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nell’enunciato (Bourassa 2013 : 15). Tutte le parti del sistema, del discorso, vanno dunque ad essere “gli elementi di una semantica generalizzata e soggettiva, associativa” (Meschonnic 1973a: 266). Questo tipo di associatività, che partecipa al funzionamento del sistema e all’assegnazione arbitraria del valore, si riproduce in ogni tipo di discorso, tuttavia, la si ritrova in maniera peculiare e sintomatica all’interno dei testi di poesia. Quello che chiamerà un “continuo sintassi-ritmo-prosodia” (Meschonnic 2005, p. 88), allora che la sua teoria del linguaggio viene applicata alla poetica.

1.2 Riprendere Benveniste

Se la rilettura di Saussure è ritenuta un esercizio indispensabile affinché l’Occidente possa uscire da quello che Meschonnic ha definito una “crisi semantica” (Meschonnic 1975 : 15), lo è allo stesso modo la ripresa della critica linguistica di Benveniste, che ha servito da base concettuale per lo sviluppo delle teorie del linguaggio sviluppate dal poeta. Se delle teorie del linguista ginevrino si poteva denunciare un uso improprio, o per lo meno una parcellazione del suo sistema teorico che hanno finito per creare una serie di dicotomie che hanno portato ai vari approcci strutturalisti, nel caso di Benveniste si può parlare d’ignoranza del suo lavoro teorico, soprattutto nel campo letterario e poetico. Per Meschonnic, questi due pilastri della linguistica sono correlati l’uno all’altro, in quanto il secondo continua e sviluppa l’approccio di studio del primo. Lo stesso Meschonnic (1982 : 45) ci dice che la figura di Benveniste è fondamentale nella definizione della propria struttura concettuale di poetica in quanto è da lui che parte lo “studio dell’enunciazione e del discorso, ma anche perché tiene insieme in maniera esemplare la filologia e la linguistica, la cui separazione ha prodotto i formalismi astratti che si sono fatti passare per teoria.” Partendo dunque “dall’ipotesi di un primato del discorso, che Saussure non ha formulato, ma che ha reso possibile” sviluppando una teoria organica che lega i concetti di valore, sistema, funzionamento e arbitrarietà, Benveniste ha gettato le nozioni di base affinché fosse possibile una teoria del ritmo (29), che costituirà poi la grande avventura teorica della vita di Meschonnic.

Benveniste assume poi un valore di particolare rilievo nella biografia intellettuale di Meschonnic se prendiamo in esame il suo studio di confronto delle teorie di Saussure e di Peirce nell’articolo “Semiologia della lingua” (Benveniste 1985). Nell’analisi di queste due menti, che sottolinea non essersi mai incontrate né conosciute, Benveniste fa risaltare la circolarità del

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ragionamento di Peirce, ed illumina una via di riflessione che sarà poi seguita dal poeta e che si sintetizza nella sua denuncia della “totalizzazione del segno” (Meschonnic 2005 : 88). Il segno preso come primo e ultimo elemento di riferimento nello studio della lingua, come “base dell’universo intero e che funziona allo stesso tempo come principio di definizione per ciascun elemento e come principio di spiegazione per ogni assieme, astratto o concreto” (Benveniste 1985 : 60). In breve, tutto si riduce ad essere segno, segno di un altro segno, cosicché si rimane incerti se mai “potranno essere segno di qualcosa che NON SIA un segno?” (ivi.). Questa logica, basata sulla dicotomia tra significato/significante e sulla presa in considerazione del segno come elemento fondamentale e centrale dell’analisi linguistica, è vista da Meschonnic come una radice maligna che piaga tutta la logica dell’Occidente, e per questo ha meritato lo sforzo dell’intera sua vita affinché possa essere denunciata e sostituita da una mentalità guidata da una teoria del continuo, quella del ritmo. Ora vediamo nel dettaglio i concetti fondamentali dello studio di Benveniste, soprattutto nei due volumi di Problemi di Linguistica Generale, che saranno poi ripresi con vigore dal poeta.

