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Neoliberismo e democrazia “minima”.

A conclusione di questa parte dedicata all’evoluzione dei sistemi democratici tenteremo dunque in

queste pagine di tratteggiare le caratteristiche della dottrina neoliberista i cui principi, applicati alla

realtà politica, sociale ed economica, hanno modellato gran parte dei mutamenti individuali, nazionali

e globali finora esaminati.

Tramite questa espressione si è soliti indicare quel particolare insieme di teorie che hanno per

obiettivo la creazione di una società modellata ad immagine e somiglianza del mercato, governata da

uno “stato minimo”, e i cui cardini valoriali risiedono unicamente nella libertà e nell’iniziativa

individuale.

Dobbiamo fin d’ora anticipare come l’applicazione pratica dei principi derivanti dalle teorie

neoliberiste si sia a volte allontanata dai presupposti e dagli scopi per i quali le stesse vennero

formulate55.

Tutto ciò non ci esime però dal constatare come di fatto l’evoluzione registrata nei rapporti fra stato e

mercato da un lato e fra economia e politica dall’altro, abbia tendenzialmente seguito negli ultimi

trenta anni gli assunti principali provenienti da questa dottrina.

Il suo nucleo principale proviene essenzialmente dalle opere di Ludwig von Mises, dell’economista

Milton Freedman, del filosofo ed economista Friedrich von Hayek, e, seppur in forme più indirette, in

autori come Karl Popper e Rorbert Nozick.

55 Su questo tema si veda D. Harvey, 2005, Breve storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, Milano, e in particolare

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I primi tre studiosi fondarono, nel 1947, la Società di Mont Pélerin, la quale si poneva come obiettivi

la difesa di valori e istituzioni quali il primato della legalità, la fede nella proprietà privata e quella nel

mercato56.

Il gruppo che costituì questo think tank si considerava liberale per il suo impegno a favore degli ideali

di libertà personale, e neo-liberista per l’adesione ai principi del libero mercato contenuti nelle teorie

economiche neoclassiche emerse nella seconda metà del XIX secolo, che soppiantarono le teorie

classiche elaborate da Smith, Ricardo e Marx.

Anelito principale delle tesi neoliberiste è quello di traslare nella sfera sociale l’ordine presente nel

mercato: secondo Hayek l’ordine introdotto dal reciproco adeguarsi delle molte economie di mercato

corrisponde ad una catallassi, definita come “un ordine spontaneo prodotto dal mercato tramite

individui che agiscono secondo le norme del diritto di proprietà, di responsabilità extracontrattuale e

delle obbligazioni”57.

Rispettando un numero ristretto di norme generali, e universalmente applicabili, le diverse economie

interagiscono all’interno di un sistema più ampio, il mercato.

Per comprendere l’identità fra ruolo del mercato e ruolo della società, riferiti agli individui, si deve

uscire, secondo Hayek, dall’ambiguità con la quale sono stati spesso trattati i termini “economia” e

“mercato”.

Nell’accezione utilizzata da questo filosofo “economia” è il termine che descrive un complesso di

azioni deliberatamente coordinate utile ad una singola scala di fini, mentre per “mercato” si allude al

sistema che comprende le numerose e innumerevoli economie.

Stabilite delle regole strumentali con caratteristiche di generalità e universalità, l’ordine nasce

spontaneamente dall’interazione delle diverse economie all’interno del mercato, senza che queste

debbano avere uno scopo comune e senza che l’ordine stesso ne debba stabilire uno.

La società (o “Grande Società” così come denominata dallo stesso Hayek) derivata per identità

rispetto a questo ordine spontaneo, corrisponderebbe ad un insieme che non si pone deliberatamente il

56Il “manifesto” che raccoglie gli intenti di questa società dal quale abbiamo tratto la sintesi appena riportata è

consultabile presso il sito internet www.monpelerin.org/aboutmps.html.

57 F. von Hayek, 2000, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata, Milano, Il Saggiatore, p.

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perseguimento di fini collettivi, ma che si perpetua grazie alle interazioni individuali innescate per

scopi economici e che lascia ai singoli la libertà di condurre a termine o meno tali interazioni.

