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3.5 “Cambio di nozione, cambio di notazione”

5. Analisi della versione del Salmo XXV

5.1 Ritmo visuale

Partiamo dalla grafica, da come le diverse traduzioni si presentano visualmente. Innanzitutto, nella traduzione di Meschonnic, il salmo 25, come anche tutti gli altri salmi, è introdotto solamente dal numero. Questa scelta, che distanzia subito la sua versione dagli altri due esempi qui riportati, mostra la volontà di staccarsi da una tradizione prettamente greco-cristiana che ha attribuito il nome di “salmi” a questi componimenti. Inoltre, questa decisione riprende immediatamente la riflessione dell’autore esposta nell’introduzione sulla scelta del titolo, Gloires, glorie, al posto di salmi o libro dei salmi come è comunemente detto. L’autore spiega che il termine “salmi” è “indefettibilmente associato a tutta una serie di nozioni che ricoprono la Bibbia ebraica di uno strato al contempo di ellenizzazione e di cristianizzazione” (Meschonnic 2001b: 25). Questo è un primo passo concreto, di traduzione, che cerca di de-cristianizzare il testo, perché si tratta di liberarlo da “una religiosità, rispettabile, ma la cui abitudine maschera e fa addirittura dimenticare completamente che tutto ciò occulta e finisce per soffocare, per negare l’ebraismo (e il suo giudaismo) che l’ha costituito” (ivi). Non rinuncia solamente al retaggio cristiano, ma anche a quello che rischia di “accademizzare” il testo. Per questo non si serve di louanges, lodi, per tradurre tehillim, nonostante sia la sua traduzione propria. Perché è “al tempo stesso poeticamente accademico, che ammicca a Saint-John Perse, e compromesso (le due cose sono legate) in un rapporto al mondo che gli dice sì, il ‘non posso che parlarne bene’ del discorso per il premio Nobel”, che vuol dire “un rapporto al mondo che è quello di un’adorazione vaga, di un’accettazione del mondo e della sua storia, e questa attitudine, né umanamente né poeticamente, non posso accettarla” (27). Inoltre, nonostante la raccolta sia conosciuta come sefer tehillim, libro delle lodi, ritroviamo dei componimenti che non sono solo di lode, ma anche di semplice preghiera, di lamentazione o d’imprecazione.

Questo primo dettaglio, messo in evidenza da un’assenza, la mancanza del termine salmo davanti a 25, mostra la presa di posizione di Meschonnic, vale a dire come si situa poeticamente e quindi teologico-politicamente. Attua una rottura con la tradizione cristiana, mentre vediamo che la Bibbia di Gerusalemme non solo utilizza la parola salmo, ma mette anche tra parentesi il numero 24 richiamando la versione dei settanta che è stata per lunghi secoli il punto di riferimento per le traduzioni cristiane, assieme a quella di Girolamo. Anche qui, non a caso Meschonnic non riprende la numerazione dei settanta, ma si rifà solamente a quella masoretica. Scelta che trova motivo nella giustificazione filologica che abbiamo accennato nel capitolo

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precedente, e che vuole avvalorare l’autorità del testo ebraico rispetto a quello greco. Similmente, la Bibbia del Rabbinato non riprende la numerazione dei settanta, basandosi anche lei sul testo masoretico. Tuttavia, non scampa dall’influenza della tradizione greco-cristiana che la spinge a intitolare il componimento SALMO XXV e potrebbe indurre gli inesperti linguistici a credere che tehilla, femminile singolare del plurale maschile tehillim, significhi effettivamente salmo (che invece deriva dal greco psalmos, cioè canzone cantata su uno strumento a corde) o comunque asseconda l’autorità cristiana che si è estesa su questi testi ormai da secoli.

Quest’asciuttezza nell’introdurre il componimento poetico solo per mezzo del numero testimonia anche il voler lasciare che sia l’interazione tra il testo e il soggetto-lettore a far scaturire il senso della lettura. L’interpretazione non è in alcun modo guidata o suggerita da aggiunte paratestuali all’interno della pagina. La Bibbia del Rabbinato si comporta similmente, offrendo semplicemente la traduzione accanto al testo fonte senza proporre nessuna chiave di lettura. Al contrario, la Bibbia di Gerusalemme offre non solo un sottotitolo – Prière dans le péril, preghiera nel pericolo – che indirizza l’aspettativa del lettore, ma suggerisce un significato espressamente cristiano per mezzo di una sorta di riassunto interpretativo in versi a bordo pagina. Il rinvio al figlio, ton Fils, evidenziato dalla lettera maiuscola, esprime chiaramente l’orizzonte interpretativo cristiano a cui la Bibbia di Gerusalemme è rivolta.

