Aspetti teorici e strumenti empirici per un recupero della qualità democratica
2.8 Perché il Bilancio Partecipativo.
Unendo quanto appena detto in merito alle caratteristiche distintive delle arene deliberative, e a quelle
che contribuiscono a fornirne una loro differenziazione interna, con quanto contenuto a livello teorico
nel presente capitolo e confrontando tale unione con il quadro descritto nel capitolo precedente, si
possono incominciare a comprendere le ragioni che hanno determinato la scelta di concentrare la
nostra analisi sui Bilanci Partecipativi.
La crisi degli attuali sistemi democratici è, come abbiamo visto, una crisi che si manifesta a livello di
rapporto fra rappresentanti politici e cittadini, una crisi determinata dalla sfiducia crescente indirizzata
non tanto alla democrazia in quanto tale, quanto piuttosto ai suoi rappresentanti, sia a livello
individuale che in quelle formazioni politiche riconosciute sotto il nome di partiti.
E’ una crisi derivante dalla crescente complessità della sfera decisionale, prodotta da quel fenomeno
definito col nome di globalizzazione, che, se da un lato ha permesso l’incontro e la comunicazione fra
uomini, culture e società differenti, conducendo ad un reciproco arricchimento, dall’altro ha creato una
rete sempre più fitta e interdipendente di legami politici ed economici che possono portare ad una
paralisi gestionale dei contesti nazionali contemporanei.
Le democrazie liberali si stanno dimostrando incapaci di rispondere adeguatamente a tale complessità
e il loro cammino, dopo un trentennio passato cercando di trovare un equilibrio fra le necessità di
crescita di un sistema di produzione economica e le necessità di sviluppo di una società che ampliava
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liberale del ritiro della politica dalla sfera sociale per rifugiarsi in compiti di mera protezione
sistemica, lasciando nelle mani del mercato e delle sue presunte capacità di autoregolazione il compito
di gestire non solo i contesti economici, ma le stesse relazioni sociali e quei campi che, un tempo,
erano riservati ad una concezione virtuosa della politica.
In un quadro simile sono andati moltiplicandosi i tentativi di elaborare nuove teorie, nuovi scenari e
nuovi strumenti in grado di recuperare le definizioni etiche della democrazia, della politica e
dell’uomo.
A differenza però dei tentativi e delle ideologie rivoluzionarie del XIX secolo e dei primi decenni del
XX, i nuovi paradigmi si sono posti su un binario riformista, tentando, in un certo senso, di
“democratizzare la democrazia” dall’interno, riprendendo una visione “di sviluppo” elaborata già da
liberali quali Jefferson e J.S.Mill.
Nascono così le teorie partecipative e deliberative: le prime che esaltano la partecipazione e che
auspicano una distribuzione dei poteri decisionali che avvenga secondo schemi più inclusivi; le
seconde focalizzate sulla possibilità di raggiungere un consenso che non derivi unicamente dalla forza
contrattuale sviluppata fra le parti, o dalle capacità di negoziazione dispiegate all’interno di un
processo decisionale, ma che si sostanzi invece attraverso un processo di pubblica argomentazione che
estrometta la ragione della forza o quella della strategia e richiami invece la ragione della pubblica
utilità e del bene pubblico.
I sostenitori di queste teorie rintracciano numerose ragioni a sostegno delle loro tesi, in particolare
riconoscendo agli strumenti derivanti da tali paradigmi i meriti di dare maggiore legittimità alle
decisioni, di renderle più stabili, più efficienti e quindi più efficaci.
Riconoscono poi il valore epistemico della partecipazione e della deliberazione, il loro essere in grado
di rinnovare quella passione per la politica che sembra essersi nel frattempo dissolta nell’apatia e nella
ricerca di un’autorealizzazione operata unicamente nella dimensione privata dell’individuo.