1.2.1 Il discorso

Precedentemente, abbiamo sottolineato come fosse fondamentale nell’insieme della teoria di Saussure il presupposto che la lingua possa essere studiata solamente nella sua realizzazione concreta, storica, vale a dire nel linguaggio. La “parola saussuriana è quindi « l’atto dell’individuo che realizza la sua facoltà per mezzo della convenzione sociale che è la lingua » (Cours de linguistique général, p. 419, n. 63)” (Bourassa 2013 : 16). La lingua è osservabile solo a partire dalle sue realizzazioni storiche concrete, dalla parole. Benveniste estende questa premessa e nel suo studio “Le relazioni di tempo del verbo francese” (Benveniste 1971) arriva a formulare il concetto “di due diversi piani di enunciazione”, quello della “storia” e quello del “discorso” (285). Il primo consiste fondamentalmente nell’esclusione all’interno dell’enunciazione di “ogni forma «autobiografica»”, ovvero di tutte quelle forme linguistiche che implicano una “relazione di persona: io:tu”. È dunque il piano dell’enunciazione che include “solo forme di « terza persona »” (ivi.). Il piano del “discorso” invece, che è quello che inciderà maggiormente sullo sviluppo teorico di Meschonnic, va inteso “nel suo senso più ampio.” Secondo Benveniste il discorso è:

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ogni enunciazione che presuppone un parlante e un ascoltatore, e l’intenzione, nel primo, di influenzare in qualche modo il secondo. È anzitutto la varietà dei discorsi orali, di ogni genere e di ogni livello, dalla conversazione triviale alla concione più fiorita. Ma è anche la massa degli scritti che riproducono discorsi orali o che ne imitano il tono e i fini: corrispondenze, memorie, teatro, opere didattiche, in breve i generi in cui qualcuno si rivolge a qualcun altro, si enuncia come parlante e organizza quanto viene dicendo nella categoria di persona. La distinzione che noi facciamo tra narrazione storica e discorso, quindi, non coincide per nulla con quella tra lingua scritta e lingua parlata. L’enunciazione storica è oggi riservata alla lingua scritta, ma il discorso è tanto scritto quanto parlato. Nell’uso comune si passa istantaneamente dall’una all’altro. (Benveniste 1971 : 285).

Da questa definizione di Benveniste risulta più chiaro quello che Meschonnic vuole dire quando dice che il “discorso” è “la storicità del linguaggio” (Meschonnic 1982 : 21), appunto è la realizzazione concreta di un atto di comunicazione verso un ricevente. Più in là ci spiega che “il discorso è l’attività di linguaggio di un soggetto in una società e in una storia” (61). È essenzialmente quello che spiegava il linguista francese quando scriveva che “il linguaggio in atto si produce necessariamente in situazioni discrete”, vale a dire che “la situazione individuale di discorso […] è sempre e necessariamente attualizzata dall’atto di discorso e in dipendenza da esso” (Benveniste 1971 : 305).

Questo concetto si integra alle nozioni saussuriane di sistema e di linguaggio. Basandosi sul presupposto che la lingua è osservabile solamente dal linguaggio e che la lingua è sistema, gli elementi linguistici sono compresi solamente se sono studiati nella loro “situazione di discorso” (ivi.), potremmo dire in termini generali, in contesto. I vari elementi del discorso non possono essere presi come forme “virtuali o oggettive” (ivi), ma sono piuttosto parti variabili in base al loro utilizzo all’interno del sistema discorsivo che una determinata situazione comunicativa, “discreta”, esige o crea. La teoria di Benveniste spiega come sia necessario capire ed interpretare un segno all’interno del sistema discorsivo in cui è stato utilizzato, che implica l’idea di “un’enunciazione che presuppone un parlante e un ascoltatore […] in cui qualcuno […] si enuncia come parlante e organizza quanto viene dicendo nella categoria di persona” (285). L’atto linguistico non è quindi un mero strumento di comunicazione, dato dall’addizione di una serie di segni linguistici che sono selezionati ad hoc da una banca dati universale che è la lingua di una

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comunità, ma è considerato come la storicizzazione del linguaggio, ovvero l’appropriazione momentanea della lingua da parte di un soggetto, che si concretizza nella creazione di un discorso e dal quale, al tempo stesso, dipende. La sistematizzazione interna del discorso, che dipende dalla situazione discorsiva stessa, risulta quindi essere decisiva nell’interpretazione dei vari segni linguistici, che non possono più essere “letti” o capiti singolarmente, ma appunto in una sorta di economia discorsiva, quindi radicalmente storica – nel discorso.

