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5.3 …e una breve nota sul lessico

Senza avventurarci in disquisizioni sui vocaboli utilizzati dalle diverse versioni per tradurre l’ebraico, ci soffermiamo brevemente sul lessico per mettere in evidenza due scelte traduttive di Meschonnic che hanno valore esemplificativo per la sua metodologia e la sua teoria che abbiamo esposto nei capitoli precedenti. Il primo è ḥaṭṭā’îm nel versetto 8, che lui traduce con aux égarés, gli smarriti, quando invece le altre due versioni traducono con pécheurs, peccatori. Il Dizionario di ebraico biblico alla voce

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che è aggettivo, mette “peccatore”. Il sostantivo comunque è definito con “errore; sbaglio; disgrazia; peccato; colpa; reato”. Il significato di base è “errore”, mentre quello teologico è “peccato; colpa; reato”. In questa scelta di Meschonnic è possibile leggere la sua volontà di staccarsi dalla tradizione cristiana nel tentativo di de-cristianizzare la Bibbia. Nella parola “peccato”, probabilmente risuona un senso pudibondo che sa troppo di pietismo cristiano all’interno della cultura francese contemporanea. La sua scelta traduttiva è evidentemente un punto di vista, che mette in mostra la sua prospettiva etica e politica, ovvero come si relazione con il tu e quindi con la società che gli sta intorno. Dal canto loro, le altre due traduzioni non sembrano cercare di distaccarsi da un lessico che da secoli ormai è dominio prevalentemente cristiano, almeno in Europa. Questa decisione di Meschonnic si allinea con la prima osservazione che avevamo sottolineato nella nostra analisi, cioè l’omissione del nome psaume prima del numero 25 che introduceva il testo. Come anche la traduzione del tetragramma sacro, YHWH, che per gli ebrei non può essere assolutamente pronunciato; per questo, in quella parola ci leggono Adonai, mio Signore. La pronuncia del tetragramma è sconosciuta e le translitterazioni, che appartengono alla cultura cristiana, sono puramente ipotetiche, come Yahvé, nella Bibbia di Gerusalemme, o come il conosciuto Geova, dei Testimoni di Geova. Anche in questo caso, Meschonnic preferisce riprendere il termine

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ebraico, che comunque è usato anche in francese, rinunciando alla traslitterazione che è più comunemente a servizio delle traduzioni cristiane.

Il secondo esempio è la sua traduzione di raḥămeyḵā nel sesto versetto. Meschonnic scrive: “des tendresses de ton ventre”, le tenerezze del tuo ventre. Le altre due traduzioni lo rendono con tes bontés e tes grâce. Meschonnic spiega in nota (395) che la parola raḥămeyḵā, , che il Dizionario biblico definisce “compassione; dispiacere; pietà; commiserazione” e in senso generale “misericordia”, contiene e risuona con la parola re‘hem, , che è la matrice femminile. Il Dizionario biblico definisce re‘hem come “ventre materno, seno, grembo, viscere”. Nella sua traduzione ha quindi voluto rievocare questo gusto materno della tenerezza di Dio, una misericordia che non è solo quella di un giudice che perdona un accusato, ma quella di una madre che culla il proprio figlio nel suo grembo, nonostante le rivolte, gli “smarrimenti”. È chiaro che questa non è un’espressione corrente in francese, nemmeno in campo religioso, né cristiano né ebraico. È un sintagma nuovo. La sua fortuna, cioè se entrerà o meno nel francese come espressione fissa, dipenderà dalla ricezione. Tuttavia, questo è un chiaro esempio di come Meschonnic cerchi di “ebraizzare” la propria lingua, smuovendola e rinnovandola per mezzo dell’ebraico biblico, senza comunque stravolgerla creando dei non-sensi o degli esotismi. Qui ritroviamo la sua vicinanza con Benjamin. La traduzione, e quindi il testo, è ciò che fa la lingua, e non viceversa. “La Bibbia ha fatto l’ebraico, e non l’ebraico la Bibbia”, e similmente dovrebbe essere la Bibbia in francese a fare il francese.

