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Il canone nazionalista della nuova storia: David Ramsay e la prima Storia della Rivoluzione Americana

CANONI STORICI CONTEMPORANEI:

NAZIONALISMO, CONTRO-NARRATIVA E REPUBBLICANESIMO

1.1.2 Il canone nazionalista della nuova storia: David Ramsay e la prima Storia della Rivoluzione Americana

The History of The American Revolution venne pubblicata nel 1789, nel pieno della

celebrazione nazionalista della Costituzione all’inizio della prima presidenza di George Washington, l’eroe militare della rivoluzione che ancora godeva di un larghissimo appoggio popolare e la cui condotta era per molti l’esempio supremo delle virtù repubblicane6. L’opera di Ramsay è particolarmente importante perchè

per legittimare la pretesa dell’indipendenza agli occhi degli altri Stati e per poter meglio condurre una guerra già in corso, approvata dal Congresso il 2 luglio e pubblicata il 4 luglio; cfr. C. Becker, The Declaration of Independence. A Study in the History of Political ideas, Newe Yorkl, Knopf, 1969, pp. 3 e 4; Bonazzi ne sottolinea il carattere di performance in T. Bonazzi, a cura di, La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, Venezia, Marsislio, 1999, p. 18. Il soggetto degli Articoli è simile, «We the undersigned Delegates of the States», ed ugualmente limitato alla specifica funzione di redarre il testo, dato che i delegati sanno di poter agire esclusivamente «by the virtue of the power and authority to us given for that puropose» e solo «in the name and behalf of our consituents». È solo con la Costituzione che la voce del testo è anche sovrana, come si deduce dall’apertura del documento, semplicemente «We, the people of the United States». Per i testi addottati dal Congresso: JCC vol. 5, pp. 507 (Risoluzione d’Indipendenza), 491 (proposta di Dichiarazione) e p. 510 (adozione della Dichiarazione).

5 Ramsay to Rush, Feb. 17, 1788 in Robert L Brunhouse, ed., David Ramsay, 1749-1815: Selections from his Writings, American Philosophical Society, Transactions, new series, 55, 1965, p. 119. Per gli interventi di Ramsay nella Convention della South Carolina: ED IV, p. 270, 286, 342 e ED V p. 33, 41, 54. Durante lo scontro sulla ratifica, Ramsay fu autore di un pamphlet firmato “Civis”, intitolato An Address to the Freemen of South Carolina on the federal Constitution, scritto per confutatare le tesi del leader antifederalista Rawlins Lowndes. Prima di pubblicare la storia della Rivoluzione Americana, Ramsay aveva pubblicato la History of the late revolution of South Carolina, premurandosi di mandarne copia dedicata a John Adams e George Washington, cfr. LDC 23, p. 74, 160. In alcune corrispondenze private durante il dibattito in South Carolina, si può vedere la differenza tra il volto pubblico e il volto privato dell’autore: egli infatti distingue tra la necessità di supportare senza riserve la Costituzione negli interventi pubblici, e le corrispondenze private, dove invece esprime anche dubbi sulla Costituzione, si vedano le lettere a Benjamin Rush pubblicate in Robert L. Brunhouse, DAVID RAMSAY AND THE RATIFICATION OF THE CONSTITUTION IN

SOUTH CAROLINA, 1787-1788, The Journal of Souther History, Vol. 9, No. 4, Nov. 1943, pp. 549-555.

6 Washington, dopo essere stato il comandante dell’esercito Continentale che ottenne l’indipendenza, decise di ritirarsi a vita privata, rinunciando a ricoprire incarichi politici, fino ad assumere la presidenza nel 1789, dopo numerose pressioni. Questo gesto gli valse una stima universale ed una fama di uomo disinteressato ai vantaggi personali ed esclusivamente devoto ai bisogni del suo popolo, facendo rivivere il mito di Cincinnatus, celebrato nelle Catos’ Letters come colui che dopo il servizio per la repubblica ritorna modestamente alla sua vita privata:

