Aspetti teorici e strumenti empirici per un recupero della qualità democratica
2.5 Democratizzazione e deliberazione pubblica: le teorie deliberative della democrazia.
Nel 1980 trovava spazio all’interno di un’opera curata da R.A. Goldwin e W. A. Shambra un saggio di
Bessette dal titolo Deliberative Democracy: The Majoritarian Principle in Republican Government.
Questa prima opera, che chiamava in causa il concetto di deliberazione ponendolo al centro di una
riflessione sulle forme e le caratteristiche dei governi democratici, ha aperto una strada che, negli
ultimi due decenni, possiamo considerare come uno dei tentativi più importanti a livello teorico ed
empirico di ripensare l’attuale sistema politico per migliorarne qualitativamente le caratteristiche.
Così come la democrazia partecipativa è stata definita una particolare forma di democrazia diretta,
possiamo inquadrare quella deliberativa come una sottoclasse, o meglio, la continuazione e il
compimento, di quella partecipativa62.
Ma le teorie deliberative, nel loro insieme, rappresentano un corpus teorico che intende andare oltre la
mera evoluzione delle tesi partecipative: esse infatti mirano a tracciare quella che potremmo definire
la “terza via” nella dicotomia fra sistema liberale e modello partecipativo.
L’importanza della discussione e del dibattito è infatti riconosciuta tanto nel primo quanto nel
secondo: la tradizione liberale e quella partecipativa concordano infatti sulla centralità, per un sistema
politico democratico, dello sviluppo di un’opinione pubblica informata, consapevole, in grado di
esprimersi attraverso giudizi costruiti razionalmente e non invece mediante pregiudizi derivanti da
distorsioni emotive, culturali o legate ad una determinata appartenenza politica.
Madison è fra i primi a sottolineare il problema del disaccordo e della lotta fra fazioni e per questo
giudica imprescindibile la creazione di istituzioni in grado di filtrare tale disaccordo e di apprestare la
cornice migliore per una deliberazione ottimale63; lo stesso Immanuel Kant nel saggio “Risposta alla
domanda: che cos’è l’Illuminismo” anticipa in qualche modo le teorie deliberative mediante il suo ricorso al principio dell’ uso pubblico della ragione quale strumento principale per diffondere
l’Illuminismo fra gli uomini.
62
vedi B. Gbikpi, 2005, Dalla teoria partecipativa a quella deliberativa: quali possibili continuità?, in “Stato e Mercato”, n. 73, pp. 97-130.
63 G. Pellegrino, 2004, Le radici storiche e teoriche della Democrazia Deliberativa, in G. Bosetti e S.
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J.S. Mill sembra sostanzialmente in accordo con A. de Touqueville circa l’importanza del
coinvolgimento politico e la necessità di creare sedi appropriate destinate al confronto fra i cittadini
per permettere lo sviluppo di uno spirito pubblico in grado di garantire un buon sistema democratico64.
Abbiamo inoltre ricordato come gli autori partecipazionisti, soprattutto Barber, introducano a loro
volta meccanismi deliberativi all’interno dei loro modelli di democrazia.
Lo scopo dei teorici della partecipazione è stato però essenzialmente quello di rivalutare l’attivismo e
l’inclusione politica all’interno dei sistemi democratici liberali per correggerne i tratti che avevano
condotto, a loro parere, ad un allontanamento dei sistemi stessi dall’ideale normativo di questa forma
di governo.
Dimostrando come la partecipazione migliori non solo le caratteristiche dei singoli individui, ma
anche quelle del sistema stesso, i partecipazionisti hanno perciò affrontato il problema relativo alla
distribuzione del potere e quello dei rapporti fra sfera economica e sfera politica, criticando le teorie
élitiste mediante argomenti che ne mettevano in discussione gli assunti e ne dimostravano gli squilibri
sempre più evidenti causati dalle conseguenze dell’applicazione di tale paradigma.
