• Non ci sono risultati.

STORIOGRAFIA E PROSPETTIVE INTERPRETATIVE DELLA

REPUBBLICANA E LIBERALE DELLA STORIA AMERICANA

1.3.2 Il binomio insufficiente

Nello stesso periodo durante il quale la «sintesi repubblicana» andava consolidandosi, producendo una mole considerevole di scritti e monografie e ad un revival neo Jeffersoniano,10 si stavano costruendo le basi per il suo superamento.

Quella che un tempo era un’ipotesi era diventata l’orizzonte all’interno del quale si muoveva la storiografia americana11, ma era una scuola interpretativa che, pur

partendo da basi comuni nella lettura della Rivoluzione, era divisa nel giudizio della fase successiva ed in particolare della Costituzione. Non è un caso che gli anni durante i quali si consuma questa divisione fossero anni di celebri ricorrenze: tra il 1976 e il 1988 si celebravano i 200 anni dalla Rivoluzione e dalla ratifica della Costituzione, e fu certamente il secondo evento a provocare maggiore fermento tra

9 Si veda ibid., p. 510.

10 Oltre ai testi già citati, contribuirono alla definizione della lettura repubblicana tra gli altri B. Bailyn, Pamphlets of the American Revolution, 1750-1765, Belknap Press, 1965; Pocock, MACHIAVELLI,

HARRINGTON, AND ENGLISH POLITICAL IDEOLOGIES IN THE EIGHTEENT CENTURY, WMQ 22, Oct. 1965, pp. 549-583; id., “Civic Humanism and Its Role in Anglo-American Thought”, in Politics, Language, and Time: Essays on Political Thought and History, New York, Atheneum Press, 1971; id., VIRTUE AND

COMMERCE IN THE EIGHTEENTH CENTURY, Journal of Interdisciplinary History 3, Summer 1972, pp.

119-134; id., THE MACHIAVELLIAN MOMENT REVISITED: A STUDY IN HISTORY AND IDEOLOGY, Journal of Modern History 53, March 1981, pp. 49-72. In questo periodo Pocock ha direttamente attaccato le letture lockiane, spingendosi a sostenre l’irrilevanza di fatto di Locke per i Padri Fondatori, si veda “The Myth of John Locke and the Obsession with Liberalism”, in J. G. A. Pocock e R. Ascraft, ed., John Locke, Los Angeles, William Andrews Clark Memorial Library, 1980, pp. 1-24. La genesi della lettura repubblicana comprende C. Robbins, The eighteenth-century commonwealthman : studies in the transmission, development and circumstance of English liberal thought from the restoration of Charles II until the war with the thirteen colonies, New York: Atheneum, 1968, c1959, che ha meglio isolato e descritto la tradizione «country» inglese. Per la lettura Jeffersoniana si veda soprattutto L. Banning, The Jeffersonian Persuasion: Evolution of a Party Ideology, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1978. 11 R. E. Shallope, R

EPUBLICANISM AND EARLY AMERICAN HISTORIOGRAPHY, WMQ 39, Apr. 1982, pp.

gli storici. La Dichiarazione d’Indipendenza, dopotutto, non era che un documento storico. Parole immortali ed oggetto di uno studio intenso, senza dubbio, ma una volta superato lo ‘scoglio’ dei movimenti degli anni ’60 e ’70 risultò più conveniente non mettere troppo al centro dell’attenzione un documento che proclamava principi, senza egualmente definire le obbligazioni politiche atte ad equilibrarne la forza destabilizzatrice e senza costruire un sistema di governo.12

Sulla Costituzione, invece, era possibile un dibattito più aperto. In questo caso il dissenso sull’«original intent» o sul corretto significato degli emendamenti si svolgeva intorno alle sentenze della Corte Suprema e comunque all’interno del regime Costituzionale: non si metteva in discussione direttamente l’ordine costituito, ma l’interpretazione della sua genesi. Per certi versi, come si avrà modo