1.2.2 La significanza

La circolarità della semiotica di Peirce però non dovrebbe annullare completamente la nozione di segno linguistico che è tuttavia centrale anche nella teoria saussuriana. È quindi necessario un’integrazione della rete concettuale del semiotico americano affinché tutta l’impalcatura si regga, e Benveniste scrive che “bisogna che da qualche parte l’universo ammetta una DIFFERENZA fra il segno e il significato” (Benveniste 1985 : 61). Ovvero, occorre prendere in considerazione il presupposto saussuriano di sistema, tale per cui un segno non significa in forza di una motivazione intrinseca, ma bensì grazie al suo rapporto differenziale con tutti gli altri segni. Ne consegue che non tutti i segni funzioneranno alla stessa maniera e soprattutto che non potranno appartenere tutti allo stesso sistema, ma piuttosto si classificheranno in diversi sistemi di segni, tra cui sarà possibile individuare “differenze ed analogie” (ivi).

Assumere il concetto di sistema nella propria costruzione teorica implica inevitabilmente la presa in considerazione del principio di arbitrarietà del segno, ovvero della mancanza di qualsiasi legame naturale tra un significante e il suo significato, quindi l’impossibilità di determinare a priori la motivazione che ha portato alla creazione e all’impiego di un segno linguistico. L’interesse è dunque legittimamente spostato dal segno linguistico preso singolarmente al “sistema di segni” di cui fa parte, e lo studio delle “relazioni” tra questi sistemi sarà il soggetto proprio dello studio del linguista francese, studio che viene chiamato “semiologia” (62). Il sistema, e quindi l’arbitrarietà del segno, sono i presupposti che rendono possibile “la condizione della SIGNIFICAZIONE” (61), la proprietà stessa di significare dei segni.

E fino a questo punto poco di nuovo è stato detto rispetto a quello che già aveva scritto Saussure. La vera intuizione di Benveniste risiede nell’inserimento in questo apparato

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concettuale di un nuovo termine, che non ne andrà a sostituire nessun altro, ma piuttosto andrà ad ampliare il campo di ricerca della linguistica e quindi della semiotica. È il concetto di significanza, che va ad aggiungersi a quello di significato.

Prima di tutto, è necessario capire il perché sia stato introdotto un nuovo termine. Partendo sempre dal presupposto che la lingua si trova solamente nel linguaggio, cioè nelle sue realizzazioni storiche “concrete”, nelle enunciazioni, e che i vari segni linguistici assumono un valore solamente perché si trovano all’interno di un sistema, che implica il principio di arbitrarietà, l’interesse del semiologo, e quindi di Benveniste, non si ridurrà più al semplice “senso” o “significato” dei singoli segni, ma piuttosto si estenderà alla “proprietà di significare” (67) dei segni, cioè alla loro significanza. Il mantenere i termini tradizionali di “senso” o significato” ci fissa in una logica nella quale l’elemento fondamentale rimane sempre il segno nella sua opposizione significato/significante, e per estensione, in un testo, tra senso/forma. All’interno dell’analisi quindi non ci si concentrerà più esclusivamente sulla relazione interna del segno, ma piuttosto alla sua relazione con tutti gli altri segni del sistema, relazione che determinerà il suo valore differenziale e ne definirà la sua proprietà di significare. La significanza di un sistema è quindi la ricerca del suo “modo di significare”, cioè di come il sistema agisce e di che sensi (udito, vista, ecc.) investe; del “dominio di validità” in cui “il sistema si impone e deve essere obbedito” ; della “natura e del numero di segni” che sono in funzione delle proprietà appena dette; del “tipo di funzionamento” del sistema, cioè la relazione tra i suoi vari segni che ne determina il valore distintivo (ivi).

Tale ricerca è propria di tutti i sistemi semiotici, che possono essere sia linguistici che artistici, monetari o altro. Tuttavia, la lingua è investita di uno statuto speciale, in quanto è l’unico sistema semiotico che può essere “interpretante” di tutti gli altri sistemi semiotici, “della società” intera (70). Inoltre è l’unico sistema semiotico che combina sempre “due modi distinti di significanza”, che vengono definiti “semiotico e semantico”.

Quello semiotico designa il modo di significanza che è proprio del SEGNO linguistico e che lo costituisce come unità. Si può, per necessità d’analisi, considerare separatamente le due facce del segno, ma, in rapporto alla significanza, unità è ed unità resta. [Il segno] esiste quando è riconosciuto come significante dall’insieme dei membri della comunità linguistica ed evoca in ciascuno, all’incirca, le stesse associazioni e le stesse opposizioni. Tale è il dominio e tale il criterio del semiotico.