I teorici della deliberazione condividono la posizione critica dei sostenitori dei modelli partecipativi,
ma si concentrano su una specifica modalità attraverso la quale i miglioramenti auspicati diventano
possibili: quella del dibattito e della discussione pubblica65.
Nella ricerca della forma ottimale di partecipazione (estensione delle aree in cui introdurre un maggior
grado di inclusione nei processi decisionali, uso dello strumento referendario, potenziamento della
presenza dei movimenti e delle associazioni nelle arene politiche, etc.) si perviene infatti al modello
deliberativo quale modalità dotata delle qualità più idonee al perseguimento degli obiettivi
fondamentali delineati dalla teoria partecipativa: uguaglianza sostanziale nell’accesso ai meccanismi
partecipativi e alla produzione delle decisioni pubbliche, sviluppo cognitivo dell’individuo,
accrescimento del senso di appartenenza, sviluppo di uno spirito civico, ricerca del consenso,
creazione di una cittadinanza attiva, incremento dell’efficacia e dell’efficienza delle decisioni e, non
64
J. Fishkin, 2004, Il sondaggio deliberativo: perché e come funziona, in G. Bosetti e S. Maffettone, op. cit. , p. 66.
65D. Vitale, 2006, Between Deliberative and Participatory Democracy, in “Philosophy & Social Criticism”,
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ultimo, aumento della fiducia e della legittimità fra rappresentanti e rappresentati in caso di sussistenza
di meccanismi di delega.
Ispirati dal concetto greco di isegoria, inteso come quel diritto universale di uomini liberi ed eguali di
parlare nell’Assemblea66, i teorici della democrazia deliberativa formulano modelli nei quali il ricorso
al dibattito e alla discussione pubblica costituiscono l’essenza procedurale di questi sistemi politici.
Così come per i sostenitori del paradigma partecipativo, anche i teorici della democrazia deliberativa
presuppongono una visione non atomistica dell’essere umano e una concezione non individualistica
della società.
L’uomo in questa prospettiva diventa un animale sociale, le cui caratteristiche essenziali sono le sue
capacità di agire e comunicare, e la possibilità di trasformare l’ambiente che lo circonda attraverso tali
qualità; la società deve essere interpretata partendo dunque da una prospettiva intersoggettiva,
immaginandola quindi come lo spazio in comune che esiste fra gli individui, così come la politica
deve essere intesa come attività che nasce fra gli uomini e che si afferma come relazione67.
Il dibattito e la discussione, il discorso come azione intersoggettiva in grado di costruire un consenso
ragionato e non mediato, o peggio manipolato, la possibilità di giungere dunque a decisioni che
scaturiscono dal confronto fra le diverse argomentazioni e preferenze dei partecipanti fino ad arrivare
ad una soluzione condivisa dagli stessi, si contrappongono alle strategie decisionali tipiche del
paradigma élitista e pluralista: la contrattazione e la negoziazione.
Se il ricorso al linguaggio quale principale strumento espressivo dell’uomo, e al discorso quale metodo
di interazione per eccellenza, accomunano tutti i sostenitori del paradigma deliberativo, questa
compattezza sembra però sfaldarsi non appena, procedendo più in profondità, rivolgiamo l’attenzione
a cosa effettivamente si intenda per deliberazione, a quali specifici processi siano alla base dell’atto
discorsivo, in quali contesti esso debba avvenire, e quale giustificazione debba essere riconosciuta al
modello democratico ad essa ispirato68.
66
M. Finley,2005, La democrazia degli antichi e dei moderni, Bari-Roma, Laterza, p.19.
67
vedi H. Arendt, 2006, Che cos’è la politica, Einaudi, Torino; H. Arendt, 2006, Vita activa, Milano, Bompiani; J. Habermas, 1997, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino.
68
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Il primo punto richiede una definizione terminologica che, come vedremo, dà vita ad un dualismo
relativo alle stesse azioni che trovano una tale aggettivazione: da un lato infatti per deliberazione
possiamo intendere l’atto di prendere una decisione dopo averne esaminati gli argomenti favorevoli e
quelli contrari; dall’altro invece questo termine riassume “il processo attraverso il quale si esamina
una questione, una proposta, un progetto e se ne ponderano con attenzione i vantaggi e gli svantaggi
prima di prendere una decisione favorevole o contraria che sia”69.
