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La traduzione come leva teorica

3.5 “Cambio di nozione, cambio di notazione”

4. Teoria della traduzione

4.2 La traduzione come leva teorica

Il tradurre mette in gioco la rappresentazione del linguaggio tutto intero e quello della letteratura. Tradurre non si limita ad essere lo strumento di comunicazione e d’informazione da una lingua a un’altra, da una cultura a un’altra, tradizionalmente considerata inferiore alla creazione originale in letteratura. [La traduzione] è il miglior posto d’osservazione sulle strategie del linguaggio, per l’esame, di uno stesso testo, delle sue ritraduzioni successive. (Meschonnic 1999: 15)

Da questa definizione di Meschonnic si evince che “il problema maggiore e addirittura unico della traduzione è la sua teoria del linguaggio” (Meschonnic 2007: 37). Come abbiamo detto sopra, la traduzione dipende dalla poetica del traduttore, ovvero dal suo pensiero sulla

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“letterarietà”. Per estensione, dato che la teoria poetica o della letterarietà dipende dalla teoria del linguaggio, la traduzione è subordinata e mette in luce “la rappresentazione del linguaggio” del traduttore. Partendo da questo presupposto, le ritraduzioni successive, nei secoli, di uno stesso testo possono dare luogo ad uno studio comparativo delle “teorie del linguaggio” che cerchi di rispondere “al perché, al come e al chi” della traduzione, inseparabili dal “quando” (Meschonnic 1999: 221). “La storia della traduzione e la sua teoria sono anche una storia e una teoria della trasformazione dei testi e della nozione di testo”, in quanto è “terreno per eccellenza dell’interazione tra il culturale e la poetica, tra le pratiche e la teoria” essendo “la sperimentazione reciproca della teoria del linguaggio e della letteratura” (222). È per questo che Meschonnic conferisce un ruolo portante alla traduzione nello studio della “rappresentazione del linguaggio, e della società, siccome ogni società dipende dalla sua rappresentazione del linguaggio e per essa ne è rivelata” (Meschonnic 2007: 37).

Lo studio della teoria e la pratica della traduzione, vista dalla prospettiva della teoria del linguaggio e della sua storicità, potrebbe quindi innescare una “vera e propria rivoluzione culturale” (ivi), perché in grado di analizzare la teoria e modificare la pratica della lettura-scrittura, quindi della nozione di letterarietà e della rappresentazione del linguaggio al contempo. L’utopia di Meschonnic è di servirsi della traduzione come “leva teorica” per divellere la cosiddetta “dittatura del segno”, che come una “matriosca” racchiude sei paradigmi che rendono il pensiero contemporaneo “discontinuo”, frammentato.

Primo fra tutti, è il paradigma linguistico, ovvero la concezione del linguaggio come significato più significante, cioè il segno ridotto ad un 1+1. Due termini con una gerarchia interna che favorisce il primo mantenendo il secondo in una posizione subordinata o addirittura lo cancella (Meschonnic 2006: 59). Questo paradigma è particolarmente evidente in traduzione, nella pratica di Nida per esempio che abbiamo citato sopra. Ma soprattutto “il modello linguistico fornisce il proprio modello di funzionamento agli altri [e] lì sta l’importanza culturale del segno” (60).

Segue il paradigma antropologico, cioè una concezione dell’uomo che oppone “il corpo e l’anima, la voce e lo scritto”, e quindi il pensiero e la lettera, il pensiero e il linguaggio (ivi). A sua volta seguito dal paradigma filosofico “che oppone le parole e le cose”, con particolare riferimento a “Hegel, per il quale la parola nella coscienza significa l’assassinio della cosa; occorre che la cosa sia sparita, uccisa dalla coscienza, perché ci sia la parola” (ivi).

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L’implicazione maggiore è che “l’opposizione parola/cosa contrappone la realtà, assimilata con la vita, alle parole che sarebbero qualcosa di aggiunto alla vita” da cui derivano concetti come “l’indicibile, l’ineffabile e l’innominabile” (ivi). Il rapporto tra linguaggio e vita è malinteso in un’impostazione linguistica che presuppone la parola come veicolo, come strumento. In questo terzo paradigma si colloca anche la dicotomia realismo/nominalismo di cui abbiamo già trattato precedentemente.

Il quarto paradigma è quello teologico, in modo particolare all’interno del cristianesimo e della civiltà occidentale, che contrappone il Vecchio e il Nuovo Testamento nella teologia della prefigurazione. Il senso del vecchio è chiarito dal nuovo (62). Come conseguenza, ha persistito per lunghi secoli nella cultura europea l’idea dell’ancillarità dell’ebraismo rispetto al cristianesimo inteso per tanti secoli il Verus Isreael, oltre alle manipolazioni teologiche delle traduzioni, che per esempio rendevano con “la vergine” la “giovane donna” scritta in Isaia, per prefigurare la Vergine madre di Cristo (ivi).

Il quinto paradigma è sociale e contrappone l’individuo e la società ed è mostrato per esempio da Sartre nel suo L’idiota della famiglia su Flaubert, in cui è lo scrittore borghese ad opporsi alla sua stessa classe (ivi). Infine c’è il paradigma politico, che risiede nella “difficoltà insolubile della democrazia [che] sta precisamente nell’opposizione della maggioranza e della minoranza” (ivi). “Non è affatto una cultura della pluralità, il modello è binario”, quindi una dicotomia tra identità e alterità, oltre al fatto che “la politica sia pensata in termini di conflitto tra il diritto e la forza” per cui “è ovvio che la forza la vinca” (63).

Secondo Meschonnic, il modello linguistico del segno non si riduce al campo della linguistica e della critica scientifica o accademica, ma è necessario includerlo in una relazione di dipendenza e influenza reciproca con tutti gli altri domini. Il segno è un modello di pensiero che satura la vita del mondo occidentale, in modo particolare dell’Europa. “Considerata la loro sistematicità interna, qui vanno collocate le due attività della poesia e della traduzione”, come innesco di un contro-pensiero che promuova “il continuo linguaggio e arte, linguaggio e vita, linguaggio come etica e come politica” (ivi). È per questo che la traduzione “gioca un ruolo maggiore e unico nella teoria d’insieme del linguaggio: quello di una poetica sperimentale” (Meschonnic 2007: 44), che può mettere in mostra e al tempo stesso smuovere l’inerzia dei “paradigmi del segno” innescando una vera e propria “rivoluzione culturale”.

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