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Liberalismo e partecipazione: la visione etica di Macpherson

Aspetti teorici e strumenti empirici per un recupero della qualità democratica

2.4 Fra liberalismo e comunitarismo: la teoria partecipativa della democrazia.

2.4.2 Liberalismo e partecipazione: la visione etica di Macpherson

Nella sua principale opera a sostegno delle tesi partecipative C.B. Macpherson si propone di delineare

un modello in grado di recuperare quella che definisce “visione etica della democrazia liberale”38

ovvero un preciso modello di sistema politico il cui scopo principale sia quello di assicurare a tutti i

suoi membri la possibilità di eguale libertà di realizzare le proprie capacità.

L’autore de La vita e i tempi della democrazia liberale si propone quindi di esaminare i limiti e le

possibilità espressi dalla democrazia per comprendere se, e attraverso quale cammino, sia ancora

possibile utilizzare le categorie prodotte dalle teorie liberali applicandole a tali regimi politici.

La possibilità di ottenere quella che abbiamo precedentemente definito la “quadratura del cerchio”,

ovvero la possibilità di coniugare una maggiore partecipazione all’interno di un sistema di ordine

liberal-rappresentativo, è data, secondo Macpherson, dal fatto che la democrazia liberale può essere in

realtà concepita sia come il prodotto di una società capitalistica di mercato sia come una società che

consente a ciascuno un’eguale libertà di fare ricorso e sviluppare le proprie capacità.

Nel primo caso, prosegue Macpherson, non sussiste alcuna chance di modificare il sistema politico,

nel secondo invece si aprono timide speranze che permettono di mantenere un certo ottimismo circa il

futuro dei sistemi democratici liberali.

Come risulta evidente già da queste prime note introduttive, la concezione democratica di Macpherson

ha un significato molto più esteso rispetto a quello derivante da una visione puramente strumentale.

Per democrazia si deve intendere infatti “non semplicemente un sistema politico i cui meccanismi

agiscono per la scelta e per l’autorizzazione dei governi affinché siano fatte le leggi e prese le

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decisioni politiche…(ma) una qualità che pervade tutta la vita e il funzionamento di una nazione o di una piccola comunità, o se volete, come un tipo di società, un’intera serie di relazioni reciproche fra

gente che forma la nazione o un’altra unità”39.

Lo stretto legame fra istituzioni e organizzazioni non politiche (quali la famiglia, la scuola, le

associazioni di volontariato, etc.) da un lato, e il particolare modello politico adottato da un gruppo

sociale dall’altro, appare, come nell’analisi della Patenam, di fondamentale importanza.

Macpherson ritiene che la modalità in cui l’insieme delle istituzioni e delle relazioni sociali plasma le

persone come attori politici coincida con la modalità in cui essi plasmano la coscienza che quelle

persone hanno di se stesse.

In parole povere possiamo affermare che un sistema politico rispecchia le caratteristiche della struttura

sociale ed economica che è chiamato a governare, e che la personalità e le coscienze dei suoi membri

si trovano a dipendere, in ultima istanza, dalla struttura delle istituzioni sociali nelle quali

interagiscono.

Le conseguenze derivanti da questa interpretazione dei processi di interazione e socializzazione fra

individuo e istituzioni comportano, secondo Macpherson, che se le istituzioni sociali ed economiche

concepiscono l’individuo come un consumatore e un accaparratore, non solo il sistema politico

adeguerà le proprie strutture e funzioni a tale interpretazione, ma gli stessi individui inizieranno ad

adeguare la percezione di se stessi a tale descrizione.

Con una simile premessa è chiaro come, per questo autore, esaminare la democrazia nella sua

dimensione politica risulterebbe impossibile senza approfondire ed estendere questa analisi all’intera

società nella quale il sistema democratico deve operare e agli assunti essenziali circa la natura della

gente che deve far funzionare tale sistema.