Questo genera un duplice utilizzo, in termini pratici, poiché da un lato l’etichetta “deliberativo” viene
utilizzata per contesti il cui scopo è unicamente quello di produrre opinioni, tendenze o pareri
ragionati in merito a determinate questioni, isolando la fase discorsiva da quella decisionale che verrà
invece presa successivamente in altre sedi e da altri attori; in altri ambiti invece il processo
deliberativo si rivolge ad azioni che assumono carattere vincolante e decisionale.
Esaminando poi gli effetti prodotti dal processo deliberativo su coloro che vi partecipano, possiamo
distinguere fra una deliberazione dialogica e una deliberazione strategica, concezioni queste che
troviamo alla base di due diversi modelli di democrazia deliberativa: un modello forte e uno debole.
Nel primo caso la deliberazione produce un mutamento negli orientamenti personali dei partecipanti
che permette il perseguimento del bene pubblico, della giustizia e dell’equità, valori che trovano in
questo modo una condivisione genuina: per Habermas e Rawls, ad esempio, le procedure deliberative
permettono di raggiungere un’identità nelle ragioni di fondo che conducono ad una scelta, mentre per
quegli esponenti che adottano posizioni meno radicali, come Dryzek e Sunstein, è possibile al
massimo raggiungere un consenso motivato relativo alla preferibilità di una scelta70.
Nel caso di una deliberazione strategica, e di un modello deliberativo debole, si ritiene invece che
siano da considerare tali anche quelle procedure discorsive nel corso delle quali chi partecipa adotta
69G. Bosetti, S. Maffettone, 2004, Democrazia Deliberativa: cos’è, Roma, Luiss University Press, p. 7. 70
Habermas, nella sua analisi dell’agire comunicativo definisce quest’ultimo come “l’interazione di almeno due
soggetti capaci di linguaggio e azione che stabiliscono una relazione interpersonale. Gli attori cercano un’intesa tramite la situazione di azione per coordinare di comune accordo i propri piani di azione e quindi il proprio agire” cit. in: J. Habermas, 1997, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino, p. 138 e p. 157.
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meccanismi retorici, o fa appello a ragioni che chiamano in causa il concetto di pubblico interesse per
perseguire unicamente finalità che sono e rimangono egoistiche71.
Nonostante il duplice significato del concetto di deliberazione appena riportato, crediamo tuttavia che
l’obiettivo principale ricercato dalle teorie deliberative, ovvero la ricerca di un punto di incontro fra
interessi, preferenze e posizioni divergenti non venga invalidato in ragione della sola possibilità di
interazioni strategiche.
Anche nel caso di un simile utilizzo della deliberazione, e quindi in presenza di quella che viene
comunemente definita “forza civilizzatrice dell’ipocrisia”72, coloro che adottano simili strategie sono costretti infatti a rivestire le loro ragioni con un richiamo al “pubblico interesse” e a confrontare tale
genere di argomentazioni con altre provenienti da coloro con cui condividono lo spazio deliberativo;
prescindendo dunque dallo scopo egoistico celato da chi propone argomentazioni solo formalmente
tendenti a vantaggi collettivi, gli argomenti provenienti da tali soggetti potrebbero essere accettati solo
se giudicati dal resto dell’uditorio sostanzialmente appropriati rispetto al fine formale di chi li
propone.
Proseguendo in questa analisi della pluralità di posizioni che caratterizzano le teorie deliberative si
può costatare come un ulteriore motivo di dibattito è rappresentato da quella che potremmo definire la
cornice in cui l’agire deliberativo ha luogo.
Pellizzoni distingue a questo proposito fra un approccio istituzionale forte e uno debole73.
Nel primo caso la cornice è stata creata ad hoc per il processo deliberativo, a prescindere dal livello di
formalizzazione dello strumento con il quale tale processo viene espletato: sono questi i casi
rappresentati dalle c.d. arene deliberative.