come prima storia della rivoluzione pubblicata negli Stati Uniti, e la sola per tutto il periodo dominato dai Federalisti, essa contribuì a cementare il canone nazionalista della storiografia americana. Rispondendo alle esigenze del periodo, Ramsay celebrò nel suo lavoro un’epica della nuova nazione, descrivendo in modo dettagliato le cause che portarono al distacco dall’Inghilterra, ma omettendo accuratamente di dar conto del lungo periodo del dibattito sulla costituzione. La cosa non sorprende, perché come già era avvenuto durante le discussioni del biennio precedente, la lettura nazionalista era incentrata sull’unità del movimento rivoluzionario del quale la Costituzione doveva essere presentata come esito logico e naturale. Ma come abbiamo già rilevato, la prima storia della rivoluzione aveva anche lo scopo pedagogico di offrire ai lettori un’interpretazione degli eventi, e quindi indirettamente della situazione politica a loro contemporanea, consona con le esigenze di stabilizzazione della nuova nazione e di implementazione della nuova Costituzione7. Leggere la storia di Ramsay offre

dunque nell’ottica di questo lavoro diversi motivi di interesse, gettando un ponte tra le fonti primarie dello scontro politico che ne è l’oggetto privilegiato e la storiografia sul periodo rivoluzionario che ne costituisce la prima parte.

Il testo di Ramsay è percorso da un duplice senso, a volte intrecciato, di fatalità e contingenza: con il procedere della narrazione cresce nel lettore la consapevolezza che i fatti raccontati non siano puro frutto del caso, ma in un qualche modo facciano parte di un progresso inevitabile, razionale e compiuto. Ma allo stesso tempo è l’esperienza che forgia questa consapevolezza, ed è l’esperienza che sola può spiegare perché delle colonie dell’impero Britannico

«Cincinnatus was taken from the plough to save and defend the Roman state; an office which he executed honestly and successfully, without the grimace and gains of a statesman. Nor did he afterwards continue obstinately at the head of affairs, to form a party, raise a fortune, and settle himself in power: As he came into it with universal consent, he resigned it with universal applause» (L38). Sulla nascita del mito di Washington-Cincinnatus si veda G. Wills, Cincinnatus: George Washington and the Enlightenment, Garden City, New York, 1984. Noi sappiamo però che questa è solo metà della storia che lega Washington al nome di Cincinnatus: egli fu infatti nel periodo della Confederazione un membro importante, e per un periodo il presidente, della “Society of the Cincinnaty”, una società su scala nazionale e su base ereditaria, costituita da ex comandanti dell’esercito Continentale con lo scopo di influenzare la politica Americana e mantenere la loro influenza in seno alla società. Cfr. Evans Davies, THE SOCIETY OF THE CINCINNATY IN NEW ENGLAND, 1783-1800, WMQ, 1948.

7 Certamente nella storia di Ramsay l’aspetto didattico prevale rispetto a quello della ricerca storiografica, della completezza delle fonti e della la pretesa di imparzialità. Come protagonista politico, la sua visione delle cause della Rivoluzione e del suo svolgimento, rispecchia però quella di altri storici che si formarono durante il periodo rivoluzionario, con i quali condivide le linee interpretative; tra questi, William Gordon, che pubblicò a Londra, nel 1788, la History of the Rise, Progress and Establishment of the Independenze of the United States of America, e Charles Stedman, che pubblicò, sempre a Londra, la History of the American War nel 1794. Ad attaccare seriamente la validità storiografica del lavoro di Ramsay e degli altri, fu Grant Libby alla fine dell’800 in due articoli: A CRITICAL EXAMINATION OF WILLIAM GORDON’S HISTORY OF THE AMERICAN REVOLUTION, American Historical Association, Annual Report, 1899, Washington 1900, I, pp. 367-388 e RAMSAY AS A PLAGIARIST, American Historical Review, VII, 1901-1902, pp. 697-703; cfr. Page Smith, DAVID

RAMSAY AND THE CAUSES OF THE AMERICAN REVOLUTION, WMQ, 3rd. Ser., vol. 17, no. 1, jan. 1960,

abbiano sviluppato il senso di indipendenza che le ha portate a costituirsi in governi autonomi.