Dopo un primo sguardo ai testi risalta in maniera decisa il diverso utilizzo dello spazio della pagina e della sua organizzazione sistematica. Se la Bibbia del Rabbinato presenta la sua traduzione tutta di seguito cercando di riprodurre un effetto simile all’originale ebraico che non ha nessun a capo, tranne alla fine del terzo verso, diversamente la Bibbia di Gerusalemme organizza il salmo in uno stile tradizionale agli occhi di un’occidentale, in versi. L’insieme del testo mostra un distico iniziale e uno finale che fanno da cornice al componimento strutturato dall’alternanza di due quartine e un senario, salvo per la terza strofa che è un quinario. Inoltre risalta in maniera spiccata la presenza dei nomi delle lettere dell’alfabeto ebraico scritti in corsivo che, pur rimanendo fuori dalla traduzione in quanto separate dai versi e inutili al fine della lettura, ne costituiscono una sorta di scheletro che regge il compimento. Sempre dal punto di vista d’insieme, la versione di Meschonnic si presenta rigorosamente strutturata in distici: ogni versetto è caratterizzato da due parti distinte, due “emistichi”, che ricoprono due versi, o comunque su due linee. Tranne per il primo versetto che è tutto su una linea. È interessante notare, che a differenza delle altre due versioni, Meschonnic argomenta nell’introduzione la sua

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scelta organizzativa del testo, spiegando che “la divisione in versetti è molto antica, e già attestata nei manoscritti di Qumran […]” e che quindi “il versetto è l’unità ritmica” sul quale si sviluppa il discorso, il testo (28). Impostazione che è condivisa anche dalla Bibbia del Rabbinato che, anche se non esplicitato da nessuna parte, appunto scandisce il testo in versetti, separati da uno spazio inusuale e preceduti da numeri. Anche qui l’unità ritmica è il versetto. Mentre non è argomentata la decisione della Bibbia di Gerusalemme. Si può intuire un collegamento tematico che giustifica la vicinanza dei versetti e il raggruppamento in quartine o sestine. Per esempio la prima quartina parla di fiducia/ speranza e di nemici e traditori in sequenza alternata: je me confie - mes ennemis / qui espère en toi – qui trahit sans raison. Mentre nel quinario che segue è centrale la richiesta della guida di Dio: fais-moi connaître, moi, dirige-moi, enseigne-moi. Una suddivisione logico-tematica, che però sembra mancare all’originale, quindi segno di un lavoro aggiuntivo dei traduttori. Riorganizzazione che non è presente né nella versione di Meschonnic né in quella del Rabbinato, ma nemmeno in quella dei settanta o nella vulgata che mantengono la suddivisione in versetti.

È ,invece, solo la versione di Gerusalemme a rievocare l’acrostico imperfetto del testo ebraico (non completo perché manca la lettera waw e al versetto 18 abbiamo un altro reš invece del qof, mentre l’ultimo versetto è fuori acrostico perché aggiunto in epoca posteriore) (Ravasi 1985: 467). Il Rabbinato non ne parla da nessuna parte, mentre Meschonnic argomenta in nota la sua scelta di tralasciarlo. Pur riconoscendolo nel testo masoretico, preferisce non tentare nemmeno di tradurlo perché l’acrostico nella tradizione ebraica non era solamente una tecnica mnemonica, ma rappresentava una teologia e una cosmologia: “L’alfabeto che ingloba il dicibile del mondo, da alef a tav (da alfa a omega), simbolizza la perfezione” (Meschonnic 2001b: 394). Ma questo simbolo dimora nella cultura e nella tradizione ebraica, e non in quella francese moderna, nella quale l’acrostico usa essere un gioco criptico solitamente irriverente. Per esempio l’acrostico di Corneille nel suo Horace (atto II, scena 3) che dice sale cul, culo sporco, o anche il sonetto Le Monde musical di Auguste Mangeot che scrive Mangeot est bête, Mangeot è stupido. Oggi, un acrostico in un testo di lode religioso, con toni che vanno dal sublime al tragico, non richiamerebbe niente più del gioco di parole dello scrittore, della sua creatività e arguzia, quindi una dissonanza nel suo sistema. La rievocazione stessa dell’acrostico, per mezzo delle lettere ebraiche poste all’inizio del versetto nella versione di Gerusalemme, sembra avere poco senso per un lettore europeo contemporaneo. Prima di tutto perché relativamente in pochi sanno

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effettivamente che quelle sono le lettere dell’alfabeto ebraico, e in più non aggiunge alcun valore al testo tradotto in sé.