12 Durante gli anni ’60 il testo della Dichiarazione era diventato di nuovo un punto di riferimento per movimenti radicali: appropriandosi della dimensione rivoluzionaria della storia americana essi misero in atto una sfida diretta a quella che gli storici chiamavano «american mind». Ricordando con questo l’origine della nazione e sovvertendo di fatto le interpretazioni consensuali, questi movimenti resero la Dichiarazione stessa un documento scomodo ed immediatamente politico, sulla base del quale delegittimare l’ordine costituito: il Black Panther Party, portando a compimento una sorta di nemesi storica, concludeva il “Piano in dieci punti” citando per intero l’incipit della Dichiarazione, attualizzando dal punto dei vista degli afroamericani il diritto/dovere alla resistenza proclamato dai rivoluzionari. La stessa organizzazione militare delle componenti armate dei Black Panther era giustificata in base al principio dell’«autodifesa» (il nome originario dell’organizzazione era infatti “Black Panther Party for Self-Defense”) enunciato nella Dichiarazione con le parole «quando una lunga serie di abusi e di arbitrii [..] mostra un disegno volta a ridurla [l’umanità] in uno stato di assoluto dispotismo è suo diritto , è suo dovere liberarsi di un simile governo e garantirsi in altro modo protezione per il futuro». Sulla scia di questa rilettura della memoria storica degli Stati Uniti e con l’obiettivo di riattualizzarne la dimensione rivoluzionaria, il Black Panther Party convocò a Philadelphia, il 5 settembre 1970, la “Revolutionary People Constitutional Convention” (RPCC), che denunciando l’«irrilevanza» della Costituzione e del Bill of Rights per i neri americani riproduceva la Convention Costituzionale del 1787. In questo modo, per rimanere al nostro oggetto, veniva rivendicata la legittimità storica della prospettiva rivoluzionaria e, di fatto, una pratica politica veniva contrapposta alla fossilizzazione dell’evento rivoluzionario come puro momento storico. Questo tipo di lettura contrasta con la determinazione del significato della Dichiarazione in riferimento ai Padri Fondatori o alla storia dei concetti intorno alla quale essa venne elaborata da Jefferson, per farne invece un documento libero e ‘disponibile’ ad una lettura radicale. Come nel caso dei rivoluzionari di fine ‘700, le parole di fuoco della Dichiarazione stabilivano la costituzionalità dell’azione extracostituzionale, che veniva compiuta per scrivere una nuova Costituzione «che garantisca [..] ad ogni cittadino americano i diritti inviolabili alla vita, libertà e perseguimento della libertà». In altri termini: sebbene dal punto di vista della storia del pensiero politico la portata del discorso rivoluzionario fosse limitata, basti pensare all’ipoteca dell’individualismo possessivo, il Black Panther Party dimostrava come l’affermazione di certi principi e il linguaggio della filosofia politica potessero diventare strumenti e testi del conflitto sociale indipendentemente dal loro significato storico e anche contro di esso. La reazione governativa fu priva di scrupoli, trasformando in verità la denuncia fatta dal Black Panther Party venne sospesa ogni garanzia costituzionale e giuridica per i suoi membri, perseguiti ed assassinati all’interno del piano noto come COINTELPRO (acronimo per “Counterintelligence Program”). Per il “piano in dieci Punti” e la convocazione della RPCC si veda Philip S. Foner, ed., The Black Panther Speak (1970), Da Capo Press, 2002, alle pp. 2-4, 267-271 e 134-135; si veda anche Charles E. Jones, “Reconsidering Panther History: The Untold Story” introduzione a Charles E. Jones, ed., The Black Panther Party Reconsidered, Baltimore, Md, Black Classic Press, 1998. T. Bonazzi, a cura di, La Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Venezia, Marsilio, 1999, alle pp. 71 e 79; C. B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke (1962), trad. it. Milano, ISEDI, 1973. Numerosi documenti ufficiali sul piano COINTELPRO sono raccolti in Churchill, Ward and Jim Vander Wall, The COINTELPRO Papers: Documents From the FBI's Secret Wars Against Dissent in the United States, South End Press, 1990.