Macpherson analizza così l’evoluzione della democrazia a partire dal XIX secolo, periodo che si pone

come spartiacque fra quelle che vengono definite “concezioni utopiche” della democrazia e quelle

rappresentate invece dalle teorie liberali40.

39

ibidem p. 6.

40

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Questo passaggio è spiegato attraverso un’analisi del rapporto fra democrazia e classe: le teorie

democratiche che precedettero il XIX secolo (fra le quali quelle di More, Rousseau e Jefferson) furono

infatti elaborate per sostituire una società divisa in classi, e i loro autori le teorizzarono per denunciare

lo sfruttamento prodotto da tale divisione. Simili teorie si fondavano perciò su una struttura sociale

senza classi o, al massimo, mono-classe, ovvero una società di piccoli proprietari dove la possibilità

dell’esistenza di qualsiasi forma di lavoro salariato era impensabile.

La democrazia liberale invece accettò la distinzione in classi prodotta da un sistema capitalistico di

mercato e vi costruì sopra una teoria retta da una concezione utilitaristica dell’individuo e della

società: l’esigenza logica era quella di concepire un governo in grado di gestire una società composta

da individui attraversati da interessi contrastanti e considerati come eterni aspiranti a benefici

unicamente privati. La difesa di tale posizione si basava sull’assunto che l’uomo è un consumatore

illimitato, che le sue motivazioni dominanti sono l’accrescimento del flusso di soddisfazioni o

vantaggi che dalla società giunge a se stesso, e che una società nazionale non è altro che una mera

aggregazione di individui. Un governo responsabile nei confronti dei suoi cittadini si rendeva perciò

necessario al fine di proteggere gli individui e di permettere a ciascuno il perseguimento dei propri

interessi41.

L’evoluzione di questo primo modello di democrazia liberale definito come “democrazia protettiva” è

data dal mutamento delle condizioni sociale avutosi nel corso della prima metà del XIX secolo: la

minaccia delle classi lavoratrici nei confronti della proprietà costituita e le condizioni sempre più

palesemente inumane di questa classe, non più giustificabili sia economicamente che, soprattutto,

moralmente.

Questi mutamenti condussero J.S. Mill, e con esso autori successivi quali Linsday, MacIver, Barker,

Hobhouse e, non ultimo, Dewey, ad elaborare un modello democratico che potesse mantenere le

funzioni di protezione e, allo stesso tempo, migliorare le condizioni di vita delle classi popolari.

Il modello definito “di sviluppo” rappresenta secondo Macpherson un paradigma morale scaturito dal

filone liberale. In questo modello l’uomo è concepito come un essere capace di sviluppare le proprie

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capacità e le proprie facoltà e una società è ritenuta buona se permette non solo tale sviluppo ma anche

l’utilizzo di dette facoltà42.

I limiti di questo modello sono stati però quello di non aver considerato il nesso fra sistema di

produzione e origine della disuguaglianza e quello, successivo, di non aver compreso che i partiti

politici pur svolgendo un’importante funzione di stabilizzazione del sistema, impedirono di fatto

quello sviluppo individuale e quella comunità morale che rappresentavano i presupposti stessi di tale

modello43.

I partiti politici riuscirono ad allontanare la minaccia di un governo di classe derivante da

un’estensione del suffragio priva di quei meccanismi di protezione suggeriti da J.S. Mill (voto plurimo

proporzionale al reddito, alla proprietà o al grado di istruzione), ma resero i membri di tali

organizzazioni politiche meno responsabili nei confronti del loro elettorato e impedirono quella

partecipazione alla politica assunta come volano per lo sviluppo delle capacità individuali.

L’estensione del suffragio e i meccanismi di equilibrio generati dalla presenza dei partiti politici

contribuirono al passaggio dal secondo al terzo modello di democrazia, tuttora ritenuto dominante e

che Macpherson definisce come “democrazia di equilibrio”.