Nel secondo invece si possono contemplare tre correnti di pensiero: autori come Ackermann, Rawls,
Elster e Pasquino riconoscono come deliberativi unicamente quei contesti istituzionali nei quali è la
stessa natura dell’argomento in discussione a non permettere il ricorso ad un uso strategico
dell’argomentazione, quali ad esempio i momenti legislativi rappresentati dalle Assemblee Costituenti
71
vedi J. Elster, 1995, “Strategic Uses of Argument”, in K. Arrow et al., a cura di, Barriers to Conflict
Resolution, NY, Norton, pp. 237- 57-
72
vedi J. Elster, a cura di, 1998, Deliberative Democracy, Cambridge, Cambridge University Press.
73
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o le sedute delle Corti Costituzionali74: in queste arene tutti gli attori sono spinti infatti ad adottare
regole che massimizzano l’equità, poiché ignari circa la propria futura posizione75.
Altri adottano invece posizioni più flessibili, riconoscendo la possibilità di azioni deliberative anche in
contesti meno formali e comunque meno strutturati, quali ad esempio i processi e gli strumenti di
governance, le associazioni, i partiti politici e i movimenti sociali76.
Alcuni teorici infine, scorgendo in tutti i suddetti ambiti la presenza di costrizioni determinate da
assunzioni di valore e da rapporti di potere che minano la possibilità di una deliberazione in senso
forte, demandano per questa ragione ad uno spazio più ampio, rappresentato dalla sfera pubblica77, il ruolo di unico luogo in grado di innescare pratiche deliberative78.
Una terza questione ampiamente dibattuta riguarda la giustificazione legata alla natura della
democrazia deliberativa: a questo modello deve esser riconosciuto un valore normativo o uno
strumentale? Deve essere interpretato come un fine o come un mezzo?
Secondo Pellizzoni coloro che condividono il primo assunto vedono nella democrazia deliberativa la
possibilità di realizzare pienamente il principio di uguaglianza politica inteso in termini sostantivi,
cioè come concreto ed equo utilizzo di diritti e risorse riconosciuti formalmente ai membri di un
sistema democratico79; coloro che invece condividono una giustificazione sostanzialmente strumentale
del modello deliberativo dirigono la propria attenzione alle potenzialità ad esso riconosciute.
L’ipotesi della prospettiva strumentale sostiene infatti che il modello deliberativo è in grado di
produrre sostanziali miglioramenti sia rispetto ai singoli attori coinvolti che nel contesto decisionale in
cui viene introdotto: incrementa la legittimità delle decisioni e di conseguenza anche altri parametri
legati all’ambito decisionale quali l’efficienza, l’efficacia e la stabilità; rafforza il legame fra
74
vedi B. Ackermann, 1991, We the People: Foundations, Cambridge (Ma), Harvard University Press; J. Rawls, 1994, Liberalismo Politico, Milano, Comunità; P. Pasquino, 2006, Votare e deliberare, in “Filosofia Politica”, a. XX, n. 1, pp. 103 – 115.
75 Quanto detto corrisponde al concetto di “posizione originaria” elaborato da J. Rawls, 1971, A theory of Justice, Cambridge (MA), Harvard University Press.
76
vedi D. Della Porta, 2005, Democrazia in Movimento: partecipazione e deliberazione nel movimento”per la
globalizzazione dal basso”, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, a. XLVI, n. 2, pp. 307- 341.
77
intesa come “spazio sociale dove i cittadini, comunicando pubblicamente l’uno con l’altro, possono convincere o essere convinti, o maturare insieme nuove opinioni”, vedi W. Privitera, 2001, Sfera Pubblica e
Democratizzazione, Roma-Bari, Laterza, p. 11.