Fino ad un certo punto, infatti, le misure britanniche sembravano non avere altro oggetto che «il bene comune dell’intero Impero». Le eccezioni a questa regola erano poche, e sebbene suscitassero di tanto in tanto una certa «democratic jealousy» tra i coloni, esse non avevano le sembianze di un «sistema» e perciò, nel calcolo complessivo dei vantaggi e delle perdite, erano ben accette, perché «il bene ricavato dalle colonie, dal loro legame con la Gran Bretagna, sovrastava infinitamente il male»8. Le restrizioni imposte al commercio delle colonie in quegli anni venivano regolarmente evase ed erano economicamente molto limitate, ma, osserva Ramsay, già queste cominciarono a diffondere tra i coloni un senso di frustrazione, che rimase silenzioso finché non furono adottate altre e più preoccupanti misure:

«These restrictions were a species of affront, by their implying, that the colonists had not sense enough to discover their own interest, and though they seemed calculated to crush their native talents, and to keep them in constant state of inferiority, without any hope of arriving at those advantages, to which, by the native riches of their country, they were propted to aspire, yet if no other grievances had been superadded [..] these would have been soon forgotten, for their pressure was neither great, nor universal»9.

Il problema cominciò a crescere quando i coloni, iniziando a sviluppare una maggiore consapevolezza, divennero più attenti alle misure che li interessavano: a questa crescita politica delle colonie, la Gran Bretagna rispose cambiando «l’antico sistema, sotto il quale le sue colonie avevano a lungo prosperato». I motivi di questo atteggiamento sono da ricercare per Ramsay nell’egoismo della natura umana e nel perseguimento del potere e della proprietà che accomunano le due coste dell’Atlantico, più che in ogni altra causa:

«the known selfishness of human nature is sufficient to account for that demand on the one side, and that refusal on the other, which occasioned the revolution. It was natural for Great-Britain, to wish fro an extension of her authority over the colonies, and equally so for them, on their approach to maturity, to be more impatient of subordination, and to resist every innovation, for increasing the degree of their dependence»;

8 David Ramsay, The History of the American Revolution, Indianapolis, Liberty Fund, 1990, 2 voll., vol. 1 pp. 41, 42.

«The love of power, and property, on the one side of the Atlantic, were opposed by the same powerful passions on the other»10.

È nel 1764 che la situazione iniziò a degenerare, dal momento che la Gran Bretagna non si limitava più a controllare il commercio delle colonie, ma il Parlamento avanzava

«the novel idea of raising money from the colonies [..] by direct internal

tax, laid by authority of her parliament»11.

Questa «nuova pretesa» trasformò la frustrazione in vero timore, i coloni erano infatti convinti sostenitori della superiorità della costituzione Britannica sulle altre forme di governo, ma questa non risiedeva per loro in un semplice nome, il parlamento, ma in un principio molto più importante, quello della partecipazione del popolo al governo:

«They conceived, that the superiority of the British constitution, to other forms of government was, not because their supreme council was called Parliament, but because, the people had a share in it, by appoiting members, who constituted one of its constituent branches, and without whose concurrence, no law, binding on them, could be enacted»12.

Coerentemente a questa interpretazione che i coloni davano del sistema di governo Britannico, la pretesa di tassare le colonie senza il loro consenso venne considerata contraria ai loro diritti «natural, chartered, and costitutional», e nell’opporvisi essi non si appellarono soltanto ai «general principles of liberty», ma anche all’«ancient usage». Mentre in Gran Bretagna si considerava fondamentale la sovranità del parlamento, nelle colonie si credeva che la tassazione e la rappresentanza fossero «inseparabili», e quindi che essi non sarebbero potuti essere «né liberi, né felici», se le loro proprietà potevano essere prese senza il loro consenso. Ancora una volta per Ramsay è la conoscenza della natura umana a guidare i coloni: essi sapevano che sia gli uomini che le comunità di uomini hanno la propensione ad imporsi sugli altri, e che chiunque fosse nella situazione di poterlo fare non avrebbe esitazione ad agire in tal senso per ricavarne dei vantaggi. Per questo, lasciare che la Gran Bretagna potesse ottenere ciò che voleva tassandoli senza il loro consenso significava aprire le porte ad altri ed imprevedibili arbitri, ormai la madrepatria non era più vista come una

10 Ibid., p. 43, 51. 11 Ibid., p. 46. 12 Ibid., p. 49.

«affectionate mother», ma aveva assunto le lugubre sembianze di un’«illiberal stepdame».

