea di “struttura – gli schemi metrici, dattili, spondei, [che] sono delle costruzioni”, e quella di “periodicità, il ritorno a intervalli più o meno regolari, ma sensibili, di uno stesso evento, un’alternanza dello stesso e del differente” (25). Il ritmo, accorpato alla metrica, è quindi la ricerca di una struttura, una forma, data a priori, che può avere una ricorrenza più o meno regolare, ma che tuttavia si basa sempre su una misura preconcetta che definisce la norma. Meschonnic, invece, riprendendo lo studio di Benveniste, che ripropone un concetto di ritmo eracliteo, inteso come movimento – “forma improvvisata, momentanea, modificabile” – distingue i due concetti sottolineando che da una parte il ritmo è “etimologicamente un flusso”, qualcosa di non fisso, e dall’altra la “metrica è sia il mezzo per misurare questo flusso, sia una misura di questo flusso” (24). In più, sposta l’attenzione dall’origine del ritmo, dal primato del numero, al suo funzionamento specifico, alla misurazione del flusso. Benché si utilizzeranno gli strumenti metrici per misurare il ritmo del discorso, l’analisi non sarà viziata dalla ricerca di una struttura che dovrebbe riproporsi, ma guarderà alla specificità di quel dato testo, nella sua unicità, storicità. Un tale studio non metterà quindi in rilievo solo quelle forme che permangono di più nella storia classificando le altre come variazioni della norma, ma evidenzierà ogni strutturazione metrica come elemento significante di uno specifico testo. In tale modo si eviterà anche la tentazione di essenzializzare alcune strutture metriche che hanno avuto un particolare successo culturale, come l’alessandrino, che si riteneva fosse determinato dalle capacità respiratorie dell’uomo, come fosse “una natura, una legge” (Bourassa 2013: 93).

Un’altra importante conseguenza della sovrapposizione del concetto di metrica su quello di ritmo nella concezione “tradizionale” è l’idea che la metrica sia un contenitore del senso, un ornamento, che conserva la dicotomia forma-senso, significante-significato. Uno schema che risulta proprio di quella che Meschonnic chiama la “metafisica del segno”, che nell’analisi poetica produce spesso una “desemantizzazione” dei significanti. Esaminando la struttura metrica solo attraverso delle unità di misura non semantiche in sé, come piedi o numeri, si sorvola il funzionamento dell’organizzazione ritmica e quindi il suo apporto semantico, di significanza. Inoltre, per Meschonnic lo studio del ritmo non è solamente l’analisi metrica come

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viene intesa tradizionalmente, improntata sul verso, ma riguarda anche i limiti e le posizioni dei gruppi di parole nei versi, e la loro configurazione specifica, ritmica e prosodica. L’astrazione formale della metrica, cioè la ricerca di una struttura in termini quantitativi, di numero, portano ad un concetto del ritmo puramente ornamentale. Questa impostazione è spesso data, come abbiamo detto prima per la definizione di ritmo nei dizionari, dalla “mancanza di rigore” nello studio del discorso. Meschonnic propone l’esempio di quegli studi che postulano l’esistenza di “piedi” (giambi e anapesti) nella metrica francese. Il concetto di “piede” è sostenibile nella metrica di quelle lingue ad accento di parola (come lo spagnolo o l’italiano per esempio), che autorizzano lo studio di combinazioni prevedibili di 2, 3 o 4 sillabe di tempi deboli o forti. Il francese però è una lingua ad accento di gruppo (quindi l’accento tonico si sposta a seconda del sintagma e non della parola singola) e quindi è soggetta ad un basso grado di prevedibilità degli accenti, perché dipendono sempre dal discorso, che è unico e nuovo in ogni nuova enunciazione. Ne risulta che una misurazione basata solo sulle sillabe, toniche e atone, come con l’uso dei “piedi”, e che non tenga conto dei limiti delle parole e dei sintagmi, diventa sterile per un testo francese, ed è prova di una teoria poetica che si basa sulla canonizzazione della metrica e della misura (Bourassa 95).

In conclusione, Meschonnic mantiene comunque la valenza della metrica nello studio della poetica, non la nega nella sua totalità, ma postula che “la metrica è solamente una delle varianti nella molteplicità delle organizzazioni del movimento della parola”, ovvero dei ritmi dei discorsi. Ogni testo, essendo inscrizione di un soggetto del poema, quindi unico nella sua storicità, presenta un suo funzionamento specifico, un suo ritmo.