Tale modello corrisponde, usando le parole dell’autore, ad una versione e una rielaborazione del

modello “protettivo” e fu sistematicamente formulato da Schumpeter.

Secondo Macpherson nonostante questo modello sia il più realistico dei tre, se esaminato dal punto di

vista della sua capacità di legare concezioni ontologiche, struttura socio-economica e sistema politico,

non può certo essere facilmente considerato come democratico se paragonato alla seconda accezione

derivante dalla teoria liberale.

I sostenitori della democrazia di equilibrio giudicano questo modello il migliore a cui si possa aspirare

poiché realizza un equilibrio ottimale fra domanda e offerta di beni politici e riconosce inoltre un certo

grado di sovranità al cittadino. Riguardo poi alle possibilità di sviluppare tale modello in vista di una

maggiore partecipazione la risposta fornita si basa su due differenti argomentazioni entrambe tese a

screditare tale possibilità: la prima è una giustificazione di tipo elitista che si sostanzia

42

ibidem pp. 49-50.

43

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nell’affermazione che non tutti gli uomini sono in grado di formulare giudizi razionali necessari per

raggiungere delle decisioni politiche44; la seconda invece corrisponde alla giustificazione data dagli

esponenti della teoria della scelta razionale, secondo la quale proprio in virtù delle sue capacità di

calcolo del rapporto costi/benefici relativi ad una determinata azione, i cittadini preferiscono non

spendere tempo ed energie nella partecipazione politica45.

La replica di Macpherson relativa alle tesi dell’equilibrio ottimale e della giustificazione

all’impossibilità di una maggiore partecipazione è netta: l’equilibrio politico è in realtà un equilibrio in

condizioni di disuguaglianza e le affermazioni relative alla partecipazione muovono, nel primo caso,

dal presupposto che gli individui non possano sviluppare determinate capacità (peraltro ampiamente

confutato), e nel secondo da un assunto non verificabile né confutabile (ovvero che una logica

d’azione diversa non possa conquistare gli orizzonti culturali di una società che si evolve rispetto ai

suoi connotati capitalistici)46.

E’ soprattutto la tesi dell’equilibrio ottimale a venire scardinata attraverso l’uso degli stessi argomenti

con la quale è venuta costruendosi: se è vero infatti che il comportamento politico è simile a quello

economico e se, come ne consegue, il mercato politico è mosso dalle stesse leggi che regolano quello

economico, allora l’offerta politica seguirà la domanda effettiva, ovvero quella che ha potere di

acquisto. Ammettendo che il potere di acquisto nella dimensione politica è dato dalla disponibilità di

danaro, tempo ed energie (denaro per sostenere un partito politico, per organizzare una campagna

elettorale, per acquistare spazi pubblicitari nei mass media; tempo ed energie per informarsi,

ponderare le differenti offerte, accrescere le proprie conoscenze politiche) è chiaro come la

disuguaglianza derivante dal sistema economico renda per definizione diseguali le possibilità che

ciascun individuo ha di incidere sulla domanda effettiva.

Ne deriva che l’apatia non è una variabile dipendente dall’autonomia decisionale degli individui, ma

dalla disuguaglianza sociale prodotta dal sistema economico: se per ragioni di educazione e

occupazione vi sono delle disparità nella possibilità di una partecipazione effettiva, è chiaro che i

44

questa è la tesi iniziale avanzata da Schumpeter nel suo Capitalism, socialism and democracy, e ripresa successivamente da B.R. Berelson nell’opera redatta in collaborazione con P.F. Lazarsfeld e W.N. McPhee,

Voting, Chicago, 1954.

45

vedi M. Olson, 1963, The logic of Collective Action, Cambridge, Harvard University Press.

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soggetti più svantaggiati, comprendendo che un’ora del loro tempo e delle loro energie non

corrisponde ad un’ora del tempo e delle energie spesi da chi occupa posizioni più vantaggiose, si

allontaneranno dalla partecipazione.

