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E’ possibile democratizzare la democrazia?

Aspetti teorici e strumenti empirici per un recupero della qualità democratica

2.1 E’ possibile democratizzare la democrazia?

Nel capitolo precedente abbiamo fornito una descrizione delle caratteristiche degli attuali regimi

democratici partendo dal presupposto, difficilmente contestabile, che queste forme di governo fossero

intimamente legate ai contenuti della teoria liberale della democrazia.

Siamo partiti dalla constatazione che una teoria, per poter esser considerata esaustiva, debba possedere

allo stesso tempo riferimenti prescrittivi e descrittivi, debba quindi dimostrarsi all’altezza di indicare

assunti ideali o valoriali in grado di trovare conferme nei contesti reali ai quali si riferisce (Sartori).

La teoria liberale presenta, in questo senso, tanto contenuti valoriali, quali la tensione verso la libertà,

l’autonomia individuale e la ricerca di un’uguaglianza che permetta a ciascun individuo di essere in

grado di competere con i suoi simili godendo delle stesse opportunità iniziali, quanto riferimenti reali,

come ad esempio la consapevolezza di dover tenere in considerazione l’esistenza di una società

pluralista che si perpetua mediante il conflitto.

I richiami al Primato della Legge, al relativismo e alla tolleranza (Kelsen), al pluralismo (Dahl), alla

difesa del principio di rappresentanza, allo sviluppo dei diritti di cittadinanza (Marshall), alla

responsabilità degli eletti (Schedler), sono principi presenti tanto nel pensiero liberale quanto nei

sistemi politici democratici.

Abbiamo però anche evidenziato come un numero crescente di studiosi abbia ormai da tempo iniziato

a parlare di uno stato di crisi delle democrazie rispetto ai principi e ai valori ai quali tali regimi

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Le democrazie contemporanee attraversano una crisi che attiene alle dimensioni della fiducia fra

rappresentanti e rappresentati, alla responsabilità politica dei primi, alla capacità di rispondere alle

esigenze di un elettorato sempre più frammentato i cui interessi abbracciano uno spettro sempre più

ampio di posizioni, spesso in reciproco contrasto.

Fra i cittadini aumentano i comportamenti apatici nei confronti della politica, la partecipazione si

riduce e aumenta la distanza simbolica che separa politica e società.

La politica inoltre sembra dipendere sempre più strettamente dal mondo economico e finanziario, i cui

obiettivi rimangono quelli di una crescita continua degli affari e degli scambi all’interno di un sistema

scarsamente competitivo poiché oligopolistico.

Questa crisi riporta al centro della discussione sociologica e politologica il tema della qualità della

democrazia, e con esso quello della necessità di individuare meccanismi in grado di spostare la soglia

di democratizzazione da un livello minimo (corrispondente alle condizioni sufficienti per considerare

democratico un determinato regime politico) ad uno che sia in grado di tradurre nella realtà le

indicazioni prescrittive proprie di questo regime.

Approfondendo il concetto di qualità abbiamo individuato una possibile definizione attraverso la sua

scomposizione in tre dimensioni: procedurale, contenutistica e afferente al risultato.

Le dimensioni, le variabili e gli indicatori individuati da Morlino e Diamond per un’analisi della

qualità dei regimi democratici possono essere interpretati, in ultima analisi, come un diverso rapporto

che viene ad instaurarsi fra rappresentanti politici e cittadini.

L’accento posto sulla partecipazione, sul ruolo e le caratteristiche che questa dovrebbe possedere, sulle

modalità di interazione fra dimensione politica e dimensione sociale, rimanda, a nostro avviso, a gran

parte delle indicazioni contenute nelle teorie partecipative e deliberative della democrazia.

Come cercheremo di dimostrare in queste pagine, tali teorie si liberano della veste antagonista propria

delle costruzioni più radicali sorte contro la concezione politica dominante racchiusa nella dottrina

liberale, della quale sembrano accettare gli assunti principali, se non condividendone lo spirito,

almeno riconoscendone la necessità.