di vedere, questo tipo di dibattito può essere visto come una riedizione, duecento anni dopo, dei dibattiti intorno alla ratifica della Costituzione: come allora, in ballo c’era anche la definizione del Federalismo americano13, ma questa volta, e non era

una differenza di poco conto, la Costituzione intorno alla quale si discuteva non era «proposta», ma poteva vantare la più lunga durata tra le Costituzioni scritte. Oltre a ciò, se per gli storici il 1976 era passato tutto sommato indenne, nel 1987 la discussione era affollata di nuovi protagonisti che provocarono una reazione ‘ad elastico’, tra una sorta di autodifesa della disciplina e la necessità di un ripensamento che includesse i contributi di approcci differenti.14

È proprio intorno al giudizio sulla Costituzione che si possono trovare le differenze interne alla «sintesi repubblicana». Le tesi esposte da Gordon Woods in

The Creation of the American republic, infatti, sostengono una visione «dualistica»

del momento rivoluzionario: secondo Wood il repubblicanesimo esprimeva in uno schema tradizionale il malcontento nei confronti del sistema politico coloniale, coalizzando intorno all’ideale di «public good» le spinte modernizzatrici che sfociarono nella conquista dell’indipendenza. Questa visione però, una volta conclusa la guerra, finì con lo sgretolarsi di fronte alle spinte particolari negli anni ’80 e fu soppiantata dalla nuova scienza politica federalista, che si non si proponeva più un modello di cittadinanza virtuosa, ma a partire dal pluralismo degli interessi cercava nel governo la possibilità di gestire e contenere i conflitti. La Costituzione sarebbe dunque il prodotto di questa nuova fase, segnando una frattura interna al movimento rivoluzionario e il passaggio dallo schema repubblicano di impostazione classica ad un impianto moderno che andava verso il liberalismo.15 Al contrario Pocock sosteneva una visione di un repubblicanesimo

«geologico e stratificato», identificato nella tradizione della country ideology inglese. Mentre per Wood il linguaggio repubblicano elaborato dagli americani era frutto delle esperienze delle società coloniali prima e degli Stati indipendenti poi,

13 Come abbiamo avuto modo di vedere nel caso del dibattito giuridico sull’«original intent», la discussione coinvolgeva il ruolo e i rapporti tra governo Federale e Stati.

14 Si veda P. S. Onuf, HISTORIANS AND BICENTENNIAL, OAH Newsletter, XVI, May 1988, p. 20. 15 Nella prima fase l’indipendenza assunse così un carattere «morale» e rigenerante, nel quale il modello era quello della «Christian Sparta» evocata da Samuel Adams. Il governo repubblicano serviva in quest’ottica sia per rompere con il dominio Britannico, sia per purificare la stessa realtà americana, corrotta al suo interno, al fine di ristabilire quegli ideali di virtù ed uguaglianza che si sentivano minacciati. La «moderazione» virtuosa della Rivoluzione doveva perciò esprimersi nella costituzione dei governi statali, come invitava a fare il Congresso Continentale nella risoluzione del 10 maggio 1776, un atto che assieme alla risoluzione del 15 maggio, che specificava la precedente richiedendo la soppressione dell’autorità della Corona e lo stabilimento di governi «sotto l’autorità del popolo», era considerato sia da Adams che da Jefferson come la vera incarnazione degli scopi della Rivoluzione. Nel 1787 questa «visione romantica» della politica aveva invece ceduto il passo ad una nuova visione: gli americani, sostiene Wood, che avevano iniziato la Rivoluzione pensando che il popolo fosse un’entità omogenea che lottava contro dei governanti corrotti, si trovavano ora a fare i conti con un sistema di governo il cui obiettivo dichiarato era di impedire che i diversi interessi che si trovavano nella società potessero «incorporarsi» nel governo. Cfr. Wood, The Creation of the American Republic, cit., pp. 118-119, 123, 131-132, 606.

per Pocock esso era in diretta discendenza con una tradizione di pensiero che aveva la sua origine nelle città stato rinascimentali.