In questo ordine sociale spontaneo lo scopo della politica è quello di “far aumentare in modo

egualitario le possibilità per ogni membro sconosciuto della società di perseguire con successo i suoi

altrettanto sconosciuti propositi…(mediante) norme universalmente introdotte”58 e non quello di

essere guidata dalla lotta per il raggiungimento di risultati specifici come invece accade.

I suoi unici compiti sono quelli di stabilire regole universalmente applicabili e configurabili come vere

e proprie norme strumentali atte alla conduzione di un gioco.

A questo proposito è lo stesso Hayek a paragonare la catallassi ad un gioco in cui abilità e fortuna

rappresentano gli elementi inscindibili del suo funzionamento 59.

Stabilite delle norme (come ad esempio il diritto di proprietà) ogni individuo deve contare sulla sua

fortuna e sulle sue abilità personali per proseguire questo gioco, i cui esiti non possono essere previsti,

e i cui scopi possono di volta in volta essere ridefiniti in base alle interazioni che nascono all’interno

del gioco stesso.

L’uguaglianza a cui fa appello Hayek è quella derivante dall’applicabilità universale di una legge.

La centralità dell’individuo e il rifiuto di qualsiasi concezione organica della società sono questioni

centrali anche per Nozick, il quale sostiene a proposito che non può essere giustificato nessun

principio generale che specifichi particolari priorità o modelli di distribuzione validi per la società60.

L’unica forma di organizzazione legittima relativa alle risorse umane e materiali è quella derivante

dalla continua negoziazione delle attività individuali fondate su uno scambio competitivo.

La ragione che giustifica una tale forma di organizzazione risiede, secondo Nozick, nel fatto che esiste

una straordinaria diversità negli individui, e che tale eterogeneità non possa essere persa a causa di

ordinamenti politici che obbligano le persone a comportamenti routinizzati e standardizzati.

Allo Stato è riservato perciò un ruolo minimo che lo trasforma in una sorta di “agenzia protettiva” i

cui compiti consisterebbero unicamente nel tutelare l’individuo contro la forza, la frode, il furto e la

violazione dei contratti; qualsiasi misura pubblica che miri a promuovere l’uguaglianza mediante

58 Ibidem, p.323. 59 Ibidem, p.325.

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criteri redistributivi, è interpretata come una lesione dei diritti individuali di quei soggetti sui quali

ricadrebbero i costi di tale azione.

Allo stesso modo la democrazia viene criticata non tanto come sistema procedurale, quanto piuttosto

per gli effetti che il suo processo degenerativo ha comportato rispetto all’originario significato

liberale: Hayek si dice profondamente scosso e preoccupato della direzione verso forme di stato

totalitarie intrapresa dall’ordine politico delle nazioni più avanzate, e imputa tale svolta catastrofica ad

alcuni difetti profondamente radicati nella costruzione del tipo di regime politico democratico

generalmente accettato. Questo non significa che egli stesso non consideri la democrazia come

“l’unico metodo efficace da noi sinora scoperto per rendere possibile il cambiamento pacifico”61,

affermazione che evidenzia fin dalle prime battute come la sua critica non si rivolga tanto alla forma di

governo generalmente intesa, quanto piuttosto al particolare modello sviluppatosi all’indomani del

secondo conflitto mondiale.

Secondo il pensiero del filosofo austriaco la degenerazione dei sistemi democratici è avvenuta allorché

le principali istituzioni di tali sistemi, ovvero i parlamenti, hanno incominciato ad allontanarsi dalle

loro funzioni principali: la produzione di leggi.

Questa affermazione va interpretata non nel senso che i parlamenti abbiano smesso di adempiere alla

funzione legislativa, quanto piuttosto in relazione all’aspetto sostanziale di tale funzione: i “prodotti”

legislativi dei parlamenti si allontanano in modo sempre più eclatante dal vero significato del termine

“legge”; come sostiene Hayek oggi “i corpi legislativi non si chiamano in questo modo perché fanno

le leggi, ma le leggi si chiamano così perché emanate dai corpi legislativi”62.

La legge ha perso le sue connotazioni di generalità, universalità e astrattezza e si è trasformata in una

serie di provvedimenti particolari che incidono ora su un gruppo ora su un altro, emanate dai

rappresentanti politici per le esigenze di un processo di contrattazione attraverso cui essi si procurano

un sufficiente numero di votanti per sostenere un loro gruppo organizzato abbastanza numeroso da

prevalere sugli altri.