Concentrandoci invece sull’organizzazione spaziale del testo, come si distribuisce sulla pagina, la versione di Meschonnic è singolare per i tanti spazi presenti e per l’assenza totale della punteggiatura. Nella sua introduzione Meschonnic spiega che quest’utilizzo degli spazi va a tradurre, semplificandoli, i te‘amim che arricchiscono e donano gusto al testo masoretico (36). Riportiamo per esteso la spiegazione più articolata di questo sistema che ha scritto nell’introduzione a Les cinq rouleaux, la sua traduzione del Pentateuco, e che è comunque valida anche per la sua raccolta dei salmi:

Gli accenti e la loro sintassi inscrivono nel testo una dizione. Gli mantengono la sua qualità orale, annotando, a volte, quasi un recitativo […]. In un primo abbozzo di punteggiatura avevo riempito i versetti di virgole, trattini, punti e virgola, per adattare la nostra punteggiatura logica a un ruolo unicamente ritmico e affettivo. Ho rinunciato a questo sforzo che pesava agli occhi, e in ogni caso era vano davanti i diciotto accenti disgiuntivi e i nove congiuntivi dell’ebraico. Ho preferito un sistema che si prestasse meno al controsenso, essendo più radicalmente differente dalla nostra punteggiatura e più semplice…

Ogni versetto termina con uno spazio, senza punto, non necessariamente una fine di frase, ma il completamente di un’unità di soffio. È l’equivalente del sof pasouk, fine di versetto. […] Ogni versetto, salvo i versetti molto brevi, comporta due versanti, “emistichi” spesso disuguali nel ritmo e nella lunghezza, separati da una pausa forte. È una cesura. È segnata da un a capo interno, il secondo emistichio inizia in rientro e con una maiuscola. È l’equivalente dell’accento atnah [“riposo”].

Ogni emistichio comporta almeno una pausa importante, segnata da uno spazio nella linea, procedimento utilizzato da Claudel. È l’equivalente del zaqef qatan, del zaqef gadol, o del segolta.

Uno spazio (meno importante di quello precedente, ma diverso dall’intervallo abituale tra le parole) rappresenta gli altri accenti disgiuntivi secondari, e si nota soprattutto laddove la sintassi del francese non farebbe attendere una fine di gruppo ritmico. Nella dizione, questi spazi “anormali” segnano gli accenti di altezza più che di pausa, l’equivalente del dito alzato nei racconti. (Meschonnic 1970b: 16-17)

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Senza una tale spiegazione, che è presente anche in Gloire in maniera meno articolata (Meschonnic 2001b: 36), la tipografia della pagina sarebbe alquanto oscura. Inoltre, anche dopo una prima lettura, probabilmente per il fatto che nella cultura europea e occidentale non siamo abituati a una tale impostazione, la comprensione di questo sistema non è immediata, soprattutto per distinguere lo spazio di zaqef e lo spazio disgiuntivo “secondario”. Mentre le altre due versioni, nonostante non argomentino in maniera così dettagliata la sistematicità della loro organizzazione della pagina, sono certamente più immediate.

Tuttavia, dopo aver sormontato la difficoltà iniziale per rendersi avvezzi ad un sistema che ci è estraneo, si può notare che il sistema di Meschonnic riflette una maggior coerenza e una minor ambiguità rispetto agli altri due. Prima di tutto, notiamo la differenza nella versione di Gerusalemme nel posizionare Mon Dieu nel primo distico nonostante sia annotato che faccia parte del versetto numero due. Questo è l’unico caso in tutto il salmo in cui l’inizio del versetto non coincide con l’inizio di un distico. Inoltre, il punto a capo per tutto il testo è riservato alla chiusura del versetto, mentre qui separa nettamente due parti di uno stesso versetto. Evidentemente, la ritmica della lettura ne è profondamente trasformata. È una scelta interpretativa che sembra essere soggettiva e non viene spiegata. Comunque, salvo questa eccezione, la Bibbia di Gerusalemme si dimostra sistematica nel suo utilizzo della punteggiatura e delle maiuscole: la maiuscola è riservata a Dieu, Israël, Yahvé, come segno della divinità e all’inizio di versetto quando quello che precede si chiude con un punto. Che è sempre il caso tranne che per due eccezioni: tra i versetti 8 e 9, e tra 12 e 13. Anche questa volta non ci sono note esplicative che giustifichino la non chiusura del versetto per un punto. La scelta e il valore che ne dovrebbe derivare rimane ambiguo nella traduzione, anche perché nel testo ebraico badāreḵə, la via, e yiḇəḥār, lui sceglierà, che chiudono rispettivamente i versetti 8 e 12, hanno l’accento sof pasuq [ ] che indica la fine del versetto; in più questo accento è presente alla fine di tutti gli altri versetti, in maniera indistinta, e pertanto non si capisce il motivo della differenza nella traduzione di uno stesso funzionamento del testo fonte. Un ragionamento simile potrebbe essere fatto per De David, che sia la Bibbia di Gerusalemme sia quella del Rabbinato, posizionano come intestazione al di sopra del testo, come se non ne facesse parte, un’informazione aggiuntiva. Tuttavia, a guardare il testo masoretico ləḏāwiḏ, di Davide, è l’inizio del primo versetto (difatti la Gerusalemme nota il primo versetto a partire da De David). Queste due traduzioni hanno operato una scelta, non spiegata, di separarlo dal resto del versetto.