Concetti quali quello di conflitto, di pluralismo e di autonomia individuale, fanno ormai parte del

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I richiami ad un ritorno verso società rette da principi comunitari, fondate sull’uguaglianza assoluta e

condotte da un’astratta volontà generale, appaiono anche agli esponenti delle teorie partecipative e

deliberative come riferimenti anacronistici, così come anacronistico risulta essere ogni tentativo di

sviluppare un’ipotesi di autogoverno che ambisca ad essere estesa ad una dimensione nazionale.

Coloro che rivalutano il ruolo essenziale della partecipazione più che assumere una posizione di rifiuto

tout court delle teorie liberali, sembrano criticarne soprattutto le correnti neoliberiste ed elitiste, con le loro metafore mercantilistiche ed economicistiche, la loro visione ferina dell’essere umano e della

politica e la consequenziale sfiducia nella possibilità che gli individui, generalmente considerati,

posseggano le capacità necessarie per intervenire attivamente all’interno del sistema politico.

Da questo punto di vista le teorie deliberative fondano il loro paradigma su una concezione ontologica

che riconosce come interessi, preferenze e bisogni siano suscettibili di trasformazioni ottenute non

mediante strumenti coercitivi o manipolativi, ma attraverso meccanismi dialogici che permettono il

raggiungimento di un consenso motivato.

Partecipazione e deliberazione possono esser lette dunque in chiave integrativa, fornendo in questo

modo interessanti risposte ai tentativi di arginare l’attuale crisi dei regimi democratici.

Gli strumenti derivati dall’applicazione di questi paradigmi stanno avendo in questi ultimi anni uno

sviluppo sempre più ampio: a partire dai primi anni novanta assistiamo infatti ad un moltiplicarsi non

solo degli esperimenti che applicano meccanismi partecipativi e deliberativi, ma anche dei riferimenti

giuridici che ne permettono lo sviluppo e degli attori istituzionali che ne auspicano l’applicazione.

Ma quali contributi possono giungere dall’utilizzo di tali strumenti e a quali dimensioni qualitative

possono essere ricondotti?

Se è vero che la dimensione procedurale richiede una maggiore trasparenza negli affari politici e una

partecipazione più attiva dei cittadini, sicuramente le teorie esposte nel presente capitolo sembrano

andare in questa direzione, non solo auspicando un maggior coinvolgimento del pubblico nelle

decisioni nodali o nelle possibilità di influenza del processo decisionale (Patenam), ma anche

mediante il ricorso a strumenti dialogici che, seppur utilizzati per fini strumentali, richiedono in ogni

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La possibilità di incrementare il grado di rispondenza politica dipende, come abbiamo visto, dalle

capacità di valutazione che i cittadini hanno nei confronti delle azioni dei loro rappresentanti: anche

sotto questo profilo le teorie deliberative e partecipative possono offrire sincere opportunità affinché ai

cittadini sia consentito di acquisire conoscenze e competenze utilizzabili non solo in relazione a

singole issues, ma anche in contesti che riguardano questioni complesse o ambiti territoriali più estesi

(Barber, Ackerman, Fishkin).

Dal punto di vista sostanziale, che ricordiamo riguardare l’effettiva realizzazione dei principi di libertà

e uguaglianza, queste teorie presuppongono che tali diritti non debbano unicamente sussistere in

un’accezione negativa limitata a riconoscerne l’esistenza, ma debbano invece corrispondere ad un

effettivo esercizio grazie alla predisposizione di spazi creati appositamente per tali scopi.

Teoria deliberativa e partecipativa fondano le loro argomentazioni partendo quindi da una concezione

positiva della titolarità dei diritti, soprattutto relativa a quelli di natura politica.

Da un’interpretazione statica di cittadinanza, legata alla titolarità formale di un insieme di diritti

(Zolo), si passa dunque a concepire questo status giuridico in termini sostanzialmente legati

all’effettivo esercizio degli stessi, esercizio che si traduce in una partecipazione politica che garantisce

libertà di opinione e libertà di espressione all’interno di un contesto i cui meccanismi vengono

edificati con il principale scopo di assicurare l’uguaglianza politica.