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Con il semantico, noi entriamo nel modo specifico di significanza che è generato dal DISCORSO. I problemi che si pongono qui sono funzione della lingua come produttrice di messaggi. Ora, il messaggio non si riduce a una successione di unità da identificare separatamente; non è un’addizione di segni che produce il senso, ma è al contrario il senso (l’ “intento”), concepito globalmente, che si realizza e si divide in “segni” particolari, che sono le PAROLE. In secondo luogo, il semantico si prende necessariamente carico dell’insieme dei referenti, mentre il semiotico è per principio sganciato e autonomo da ogni referenza. L’ordine semantico s’identifica nel mondo dell’enunciazione e nell’universo del discorso. […] Il semiotico (il segno) deve essere RICONOSCIUTO; il semantico ( il discorso) deve essere COMPRESO. La differenza fra riconoscere e comprendere rinvia a due facoltà distinte dello spirito: quella di percepire l’identità fra l’anteriore e l’attuale da una parte, e quella di percepire la significazione di una nuova enunciazione dall’altra. Nelle forme patologiche del linguaggio, le due facoltà sono spesso dissociate. (Benveniste 1985 : 80-81)

Il piano semiotico è quello dunque che si concentra sul segno in se stesso, dell’unità in quanto valore inteso soprattutto nella sua positività. Quello semantico è invece la presa in considerazione dell’intero discorso in quanto sistema in grado di produrre un messaggio. È dunque capito nella sua organicità di sistema di segni, nella loro concatenazione e nelle loro relazioni. Il valore del segno è quindi capito essenzialmente nella sua negatività e come movimento verso il mondo, verso i “referenti”. L’attività linguistica fonde inevitabilmente e costantemente questi due piani ed esige di conseguenza un’attività complessa affinché possa essere intesa correttamente, un’attività che unisce il “riconoscimento” e la “comprensione”, cioè la presa in considerazione simultanea dell’aspetto positivo e negativo del valore, l’identità del segno e la sua compartecipazione nella formazione del valore nell’enunciazione e nel discorso.

Questa distinzione risulta particolarmente importante per il pensiero meschonnicchiano perché andrà a legarsi al concetto di discorso. Nella sua riflessione il poeta cercherà di elaborare proprio i propositi che Benveniste ha stilato alla fine del suo saggio “Semiologia della lingua” (Benveniste 1985): superare uno studio della poetica che si ripieghi sempre su una logica incentrata sul segno linguistico e su tutte le dicotomie derivanti, appoggiandosi invece sul concetto di “significanza del discorso” (82) e tentando di costruire una “metasemantica che si costruirà sulla semantica dell’enunciazione” (ivi). Sarà a partire da questa impostazione

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concettuale e da questa visione teorica che Meschonnic svilupperà la sua idea di “significanza”. Se per Benveniste la significanza era essenzialmente la “proprietà di significare”, per il poeta diventerà un termine “metasemantico”, legato alla poetica, e si riferirà in particolare alla “funzione d’insieme dei significanti” (Meschonnic 1982 : 72), cioè alla “produzione di valore partendo dai significanti” (349).

1.2.3 La soggettività del discorso

Nella sua definizione di significanza Benveniste scrive che la “lingua è produttrice di messaggi”, e in termini più generali questa sua proprietà è riassunta nell’accezione di “strumento”. Abbiamo già accennato però nel paragrafo “Il discorso” che Benveniste rifiuta questa denominazione della lingua perché ne deriverebbe una concezione strumentalista. Come suggerisce nel suo saggio La soggettività nel linguaggio (Benveniste 1971) l’idea stessa di strumento “contrappone l’uomo alla natura” (310). Qualsiasi oggetto che potremmo considerare uno strumento, come “la zappa, la ruota,” esiste solo in qualità di “artefatto”, cioè prodotto dall’ingegno dell’uomo. Il linguaggio al contrario “è nella natura dell’uomo, che non l’ha fabbricato” (ivi). È intrinseco ad esso e da lui inseparabile. “Non possiamo mai cogliere l’uomo separato dal linguaggio e non lo vediamo mai nell’atto di intentarlo” (ivi). Ne deriva quindi una presa di posizione che vede come particolarmente “sospetta” questa identificazione del linguaggio con uno strumento, proprio perché “dissocia dall’uomo la proprietà del linguaggio” (ivi), che gli è invece inerente.