L’ideale di purificazione e virtù su cui pone l’accento Wood si scontra perciò con lo spettro della degenerazione che porta ad una visione negativa: la virtù che in Wood si condensa nel perseguimento del «public good» si traduce invece in Pocock in un modello di cittadinanza attiva che deriva direttamente dall’umanesimo civico Harringtoniano. Ma in questo quadro la purificazione non arrivava mai, inseguita costantemente dalla corruzione e dall’impossibilità di raggiungere un equilibrio duraturo.16 Queste diverse interpretazioni si riversano

nel significato attribuito alla Costituzione e al dibattito sulla Costituzione, che per Pocock non segna una netta discontinuità, ma anzi dimostra la persistenza dell’ideologia country come orizzonte all’interno del quale si formulavano i discorsi e le posizioni. Se Wood si concentrava sugli elementi di novità, relegando ai soli antifederalisti la posizione di difensori delle posizioni del passato, per Pocock è l’intero discorso politico americano a riproporre i temi dell’opposizione inglese, espressi con maggiore coerenza dagli antifederalisti, ma ben presenti anche nel «dualismo» dei Federalisti, sospesi tra l’abbandono della virtù e la sua costante riproposizione nelle vesti della selezione di un’aristocrazia naturale.17 La

tesi della continuità del repubblicanesimo ebbe la meglio nel determinare l’indirizzo complessivo della «sintesi repubblicana», sfociando nella lettura repubblicana della early Republic e proponendo la figura di Jefferson come artefice della riappropriazione della tradizione americana dopo la parentesi Federalista sotto il segno di Hamilton; in questa lettura e all’interno della «sintesi repubblicana» in genere, gli antifederalisti erano considerati i più autentici propositori della country ideology in America.18

16 Secondo Pocock negli Stati Uniti si manifestò una sorta di «machiavellismo apocalittico» attraverso il quale interesse e rappresentanza erano visti come aspetti della degenerazione. Un’equa rappresentanza era sì uno degli obiettivi rivendicati dagli americani, ma così come l’interesse era un segnale del «declino della virtù», poiché non si basava sulla partecipazione, ma sulla delega. Questo costante sospetto era poi sorretto dalla costante convinzione della natura corrotta del potere e dunque dei rappresentanti stessi. Cfr. Pocock, Il Momento machiavelliano, vol. II, cit., pp. 862-863, 873-875, 875, 877.

17 Ibid., p. 855 e ss. Pocock, compiendo a mio parere un’operazione eccessivamente disinvolta di decontestualizzazione, cita come esempio della persistenza dell’ideale di virtù repubblicana l’ordine dei Cincinnati.

18 Ho ricavato da Daniel Rodgers la classificazione in repubblicanesimo «dualistico» e «geologico stratificato». Insieme ad altri, Rodgers distingue le due ‘correnti’ come «Harvard republicanism» e «St. Louis Republicanism». Cfr. Rodgers, REPUBLICANISM: THE CAREER OF A CONCEPT, JAH, vol. 79, no. 1, Jun. 1992, pp. 11-38. Alla seconda appartengono, oltre a Pocock, Banning, John Murrin e McCoy. Oltre ai tesi già citati, vanno considerati L. Banning, in REPUBLICAN IDEOLOGY AND THE

TRIUMPH OF THE CONSTITUTION, 1789 TO 1793, WMQ 31, Apr. 1974, pp. 168-1788; John Murrin, “The