61 F. von Hayek, op. cit., p. 369. 62 Ibidem, p. 375.

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Il primato del diritto, unico e supremo limite di ogni istituzione di governo, è stato sostituito dal

primato del parlamento, luogo che rappresenta la “sede operativa” della sovranità popolare. Tale

sostituzione, favorita dal principio maggioritario, ha prodotto la possibilità per i parlamenti di

assumere poteri illimitati grazie ai quali poter “rifiutare l’idea che le loro decisioni particolari

dovessero rispettare una qualche norma generale a meno che essa non fosse stata emanata dal

Parlamento stesso”63.

Il modello ideale previsto da Hayek si può riassumere quindi in uno Stato il cui ruolo si limita a

fornire norme generali di condotta e il cui intervento diretto sulla società viene giustificato solo in

vista di una tutela di tali norme.

Le funzioni di questo apparato minimo, dal punto di vista governativo, si ripartiscono fra due organi:

un’Assemblea Legislativa composta da rappresentanti eletti attraverso il metodo democratico e i cui

compiti sono sostanzialmente quello di provvedere all’emanazione di norme universalmente

applicabili; e un’Assemblea Governativa, il cui fine è quello di rappresentare interessi particolari, e le

cui azioni, di portata limitata, andrebbero a sostegno di tali interessi. Tale rappresentanza anch’essa

scelta con metodi democratici, dovrebbe costituirsi su base maggioritaria e non proporzionale.

E’ chiaro come tale ordine costituzionale ideale si presti a critiche, se non altro per le difficoltà nel

gestire il prevedibile contrasto fra fini generali dell’assemblea legislativa e fini particolari di quella

governativa. Inoltre un governo fondato sulla rappresentanza di interessi non potrebbe svolgere le sue

mansioni senza interventi decisi in campo sociale politico ed economico a favore di quegli stessi

interessi che rappresenta. Se poi si considera che il criterio di rappresentanza scelto per l’elezione di

questa assemblea escluderebbe il sistema proporzionale, solo gli interessi più forti e/o diffusi

avrebbero voce all’interno di una simile architettura costituzionale, con buona pace di tutti quelli non

compresi nelle due categorie.

Dal punto di vista economico le dottrine neoliberiste criticano aspramente le teorie keynesiane e il

ruolo di primo piano affidato ai poteri pubblici in campo economico che queste teorie propongono. In

particolare viene criticata la funzione pubblica di attivazione del sistema economico mediante

strumenti atti a stimolare la domanda, auspicando invece interventi su quello dell’offerta realizzati

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mediante misure quali l’abbassamento della pressione fiscale, lo snellimento delle procedure di

scambio, quello delle pratiche burocratiche e il controllo dei parametri monetari quali, ad esempio,

l’inflazione. Tali critiche si estendono poi al ruolo di “dispensatori” di servizi che gli apparati pubblici

svolgono all’interno del welfare state, garantendo prestazioni a costo zero per gli utenti, o comunque a

prezzi lontani dall’equilibrio di mercato prodotto in caso di una gestione concorrenziale.

I costi di detti servizi vengono fatti ricadere sull’intera società attraverso i meccanismi del prelievo

fiscale o mediante continui aumenti del debito pubblico, meccanismi che, nel lungo periodo, generano

quegli scompensi in termini finanziari che conducono alla crisi fiscale, e che bloccano inoltre

l’iniziativa individuale attraverso un continuo drenaggio di risorse che conducono questo flusso verso

le casse dello Stato.

Quando all’inizio degli anni settanta la crescita economica subì un rallentamento, le economie

nazionali si trovarono di fronte ad alti tassi di inflazione e di disoccupazione, con una spesa sociale in

aumento e un totale delle entrate in diminuzione.

Le dottrine economiche neoliberiste, fondate su privatizzazioni e liberalizzazioni, sembrarono dunque

la misura migliore per superare il momento di crisi: lo stato poteva far cassa alienando le industrie

nazionalizzate e poteva in questo modo diminuire i costi derivanti dalla loro gestione; con le

liberalizzazioni e l’apertura dei mercati commerciali e finanziari poteva inoltre garantire una ripresa

economica attraverso un’accumulazione di capitale lasciata nelle mani dell’iniziativa privata.