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Continuando nell’osservazione, si vede che la Bibbia di Gerusalemme sistematizza la separazione del versetto in due “emistichi” (ciò che nel testo masoretico è reso da atnah [ ] ) rappresentandola graficamente per mezzo della virgola. Tuttavia, anche questa sistematicità è confusa da alcune eccezioni che non sono spiegate, e rendono quindi ambiguo il valore della punteggiatura. Prima di tutto, il versetto uno, che è troncato da un punto a capo dopo De David e si chiude con una virgola che segue âme, è legato all’inizio del versetto 2, cosicché è una virgola che traduce qui il valore di sof pasuq. Nel resto del testo però la virgola sarà soprattutto il segno che rende il valore della divisione in “emistichi”, l’atnah. Nei versetti 5 e 7 invece, c’è un aumento della suddivisione del versetto, rispettivamente in tre e in quattro versi, di modo che la virgola è sovraccaricata di valori diversi senza che siano più riconoscibili. Difatti, tornando al testo masoretico notiamo che al versetto 5 dopo ḇa’ămiteḵā, nella tua verità, c’è un accento minore come nel versetto 7 dopo nə‘ûray, mia giovinezza. Nella versione di Gerusalemme, che li traduce rispettivamente con ta vérité e ma jeunesse, entrambi sono seguiti da una virgola, però nel secondo caso chiude anche il verso. Non c’è pertanto perfetta corrispondenza. Inoltre, per tutto il resto del testo, la chiusura del verso corrisponde all’accento ebraico atnah che si trova per esempio dopo yišə‘î, mia salvezza, nel versetto 5 e dopo zəḵār-lî-’atâ, ricordati di me, nel 7. Nella versione di Gerusalemme però, questa cesura rappresentata dalla virgola si confonde con le pause minori sopradette e anche con le pause principali, ma non cesure, che dovrebbero seguire enseigne-moi, e mes révoltes. In più nel versetto 10, che dovrebbe contenere un atnah dopo we’ĕmeṯ , verità, vediamo che dopo vérité non c’è alcuna virgola come invece ci aspetteremmo e anche in questo caso non troviamo nessuna spiegazione in merito.

Anche la Bibbia del Rabbinato traduce gli accenti disgiuntivi del testo masoretico con la punteggiatura moderna francese. Ma anche lei senza riuscire a creare un’organizzazione chiara che ne riproduca i valori. Se la chiusura del versetto corrisponde sempre ad un punto o ad un punto esclamativo che aggiunge l’affetto alla lettura, l’atnah è reso per la maggior parte delle volte dalla virgola. Tuttavia, la sistematicità dell’organizzazione è resa ambigua perché l’atnah è tradotto anche dal punto esclamativo in 2, 17 e 21, dal punto e virgola in 3 e 20, dai due punt i in 5, dal punto di domanda in 12, e nel versetto 22 la cesura avrebbe dovuto seguire yiśərā’ēl, Israele, ma non troviamo nessun segno di punteggiatura, se non il punto esclamativo che è stato anteposto e che segue Ô Dieu! Inoltre le virgole sono anche il segno della punteggiatura che è stato utilizzato per marcare tutti gli altri tipi di pause in maniera indistinta. Ne risulta pertanto

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che il valore dei segni disgiuntivi della versione masoretica sono persi all’interno della punteggiatura francese, che li rende solamente in maniera ambigua e non discernibile. Il loro valore è stato pressoché interamente assimilato dalla punteggiatura logica francese.