Great Inversion, or Court versus Country: A Comparison of the Revolutionary Settlemets in England (1688-1721) and America (1776-1816)” in J. G. A. Pocock, ed., Three British Revolutions, 1641, 1688, 1776, Princetown, 1980, pp. 368-453; Drew McCoy, The Elusive republic: Political Economy in Jeffersonian America, Chapel Hill, Universty of North Carolina Press, 1980; James H. Hutson, COUNTRY, COURT, AND CONSTITUTION: ANTIFEDERALISM AND THE HISTORIANS, WMQ, 38, 1981, pp. 227-368; Richard Buel Jr., Securing the Revolution: Ideology in American Politics, 1789-1815, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1972; Richard R. Howe, REPUBLICAN THOUGHT AND THE POLITICAL

Mentre i sostenitori della «sintesi repubblicana» discutevano dei diversi gradi di repubblicanesimo e di quando fosse iniziata o finita l’influenza del repubblicanesimo nell’America del ‘700, si deve a due storici liberali l’inizio di una critica a questa impostazione. Il punto di partenza era in fondo abbastanza semplice ed elementare, e consisteva nel considerare l’onnipresenza del repubblicanesimo nei dibattiti della fondazione come un fattore di per sé poco significativo: quello che rimaneva da spiegare una volta stabilita la centralità del termine «repubblica», sosteneva Joyce Appleby, era di che cosa si stesse concretamente parlando. Il repubblicanesimo infatti si presentava come un termine-chiave, occupando il posto che nell’800 sarebbe stato preso dal termine «union» e nel ‘900 dal concetto di «nation»; la conclusione di questa osservazione era che, leggendo i pamphlet dell’epoca, «republican» fosse una sigla intorno alla quale si giocava una battaglia decisiva per determinarne il significato. Questa contesa, rappresentando effettivamente come osservatori dagli storici della «sintesi repubblicana» un orizzonte discorsivo difficilmente eludibile, fosse anche solo per l’impulso antimonarchico della Rivoluzione reso popolare nelle parole di Thomas Paine, passava attraverso la rivendicazione della propria «visione» come genuinamente repubblicana.19 Si aveva perciò a che fare con dei «paradigmi

repubblicani in competizione» e non con un semplice paradigma repubblicano.20

Oltre a questo, aggiungeva Appleby, occorreva definire di quale repubblicanesimo si stesse parlando, se «quello dei Padri Fondatori o il nostro»; con questa domanda Appleby suggeriva che la sedimentazione del significato del termine repubblicanesimo aveva subito nei due secoli trascorsi un mutamento tale da rendere la parola un contenitore privo di un contenuto specifico, ma con diverse e non sempre compatibili accezioni.21

Isaak Kramnick, in una simile visione, aveva dimostrato il semplice fatto che il «linguaggio» repubblicano dell’umanesimo civico fosse diventato, come sostenuto da Pocock, Murrin e Banning, l’«organizing paradigm» del discorso politico americano non significava necessariamente che il dibattito politico intorno alla ratifica della Costituzione e nella prima Repubblica dovesse essere inteso nei termini di una riedizione in un diverso contesto del dibattito inglese tra court party e country party. Kramnick sosteneva ad esempio in modo convincente che il tema

VIOLENCE OF THE 1790S, American Quarterly 19, Summer 1967, 147-165; e Stanley Elkins e eric McKintrick, The age of Federalism: The Early American Republic, 1788-1800, New York, Oxford University Press, 1993. La tesi di una derivazione degli argomenti antifederalisti dalla country ideology inglese è sostenuta anche da Bailyn nel fullfilment della riedizione del suo The Ideological origins of the American revolution del 1992.

19 Cfr. J. Appleby, REPUBLICANISM IN OLD AND NEW CONTEXT, WMQ, 3rd. Ser., vol. 43, no. 1, Jan 1986, pp. 20-34, p. 21.

20 Ibid, p. 23.

21 Ibid., p. 22. Sulle diverse «discontinuità concettuali» del repubblicanesimo, con particolare riferimento al contesto di cui ci stiamo occupando, si veda Marco Geuna, LA TRADIZIONE REPUBBLICANA E I SUOI INTERPRETI: FAMIGLIE TEORICHE E DISCONTINUITÀ CONCETTUALI, Filosofia

della «corruzione» andasse interpretato non nei termini di una visione antimoderna e nostalgica, ma come discorso contro il «privilegio»; allo stesso tempo, Kramnick allargava la sua visione alla realtà inglese, spiegando come anche in Inghilterra nella seconda metà del ‘700 il discorso repubblicano fosse mutato e diverso.22