Esaminando infine la dimensione attinente al risultato, dobbiamo procedere ad una distinzione fra una

valutazione relativa alla qualità del prodotto direttamente legato al processo partecipativo e una

valutazione ex post che si concentra invece sugli effetti ad ampio raggio derivanti dall’utilizzo di tali

strumenti.

Nel primo caso è ragionevole supporre che estendere la partecipazione includendo il maggior numero

di soggetti potenzialmente interessati ad una decisione, per quanto possa complicare la gestione delle

fasi procedurali, permette di giungere a soluzioni più condivise qualora intervengano meccanismi

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Simili decisioni risulterebbero in questo modo non solo più stabili, poiché condivise, ma anche più

efficaci e potenzialmente più efficienti: l’utilizzo di strumenti deliberativi permetterebbe dunque una

maggiore legittimità delle decisioni1.

Gli effetti diffusi ci riportano invece a temi quali lo sviluppo di virtù civiche, la possibilità di

rinsaldare il legame sociale e, qualora lo strumento preveda la partecipazione di attori politici, la

possibilità di interagire direttamente con essi e quindi di recuperare il distacco sempre più evidente fra

politica e società civile.

L’implementazione di pratiche deliberative e partecipative sembra dunque costituire una soluzione

ragionevole alla crisi delle attuali democrazie, poiché permette di agire sulle cause di questa crisi

senza sconvolgere o rivoluzionare le strutture istituzionali esistenti, ma semplicemente affiancando ad

esse degli strumenti le cui caratteristiche permettono un recupero di quella qualità che le prime

sembrano aver perduto.

E’ dunque possibile democratizzare la democrazia? E’ possibile cioè andare oltre una mera concezione

meccanicistica o strumentale di questa forma di governo?

Se ci allontaniamo dalle correnti che seguono l’ortodossia elitista di matrice schumpeteriana la

risposta che generalmente viene data a simili quesiti è che non solo questa democratizzazione è

possibile, ma è anzi profondamente auspicabile.

E’ auspicabile per recuperare un primato e un’autonomia della politica e per correggere le distorsioni

di un’economia di mercato i cui effetti producono una crescita sostanziale dell’esclusione e della

disuguaglianza sociale.

Ad una sostanziale unanimità rispetto a tale auspicio corrispondono però giustificazioni teoriche,

etiche ed epistemologiche diverse e metodi che si differenziano ampiamente rispetto all’intensità delle

loro modalità di applicazione.

Quello che rimane, procedendo attraverso una sorta di riduzionismo logico, è che la strategia comune

alle differenti posizioni passa per l’esortazione ad un aumento del dialogo fra sfera politica e sistema

sociale, per un’intensificazione dei rapporti fra governanti e governati.

1

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Questa intensificazione può essere rappresentata da una maggiore comunicazione e informazione che i

governanti dovrebbero attuare nei confronti dei loro elettori, da una maggiore trasparenza dei

meccanismi decisionali e amministrativi, dall’implementazione di una serie di strumenti che rendano i

rappresentanti più responsabili verso i rappresentati e che consentano un grado più elevato di capacità

di risposta alle domande provenienti dai secondi.

Una tale direzione però non può esser presa unicamente dalle istituzioni governanti: per

democratizzare un sistema democratico sono necessari infatti un maggior coinvolgimento e una

maggiore partecipazione “dal basso”, sia sottoforma di impegno individuale sia grazie al ruolo di

istituzioni sociali quali gruppi di pressione, associazioni, movimenti e, più in generale, qualsiasi forma

collettiva scaturita dalla volontà di difendere o rappresentare un interesse pubblico.

La partecipazione diventa dunque il concetto strategico ai fini di un progresso qualitativo delle attuali

forme di governo democratiche.

Ma quale tipo di partecipazione viene invocata per il raggiungimento di tale obiettivo?