78
J. Dryzek, 1990, Discursive Democracy, Cambridge, Cambridge University Press.
79vedi A. Gutmann e D. Thompson, 2002, Deliberative Democracy Beyond Process, in “The Journal of
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rappresentanti politici e cittadini; offre la possibilità di giungere a decisioni in grado di tenere in
considerazione domande e problematiche più ampie rispetto a quelle iniziali; permette ai partecipanti
di accrescere le loro conoscenze e le loro competenze rispetto agli argomenti in discussione; è in grado
di stimolare il riconoscimento di preferenze, posizioni e punti di vista esogeni rispetto a quelli
individuali con cui si accede in tali arene, favorendo in questo modo l’integrazione e la coesione
sociale80.
In questa prospettiva l’attenzione si concentra dunque sui meccanismi che permettono al processo
deliberativo di produrre i suddetti effetti (dimensione procedurale), sulla valutazione dell’effettivo
raggiungimento di tali assunti (dimensione epistemica) e sull’efficacia e l’efficienza di questo
procedimento come strumento di problem solving, ovvero di strumento in grado di risolvere un
conflitto senza ricorrere a coercizione e con reciproca soddisfazione delle parti (dimensione
pragmatica).
E’ soprattutto la dimensione strumentale della democrazia deliberativa ad essere richiamata nella
nostra analisi.
Gli esperimenti deliberativi analizzati nella presente ricerca possono infatti essere considerati come
casi di Empowered Deliberative Democracy, ovvero come esempi di pratiche democratiche
deliberative che spostano il dibattito sulla deliberazione da questioni astratte, a questioni concrete
come ad esempio la pavimentazione di una strada, il miglioramento dell’offerta educativa o le
modalità con cui gestire le risorse ambientali81.
Questo genere di sperimentazioni costituisce a nostro avviso il più importante tentativo di recuperare
la qualità democratica attraverso l’applicazione di strumenti derivanti dalle teorie partecipative e
deliberative.
In questo senso concordiamo con quanto sostenuto da Fung e Wright, e cioè che questi esperimenti
cercano di trasformare i meccanismi del potere politico verso “permanently mobilized deliberative-
democratic grassroots forms”82.
80
L. Pellizzoni, op. cit., pp. 23- 24.
81
A. Fung, E. O. Wright, 2001, Deepening Democracy: Innovations in Empowered Participatory Governance, in “Politics & Society”, vol. 29, n. 1, p. 17.
82
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Tali esperimenti appaiono dunque ancor più radicali di quelle forme di attivismo basate sulla
contestazione e sulla difesa di posizioni che si oppongono ai poteri istituzionali, poiché tentano una
strada riformatrice che si snoda all’interno delle istituzioni tradizionali cercando di modificarne le
modalità di gestione del potere, così come i consueti meccanismi decisionali.
Più che animati dall’obiettivo di “rivoluzionare” le attuali forme democratiche, essi tentano piuttosto
di “democratizzare” tali sistemi, non rinnegando il principio di rappresentanza, ne tentando di
sovvertire il sistema economico, ma introducendo invece aggiustamenti strutturali derivanti da assunti
partecipativi e deliberativi, cercando di riaffermare il primato di una politica intesa come interazione
fra individui all’interno di un campo che sia il più possibile depurato dalle ineguaglianze che
sussistono a livello economico e sociale, e quello di una democrazia che mantenga ancora presupposti
valoriali improntati allo sviluppo generale dei suoi cittadini piuttosto che a quello parziale di alcuni
consumatori.
Nonostante queste pratiche partecipative fondate sulla deliberazione si concentrino soprattutto in
contesti locali83 e spesso vertano su singole issues, la loro importanza a livello di sistema politico
generalmente inteso non viene intaccata: partendo infatti dalle premesse dei teorici della
partecipazione, secondo i quali, come abbiamo avuto modo di affermare, è a livello locale che si
creano le basi per una cittadinanza attiva in grado di intervenire con maggiore consapevolezza e
interesse anche nelle questioni politiche relative ad ambiti spaziali più ampi, si capisce anzi come
l’introduzione e la diffusione di tali strumenti potrebbe avviare un processo di democratizzazione
anche ai livelli istituzionali centrali.