Kramnick ed Appleby sono esponenti della corrente storiografia nota come «neo-Lockiana», che si proponeva di ristabilire il ruolo di Locke nel pensiero politico americano, spazzato via dalla «sintesi repubblicana». Come abbiamo visto, però, il loro approccio non è esclusivo e adotta invece un’ottica più complessa nell’analisi del discorso politico, nella quale i paradigmi si incrociano all’interno dello stesso discorso politico e dove si possono individuare tre assi principali: il primo, punta ad individuare le tracce del discorso lockiano; il secondo si interroga su come l’interpolazione tra discorso repubblicano e queste tracce di discorso lockiano agisce nella situazione specifica dei dibattiti del ‘700; mentre il terzo cerca di separare la dimensione ideologico-discorsiva dalle più ampie dinamiche di trasformazione sociale tra sette e ottocento. Questa rilettura evidentemente risentiva dell’impatto della «sintesi repubblicana» e proponeva un’interpretazione di Locke ben lontana dalla visione neo-whig degli storici del consenso. Oltre a costringere gli esponenti della visione repubblicana a rispondere, Appleby e soprattutto Kramnick presentavano un’immagine di Locke a sua volta ambivalente e portatrice di potenzialità radicali e rivoluzionarie che superavano, attraverso la proposizione di un «radicalismo borghese» che fondeva il discorso repubblicano con le tendenze livellatrici presenti nel discorso lockiano e all’individualismo possessivo, una lettura puramente «costituzionale» dell’utilizzo di Locke nel periodo rivoluzionario.23

Questo attacco alla «sintesi repubblicana» non poteva essere dismesso facilmente, e presupponeva invece una risposta all’altezza della sfida, che arrivò in diversi modi da parte di alcuni esponenti di quella scuola. È stato soprattutto un articolo di Lance Banning a rimescolare le carte. La tesi della «sintesi repubblicana» presentata da Shallope nel 1972, che ne registrò critiche e problemi dieci anni dopo, diventava ora per Banning una «ipotesi repubblicana» sulla scia di Bailyn e Wood che doveva competere, quasi ad armi pari, con un’«ipotesi liberale» sostenuta invece da Appleby, Kramnick e John Patrick Diggins. Nella sua reazione Banning adottava una strategia difensiva che rovesciava su Appleby e Kramnick lo stesso riduzionismo che essi imputavano ai teorici della «sintesi repubblicana». In sostanza, sosteneva Banning, erano i neo-Lockiani ad offrire un’immagine ristretta della scuola repubblicana, schiacciandone le tesi intorno ad

22 I. Kramnick, R

EPUBLICAN REVISIONISM REVISITED, AHR, vol. 87, no. 3, Jun. 1982, pp. 629-664, pp.

660, 631. Si veda anche id., Bolingbroke and His Circe: The Politica of Nostalgia in the Age of Walpole, Cambridge, Mass., 1968.

23 Kramnick, Republicanism adn Bourgeois Radicalism: Political Ideology in Late Eighteeenth Century England and America, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1990.

una contrapposizione tra l’ideale del piccolo farmer autosufficiente e il nuovo capitalismo che stava avanzando: in realtà, rivendica Banning, gli stessi studi suoi, di Murrin, McCoy e Pocock introducevano già gli elementi di compenetrazione tra l’ideale repubblicano dell’autosufficienza con una visione moderna della società commerciale, specificando che il problema della corruzione non era lo scambio, ma un nuovo nesso tra governo, commercio, controllo del credito ed esercito permanente.24

Banning rivendicava il contributo del «revisionismo» repubblicano, che aveva