L’introduzione di strumenti derivanti da queste teorie permette al cittadino di tornare ad avere un ruolo
attivo a livello sociale e questo sviluppa un senso di autostima e di appartenenza alla comunità che
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quello di etnia, quanto piuttosto dalla consapevolezza di far parte di un gruppo nel quale la sua azione
è determinante ai fini dello sviluppo reciproco.
Lo studio di uno strumento deliberativo vuole perciò porsi come un’analisi delle possibilità effettive
che le conseguenze di una sua implementazione sono in grado di determinare, cercando di
rintracciarne gli esiti appena ricordati, senza dimenticare che tali esiti si legano inoltre con alcuni degli
indicatori democratici costruiti da studiosi di stampo liberale, quali appunto la qualità della
partecipazione, la responsabilità dei rappresentanti politici, il tipo legittimazione di cui godono, le
capacità dei cittadini di saper valutare le azioni dei governanti per poter innescare il processo di
responsivness, etc.
Per un’analisi di questo genere abbiamo dunque bisogno di uno strumento che sia allo stesso tempo
partecipativo e deliberativo, che si caratterizzi cioè per il massimo grado di inclusività e per la
contemporanea presenza di tratti distintivi di carattere dialogico e non negoziale o contrattuale. Inoltre
questo strumento dovrebbe protrarsi per un periodo di tempo sufficientemente lungo per poterne
valutare gli effetti sul sistema politico e sui cittadini e per poter verificare se e come le conseguenze
virtuose di cui abbiamo ampiamente disquisito si vengano a produrre.
Lo strumento dovrebbe poi essere introdotto in un’arena politica di natura pubblica e riguardare
questioni relative al governo del territorio, e non, ad esempio, questioni etiche o di giustizia sociale
che rimandano a dimensioni e a tempi decisionali lontani da quelli in cui si svolge quotidianamente la
vita dei cittadini.
Questo strumento dovrebbe concentrarsi su questioni specifiche, dando vita a processi la cui
implementazione possa avvenire in un lasso di tempo sufficientemente ristretto, le cui tematiche
possano riguardare da vicino un ampio numero di individui che ricoprono posizioni e ruoli diversi
all’interno del loro contesto territoriale: tutto ciò in base all’ipotesi che più una questione è percepita
come prossima da parte di un individuo, maggiori saranno le possibilità che egli decida di intervenirvi
nel caso in cui vengano predisposti spazi pubblici costruiti appositamente allo scopo di trovare una
soluzione o anche solo avviare un percorso di dialogo rispetto sulla stessa.
Lo strumento deliberativo oggetto da analizzare dovrebbe inoltre interessare non solo il personale
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come queste istituzioni rispondano all’introduzione di prassi che, come vedremo, mirano a modificare
le loro consuete modalità di agire.
Un’altra motivazione, che intende giustificare e avvalorare la nostra scelta, si lega al tipo di
empowerment prodotto dal modello deliberativo: in questo senso maggiori le possibilità di sviluppo di un empowerment diversificato, più idonea si dimostra la scelta.
L’ultimo argomento a favore della nostra scelta riguarda i dubbi che questi strumenti possano
svilupparsi andando oltre il loro contesto locale di riferimento: anche se per i teorici della
deliberazione e della partecipazione la possibilità di allargare il campo d’azione di una di queste
pratiche non sembra avere un’importanza determinante, visto che dal loro punto di vista un cittadino
attivo localmente è un cittadino che comunque assumerà un comportamento attivo anche verso
questioni di carattere più generale, la curiosità rispetto a tale possibilità ha rappresentato un’ulteriore
motivazione nella decisione di prendere in esame questo strumento.
Ci siamo chiesti e abbiamo tentato di verificare dunque se e in che modo un BP di natura locale
potesse essere in grado di sviluppare la sua azione sia verticalmente, estendendosi a livelli
amministrativi superiori, sia orizzontalmente, diffondendosi quindi in amministrazioni di pari grado
presenti nelle zone limitrofe a quella in cui tale strumento aveva trovato applicazione per la prima
volta.
I Bilanci Partecipativi sembra possano offrire tutte queste possibilità di verifica empirica e per queste
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