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Conclusioni

Uno degli obbiettivi di questa tesi era di mostrare la complessità e l’ampiezza della proposta critica di Meschonnic. Non era nostra intenzione quella di dare una valutazione critica di un’opera indubbiamente articolata e originale, né di giudicarla alla luce di altre metodologie o teorie della traduzione e del linguaggio, ma semplicemente di far risaltare l’unicità della sua impostazione, in cui una sistematica riflessione sul linguaggio e la traduzione si sostanzia e riverbera in una prassi traduttiva altrettanto originale.

E’ sembrato perciò indispensabile muovere da una prima ricognizione della teoria della traduzione di Meschonnic e della sua fondamentale riflessione sul ritmo, considerando innanzitutto la sua filosofia del linguaggio, il suo rapporto con la linguistica di Saussure e del suo maestro più diretto Benveniste. Dopo aver cercato di chiarire il significato di nozioni centrali in questa riflessione linguistica come quella di “discorso”, la ricerca si è soffermata sulla teoria della traduzione e in particolare sui concetti di continuo, poetica, ritmo e soggetto della poesia.

Delineati gli aspetti teorici si è poi proceduto a verificare sul campo il modo in cui Meschonnic ha applicato la sua teoria alla traduzione, con la lettura critica della traduzione del Salmo 25 e la comparazione dei questa traduzione con altre versioni francesi canoniche.

Anche da un esempio minimo come questo (minimo naturalmente rispetto alla enorme quantità di testi tradotti da Meschonnic) è risultato con una certa chiarezza l’approccio traduttivo innovativo e originale del linguista francese, e il suo tentativo, svolto con una coerenza progettuale insolitamente intransigente, di offrire una versione del testo sacro radicalmente nuova, svincolata, se possibile, dalla tradizione occidentale, stabilita nei secoli dalla versione dei settanta e dalla Vulgata di Girolamo. Una versione, quella di Meschonnic, che vorrebbe, proprio in virtù di un’attenzione minuziosissima al ritmo originale, svincolarsi da secoli di fraintendimenti e interpretazioni orientate teologicamente e politicamente e che hanno restituito il testo Sacro in modo parziale e deforme.

La traduzione è vista da Meschonnic come “leva teorica” capace di innescare una rivoluzione culturale; ed è pertanto qualcosa di cui siamo obbligati a tenere conto. A maggior ragione oggi, in un mondo globalizzato capace di mettere in contatto tutte le culture e le lingue del mondo, in cui c’è una lotta costante tra identità e assimilazione, la traduzione gioca un ruolo fondamentale, sia socialmente che antropologicamente. Grazie soprattutto alla sua capacità di

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mettere in luce la teoria che si nasconde dietro alla pratica: teoria che non è solo del linguaggio, e quindi del soggetto, ma anche poetica e letteraria.

La traduzione di Meschonnic non mette quindi solo in evidenzia un’attenzione scrupolosa all’oralità del testo da tradurre, spesso sorvolata dalle altre traduzioni, ma ci permette di vedere l’implicazione etica e politica dell’attività traduttiva, come essa possa operare da “operatore di scivolamento ideologico”, al pari di un testo originale.

Le implicazioni sono innumerevoli e ampie: quale spazio ha la teoria del linguaggio oggi nella nostra società? Quali le implicazioni antropologiche e sociali? Quale posto ha oggi la letteratura nel nostro sistema scolastico? Come viene insegnata? Perché? Come viene tradotta? Come decidere “la qualità” di una traduzione?

La pratica e la teoria di Meschonnic sono uno strumento importante che può aiutarci a riflettere e smuovere un campo di studio, quello della traduzione e della letteratura, che sembra talvolta bloccato tra formalismi pseudoscientifici e libertà interpretativa illimitata. Un campo di studio che non è ermetico, ma che si apre sugli altri campi del sapere umano.

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