Riprendendo la tradizionale scala di partecipazione elaborata dalla Arnstein2 si possono individuare

otto gradi di partecipazione: manipolazione, terapia, processo informativo, consultazione,

conciliazione, partnership, potere delegato e controllo da parte del cittadino. Secondo la Arnstein i

primi due equivalgono ad una non-partecipazione; i tre successivi sono livelli di concessione

puramente formale, mentre gli ultimi tre gradi corrispondono a tutti gli effetti ad una piena

partecipazione poiché sottintendono una qualche forma di potere relativo al processo decisionale

riconosciuto ai cittadini.

In relazione all’intensità della partecipazione possiamo distinguere però due differenti posizioni:

quella di coloro che ritengono sufficienti livelli formali di partecipazione, quali ad esempio la

consultazione e la conciliazione; e quella, più radicale, condivisa dalla stessa Arnstein, che invece

richiede, come abbiamo appena visto, un coinvolgimento effettivo che implichi almeno una

condivisione del potere decisionale affinché si possa parlare di partecipazione.

In questo modo mentre per coloro che rimangono nel campo teorico della democrazia liberale è

2S.R. Arnstein, 1969, A Ladder of Citizen Participation, in Journal of the American Institute of Planners, 35, 4,

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sufficiente intensificare strumenti “garantisti” incentrati sull’informazione e la consultazione dei

cittadini al fine di assicurare una maggior trasparenza, e perciò la possibilità di un maggior controllo

dell’operato della classe politica, per coloro che si pongono sulla scia del paradigma partecipativo

questo tipo di meccanismi non genera altro che una partecipazione fittizia con la conseguenza di non

contribuire al raggiungimento dello scopo sostanziale: il miglioramento della qualità democratica.

Una seconda differenza attiene ai significati del termine “partecipazione”, che può essere declinato in

forme diverse a secondo della posizione assunta nei confronti delle funzioni legate al concetto di

“agire politico”: mentre i teorici elitisti, neoelitisti e pluralisti interpretano la partecipazione

essenzialmente in termini di compromesso a somma zero fra interessi conflittuali, per i

partecipazionisti e gli esponenti del paradigma deliberativo la partecipazione deve essere interpretata

come un processo in grado, se non di trasformare le posizioni iniziali dei partecipanti, almeno di

produrre soluzioni con un più alto grado di condivisione e di reciproca soddisfazione, andando in

questo modo ad innescare un gioco a somma positiva.

Questa differente interpretazione della partecipazione e dell’interazione fra individui o gruppi portatori

di interessi differenti costituisce il nucleo centrale sul quale sono state edificate le teorie deliberative,

che possono dunque venire interpretate come una teoria evolutiva del filone partecipazionista3.

Le differenti posizioni relative al grado di intensità e alle modalità di interazione fra partecipanti che

abbiamo sommariamente accennato in questa parte introduttiva contribuiscono infine a generare

differenti famiglie di strumenti partecipativi la cui distinzione tipologica deriva proprio dal connubio

generato da differenti “dosi” delle caratteristiche appena menzionate.

I teorici della partecipazione e gli esponenti delle teorie deliberative sono dunque convinti che ridurre

il gap qualitativo delle democrazie sia possibile a patto di introdurre nel campo politico strumenti che

consentano una partecipazione reale dei cittadini e un’interazione in grado di ridurre la

frammentazione degli interessi per giungere a decisioni in grado di ottenere un maggiore grado di

consenso.

Prima però di affrontare l’analisi delle tesi prodotte dalla teoria partecipativa e deliberativa della

3B. Gbikpi, 2005, Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa: quali possibili continuità,

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democrazia e di fornire una descrizione degli strumenti empirici frutto di tali teorie, ci sembra

opportuno introdurre un breve richiamo a quei precedenti storici e a quelle tradizioni del pensiero

occidentale che più hanno contribuito a plasmare queste due teorie.

Ci riferiamo in particolare all’esperienza derivante dalla democrazia diretta ateniese e a quella

prodotta dalla tradizione politico-filosofica repubblicana.

Entrambe infatti presuppongono una visione della politica, dell’uomo e del cittadino che, come

vedremo, costituiscono le premesse teoretiche di entrambe i paradigmi oggetto della nostra analisi.