Nel suo studio sulle espressioni della persona verbale, Benveniste evidenzia che sono costantemente organizzate secondo due “correlazioni: correlazione di personalità, che oppone le persone io/tu alla non persona egli; correlazione di soggettività, interna alla precedente e che oppone io a tu” (281). Ponendo però che la lingua è visibile solamente nel linguaggio e che “il discorso è il linguaggio messo in atto, e necessariamente tra partner” (310), è possibile estendere queste correlazioni ad ogni livello del discorso, a tutto il suo complesso. È per questo che Benveniste arriva a scrivere che “è nel linguaggio e mediante il linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto; poiché il linguaggio fonda nella sua realtà che è quella dell’essere, il concetto di « ego »” (312). Questa “soggettività” va presa in considerazione in maniera radicale: essa ricopre la “capacità del parlante di porsi come « soggetto » (ivi), inteso non tanto come la coscienza che una persona può avere di sé , l’ “io” freudiano opposto a “ES” e “super-io”, ma

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piuttosto come l’unione dei tre, che “trascende la totalità delle esperienze vissute che [questa capacità di essere soggetto] unisce” (ivi). Ne risulta quindi essere una proprietà fondamentale del linguaggio, che è possibile solamente in una prospettiva di “contrasto”, ovvero in un’opposizione tra un io e un tu. Tale condizione deve però essere interpretata non come una dicotomia o un rapporto parallelo tra le due persone, ma come un “dialogo” che è “costitutiv[o] della persona”, poiché non ci può essere l’io senza e il tu, e implica che io diventi tu nel discorso di un’altra persona che a sua volta si segnala come io. E lo stesso linguaggio diventa possibile solamente se ogni parlante si pone come soggetto della propria enunciazione. “La polarità delle persone è [quindi] la condizione fondamentale del linguaggio”, in cui tu diventa “l’eco” dell’io, e il cui “processo comunicativo non è che una conseguenza” di questa realtà dialettica (ivi). La correlazione di soggettività è dunque sempre presente ed essenziale ad ogni enunciazione, e apre dunque la possibilità della correlazione di personalità, in cui l’opposizione si estende tra io/tu e la non persona egli. Fondamento della “soggettività” rimane comunque quella “relazione [linguistica] reciproca” che “ingloba e definisce i due termini” (313).

Nello sviluppo di questa proprietà del linguaggio Benveniste si chiede a che cosa si riferisce un soggetto quando si serve di questa relazione e quindi si designa come io. È interessante che sottolinei che il pronome io non “rimandi né a un concetto né a un individuo”, e difatti non esiste nessun concetto di io che includa in maniera omogenea e condivisibile tutti gli io enunciati nel mondo e nella storia; allo stesso modo quel pronome non può riferirsi ad un individuo preciso, a meno che tutti gli individui siano identici, che ovviamente non è la realtà delle cose. Io è dunque “qualcosa di esclusivamente linguistico: […] si riferisce all’atto di discorso individuale nel quale è pronunciato, e ne designa il parlante” (314). Ha dunque una “referenza attuale”, ovvero rimanda alla “realtà [,situazione,] del discorso” ed è proprio in questa realtà in cui il parlante, segnalato come io, si dichiara, “si enuncia”, come soggetto. È seguendo questa logica che Benveniste arriva a dire che “è vero alla lettera che il fondamento della soggettività è nell’esercizio della lingua” (ivi). È pertanto attraverso il funzionamento stesso del linguaggio che ogni parlante riesce ad “appropriarsi della lingua designandosi come io” (ivi). Ritroviamo così in modo coerente la definizione di Benveniste dell’enunciazione di discorso, che implica sempre un parlante e un ricevente, e l’intenzione del primo di influenzare il secondo.

Inoltre, “è facile vedere che il campo della soggettività si allarga ancora e deve incorporare l’espressione della temporalità” (315). Se infatti abbiamo detto che l’enunciazione si

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realizza qualora si attua “la conversione della lingua in discorso” (98), cioè la lingua viene concretizzata in una situazione discorsiva che implica il momento storico discreto in cui si trova il locutore e dal quale dipende l’intellegibilità dell’enunciazione, qualsiasi tempo definito da verbi o da altri elementi linguistici come avverbi, particelle, ecc. non potrà che essere colto se