Prima di affrontare un’analisi dei più importanti strumenti deliberativi, ritenuta propedeutica per
comprendere i motivi che ci hanno spinto ad esaminarne uno in particolare, ci sembra opportuno a
questo punto ricostruire il nesso che ricollega quanto appena detto a proposito di partecipazione e
deliberazione con l’ipotesi di fondo, relativa alla crisi dei moderni regimi democratici e alla necessità
di attuarne una democratizzazione in termini qualitativi sostenuta nel precedente capitolo.
83M. Cammelli, 2005, Considerazioni Minime in Tema di Arene Deliberative, in “Stato e Mercato”, n. 73; L.
- 95 - Quadro Sinottico
I modelli deliberativi
Variabile Tipologia
Tipo di
Deliberazione Dialogica Strategica
Luogo della deliberazione
Istituzionalizzazione Forte Istituzionalizzazione Debole
Effetti della deliberazione
- 96 - 2.6 Dalla teoria alla pratica: le arene deliberative
La nostra ricerca vuole mettere alla prova la validità delle ipotesi contenute nelle teorie partecipative e
deliberative della democrazia. A questo scopo abbiamo cercato di impostare una loro verifica
attraverso l’analisi di uno strumento le cui caratteristiche sembrano racchiudere, almeno
concettualmente, la maggior parte degli assunti presenti in queste due teorie, sia rispetto alle
caratteristiche prescrittive che agli effetti legati ad una loro implementazione.
E’ necessario dunque un breve richiamo ai principali strumenti partecipativi e deliberativi, e alle loro
caratteristiche, finalizzata ad avvalorare le motivazioni che ci hanno spinto ad analizzarne uno in
particolare: il Bilancio Partecipativo.
Spostando l’oggetto della nostra attenzione dal campo teorico a quello empirico, la prima caratteristica
a balzare agli occhi è costituita dall’impressionante numero di procedure, strumenti, tecniche e metodi
ricondotti al campo partecipativo e a quello deliberativo.
La numerosità degli “oggetti” fatti rientrare in questi due campi richiede perciò una qualche forma di
classificazione, che tenteremo di effettuare pur essendo consapevoli che non potrà essere del tutto
esaustiva.
Prima ancora di addentrarci in questa analisi, condotta seguendo un principio di differenziazione, ci
sembra opportuno però cercare di fornire qualche esempio atto ad individuare le principali esperienze
che rientrano nel campo delle arene deliberative e a descriverne gli aspetti e le caratteristiche comuni
avvalendoci di una ricostruzione effettuata da Luigi Bobbio84.
I principali esperimenti deliberativi individuati da Bobbio sono i seguenti:
• le giurie di cittadini (Citizens’ Juries) proposte da Ned Crosby e sperimentate in Usa, Gran
Bretagna, Australia e Spagna (Coote e Lenhaglan 1997, Smith e Wales 2000, Font e Blanco
2001);
• le cellule di pianificazione (Plannunzelle) proposte e attuate in Germania da Peter Dienel
84
- 97 - (Garbe 1986, Dienel e Renn 1995);
• le consensus conferences danesi e le molte esperienze dello stesso genere che sono state
riprodotte altrove, come la conference des citoyens tenuta in Francia nel 1998 (Joss e Durant
1996, Boy et al. 2000, Callon, Lascoumes e Barthe 2001, Pellizzoni 2002);
• i sondaggi deliberativi (Deliberative Opinion Polls) proposti e sperimentati da James Fishkin
(1991);
• molte esperienze di partecipazione dei cittadini ai processi di riqualificazione urbana o di
pianificazione urbanistica, in genere su piccola scala, (Healey 1993, Forester 1999, Sclavi
2002);
• i processi per l’elaborazione dell’Agenda 21 sul piano locale (Lafferty e Eckerberg 1998, Font
e Subirats 2000);
• le numerose esperienze di risoluzione negoziale dei conflitti ambientali (Susskind e
Cruikshank 1987, Susskind et al. 1999);
• i processi consensuali per la localizzazione di impianti indesiderabili (Rabe 1994, Rey 1994,