Fin qui la teoria, ma quali risultati ha raggiunto l’applicazione delle dottrine neoliberiste?

Questa ricetta venne utilizzata per la prima volta all’interno di una democrazia consolidata come

risposta alla crisi fiscale della città di New York nel 1975: per far fronte al crescente divario fra entrate

e spese il municipio dovette accettare le condizioni di salvataggio offertegli dalle istituzioni finanziarie

che avevano acconsentito ad una ricapitalizzazione del debito.

Tali istituzioni assunsero il controllo della gestione del bilancio e imposero che gli introiti fiscali

fossero destinati prima di tutto per ripagare i titolari delle obbligazioni. Vennero poi drasticamente

diminuiti i fondi destinati ai servizi sociali, imposto il pagamento di canoni di utenza, effettuati tagli al

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fu chiesto loro di investire i fondi pensione degli iscritti in obbligazioni cittadine. Nessun aiuto giunse

al governo locale da parte degli organi politici e amministrativi della federazione.

Nel giro di pochi anni, afferma Harvey64, gran parte dell’infrastruttura sociale della città fu indebolita,

e le strutture fisiche (come ad esempio il sistema metropolitano) subirono un evidente deterioramento

per mancanza di investimenti. Il governo della city acquisì un carattere sempre più imprenditoriale e la

competizione per attrarre capitali lo trasformò in una governance urbana costituita dalla commistione

tra pubblico e privato. In questo modo “l’attività economica della città venne sempre più portata

avanti a porte chiuse, mentre i contenuti democratici e rappresentativi del governo locale si

indebolivano”65.

La gestione della crisi fiscale newyorchese servì da esempio per la conduzione, negli anni ’80, del

governo nazionale, stabilendo il principio che in caso di conflitto fra gli interessi alla stabilità

finanziaria di un’istituzione pubblica e il benessere dei suoi cittadini dovesse essere il secondo a venire

sacrificato. L’attenzione per i parametri finanziari derivante dalle teorie monetariste, relativi

soprattutto al contenimento del debito e dei tassi di inflazione, conquistarono istituzioni quali il FMI, e

così, ad esempio, quando nel 1976 il governo laburista inglese fu costretto a rivolgersi a questa

istituzione internazionale per tentare di frenare la crisi fiscale che aveva colpito la nazione, dovette

sottostare alle richieste di riduzione della spesa pubblica come clausola vincolante all’erogazione dei

fondi necessari a fronteggiare la crisi. Negli anni ’80 le politiche neoliberiste iniziarono la loro ascesa

e si affermarono come la ricetta dominante sia nelle modalità di gestione delle istituzioni governative

che come metodo di governance dei mercati commerciali e finanziari globali.

Le idee di libertà e autonomia individuale, dell’illegittimità di interventi di carattere redistributivo

operati dalle agenzie governative e di intollerabilità di azioni statali in campo economico si fusero con

gli assunti derivanti dalle teorie monetariste, per le quali il controllo dell’inflazione e dei parametri

finanziari rappresentavano i capisaldi da rispettare.

In una simile visione lo spazio per una democrazia fondata su una rappresentanza politica in grado di

rispondere agli interessi della maggioranza e di svolgere un ruolo attivo per il perseguimento di

64 D. Harvey, op.cit., pp. 58-59. 65 Ibidem p. 60.

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obiettivi quali la giustizia sociale o l’uguaglianza delle opportunità non può che riscontrare una netta

opposizione.

La democrazia torna in questo modo ad essere interpretata nella sua versione “minima”, quale metodo

di scelta degli individui destinati a prendere decisioni vincolanti per la collettività, senza che vi sia un

legame reale fra queste decisioni e i bisogni o gli interessi di coloro che sono chiamati ad eleggere tali

rappresentanti.

Nonostante quindi le premesse liberali alle quali si richiamano i principali esponenti di questa dottrina,

le conseguenze della sua applicazione non sembrano dare gli esiti immaginati, ma condurre, piuttosto,

non solo ad un aumento della concentrazione della ricchezza, e quindi della disuguaglianza, ma anche

ad un processo di progressivo logoramento qualitativo dei sistemi democratici.