Da questo punto di vista, Meschonnic pare sia il più efficace nel tradurre i te‘amim, perché, nonostante li semplifichi rispetto alla complessità dei 12 accenti disgiuntivi e dei 9 congiuntivi del libro dei salmi, riesce a trasmetterli per mezzo di una coerenza metodologica che permette al lettore di avvicinarsi a quella che è “l’andatura” della lettura ebraica. La sua sistematicità facilita la definizione del valore degli spazi che sostituiscono la punteggiatura, spazi che sono significanti e meno ambigui dei sistemi impiegati dalla Bibbia di Gerusalemme e dalla Bibbia del Rabbinato. Inoltre, sono doppiamente significanti perché oltre a segnare la pausa, in modo particolare l’atnah e quelli disgiuntivi importanti, rincarano “l’altezza”, ovvero conferiscono una sovraccentazione che rinvigorisce l’affetto e pertanto la semantica del testo. La Bibbia d Gerusalemme e quella del Rabbinato hanno cercato di sopperire a questa necessità servendosi della punteggiatura, come lo han fatto per le pause. Per esempio, l’inizio del versetto 2, ’ĕlōhay, mio Dio, è accentato da rebià [ ], che appunto segna una forza media, più sostenuta del normale nella dizione. La Bibbia di Gerusalemme si serve dell’interiezione ô davanti a mon Dieu, mentre il Rabbinato utilizza il punto esclamativo, entrambi per dare forza affettiva. Meschonnic rende questo effetto semplicemente ponendo un doppio spazio che non ha tanto valore pausale, ma piuttosto affettivo. Difatti, sappiamo che le pause vere e proprie, quelle principali, sono sof pasuq e atnah, che sono alla fine del verso e tra i due “emistichi”, che Meschonnic rappresenta diversamente. Inoltre, continuando la lettura del verso, si nota che en toi inizia con la minuscola – anche questo è un segno di continuità, di legame, dato che la maiuscola solitamente segue uno stacco, un punto, quando non è di un nome proprio – e il pronome riprende immediatamente Dieu, suggerendo una conseguenzialità tra i due gruppi. Il Rabbinato sembra riuscire a rendere questo funzionamento, mantenendo anche lui la minuscola subito dopo il punto esclamativo e legando insieme l’esclamazione al resto del versetto. Al contrario, la Bibbia di Gerusalemme, troncandolo dal resto del versetto lo separa nettamente dal pronome che dovrebbe seguire, toi. In più, essendo il secondo verso del primo distico, benché sia chiaro che si riferisce a Yahvé, è preceduto da una pausa importante di fine verso, che appunto lo allontana da j’élève mon âme e sembra suggerire un tono di rassegnazione piuttosto che di rafforzo affettivo. Che è invece il caso delle altre due versioni, perché Mon Dieu continua

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immediatamente, nello stesso “soffio” che è la lunghezza dell’ “emistichio”, in en toi j’ai eu confiance (Meschonnic) o en toi je me confie (Rabbinato), legando il grido d’invocazione alla fiducia in Dio. Funzionamento che sembra incepparsi, almeno in parte, nella versione di Gerusalemme.

Confrontando l’organizzazione grafica della traduzione di Meschonnic con quella delle altre due versioni abbiamo constatato che nonostante una difficoltà iniziale causata dalla novità dell’impostazione, la sua idea sembra poter favorire una relazione più coerente e funzionale tra i due sistemi di discorso. In particolare, pare che riesca a fornire un “equivalente” sistematizzato, benché semplificato, del valore degli accenti disgiuntivi e congiuntivi del testo masoretico nella traduzione francese. Valore che non è solamente pausale e rilevante per la dizione, ma che produce anche una significanza che influenza “l’andatura” intera del testo, sovraccentando per la loro posizione marcata alcuni elementi del testo, quelli cioè che precedono immediatamente la pausa. Una visualizzazione che non è accessoria, ma che collabora nel processo di semantizzazione, di creazione di senso, della lettura. Tutt’altra cosa rispetto a quella poetica ornamentale di Davide Rondoni, per esempio, che organizza la sua traduzione del salmo 25 così:

Della mia giovinezza non ricordare le colpe, pensa

a me nella tua misericordia, nella tua bontà,

che è cosa immensa. […]

Tu guarda verso me, abbi di me pietà,

sono solo, disgraziato. Solleva […] (Rondoni 1998b: 45-46)

La spezzettatura dei versetti, le riprese nella linea dopo all’altezza dell’interruzione del verso che