La classe che ha maggior denaro per sostenere le domande politiche è la stessa che ha il maggior

rendimento per unità di energia umana: “in entrambe i casi sono le domande delle classi socio-

economiche più alte che sono le più efficaci. Di conseguenza le classi inferiori sono apatiche.”47

La critica al modello elitario pluralistico conduce all’elaborazione di un modello definito appunto

partecipativo.

Macpherson riporta come premessa, di fondamentale importanza per la nostra tesi, che tale modello

non può, viste le circostanze attuali derivanti dall’ampiezza delle società nazionali contemporanee,

essere elaborato rinunciando ad una qualche forma di rappresentanza politica, e che non può neppure

riprendere il percorso proposto dal concetto rousseauiano di società come rappresentazione della

volontà generale, o quello seguito dalla tradizione comunista di matrice marxista.

I presupposti del modello proposto da Macpherson sono due: un mutamento nella coscienza

individuale che richiede un passaggio dalla considerazione di sé quale mero consumatore ad una

visione virtuosa quale promotore e fruitore delle proprie capacità; una riduzione della distribuzione

ineguale dei redditi e della disuguaglianza sociale.

Malgrado lo stesso Macpherson ammetta la difficoltà di tali premesse, individua dei mutamenti nei

comportamenti collettivi che possono rappresentare dei punti di partenza da non sottovalutare per il

raggiungimento di tali presupposti e che oggi possiamo facilmente rintracciare e ritenere validi anche

a distanza di trenta anni dalla stesura del suo studio.

Il primo è la considerazione circa i costi imprevisti prodotti dall’economia capitalistica di mercato:

l’inquinamento, il danno ambientale, l’esaurimento delle risorse naturali e il peggioramento della

qualità della vita sono, oggi più che mai, argomenti che vengono avanzati con sempre maggior forza

come aspetti critici degli attuali sistemi economici. Questa valutazione dei costi-benfici diminuisce il

grado di consenso verso tali modelli di sviluppo e genera un generale aumento per le questioni di

interesse pubblico.

47

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Il secondo mutamento riguarda la rinascita di azioni partecipative di natura locale condotte da

organizzazioni appartenenti alla così detta società civile e indirizzate nei confronti delle operazioni del

“complesso politico-commerciale urbano”: queste azioni condotte contro la speculazione edilizia, il

decadimento dei centri urbani, l’ottenimento di servizi quali scuole e asili nido nasce dalla

consapevolezza che l’apatia politica permette alla concentrazione di potere aziendale di dominare sul

nostro ambiente, sulla nostra sicurezza e sulla qualità della vita pubblica e privata48.

Il modello partecipativo proposto da Macpherson, qualora i presupposti indicati trovassero conferme

all’interno del sistema socio-economico, corrisponderebbe essenzialmente ad una forma di governo

che presenta connotati rappresentativi al vertice e strutture di partecipazione dirette alla base.

In questo modello peraltro, i partiti politici non scomparirebbero, ma anzi andrebbero a ricoprire un

ruolo fondamentale, poiché rappresentano i canali attraverso i quali la partecipazione diretta e dal

basso trova il modo di confluire nelle decisioni adottate dai rappresentanti al vertice.

La differenza rispetto alla natura dei partiti politici esaminata nel modello di equilibrio sta nel fatto

che il ruolo di mediazione dei partiti sarebbe enormemente ridimensionato a causa di una struttura

sociale più omogenea. Questo renderebbe i rappresentanti dei partiti politici maggiormente

responsabili verso i loro elettori poiché il minor conflitto fra gli interessi provenienti dalla società

determinerebbe una minore necessità di ricorrere a quei compromessi che nella democrazia di

equilibrio hanno portato ad un sostanziale abbandono delle istanze provenienti dalla base elettorale49.

48

Macpherson, op. cit., pp. 104-106.

49

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