Le paure ed i timori che attraversavano le colonie avevano un’origine particolare, esse non erano solo il frutto dei principi di libertà e degli usi della tradizione inglese che li accomunavano alla madrepatria, ma dipendevano dalla loro condizione locale e dallo spirito d’indipendenza che vi circolava. Soli in una terra selvaggia, fin dai primi insediamenti i coloni avevano sviluppato un’intraprendenza necessaria per la sopravvivenza ed avevano maturato la consapevolezza che ciò che essi avevano fatto era frutto della loro fatica, spesso solitaria. Il legame con la Gran Bretagna era tuttavia utile, perché offriva loro uno sbocco per le merci che producevano e una certa protezione nei confronti delle potenze straniere, ma quando l’autorità inizia ad assumere un aspetto vessatorio è lo spirito d’indipendenza a prevalere. In diverse e lontane condizioni, si trattava dello stesso spirito che portò il parlamento inglese a reclamare la propria indipendenza rispetto alla corona, tanto che le colonie

«Viewed the exclusive right of laying taxes on themselves, free from extraneous influence, in the same light, as the British Parliament views its peculiar privilege of raising money, independent of the crown. The parent state appeared to the colonistys to stand in the same relation to their local legislatires, as the monarch of Great Britain, the British Parliament»13.

I coloni maturarono gradualmente questa consapevolezza, scrive Ramsay, quasi a suggerire che furono gli eventi e il loro rapido concatenarsi a risvegliare il senso della loro esistenza autonoma dalla Gran Bretagna e quindi capace di parlare anche con voce propria e di usare, in modo riflessivo, i principi intorno ai quali essi avevano costruito la loro coscienza politica, per giungere alla conclusione che il distacco dalla madrepatria fosse l’unica soluzione possibile. A questo esito essi non arrivarono senza convulsioni interne, perché per lungo tempo i coloni si erano considerati dei buoni sudditi di Sua Maestà e questo principio fu ribadito da Patrick Henry nel maggio 1765 in una risoluzione presentata al parlamento della Virginia. Ma nel ribadire la loro soggezione alla corona, Henry sosteneva anche il principio che da lì a breve avrebbe condotto alla guerra, affermando che il parlamento non avesse alcun diritto di tassare le colonie, e che chiunque volesse riconoscere tale diritto ad altri che non fosse l’Assemblea dello Stato doveva essere bandito come «nemico» della «colonia di Sua Maestà». I dibattiti suscitati dall’approvazione dello Stamp Act avevano già visto crescere, nell’anno precedente, le diverse interpretazioni sulla questione: a chi sosteneva che i coloni dovessero sentirsi «virtualmente rappresentati» nel parlamento inglese, gli

oppositori risposero che il paragone non poteva darsi, poiché mentre in Gran Bretagna tutti, rappresentati e non, subivano gli effetti delle leggi emanate dal parlamento, nel caso delle colonie si aveva l’irritante situazione per cui chi imponeva la legge non ne sarebbe stato soggetto. Chi sosteneva la misura

«Not adverting to the common interest, which existed between the people of Great Britain, and their representatives, they believed, that the same right existed, although the same community of interests was wanting»14.

A rafforzare questa sensazione di distanza concorreva anche il giudizio errato delle colonie che si aveva in Gran Bretagna, che si era formato a partire da notizie parziali, basate esclusivamente su quanto gli emissari del governo avevano osservato nelle città durante la recente guerra, quando fiorivano i traffici sostenuti dalle spese di guerra, ma questo quadro non considerava «lo situazione generale del paese». In questi anni le charters sulle quali si reggevano le diverse colonie divennero oggetto di indagine, poiché si riteneva che esse contenessero «i principi» sui quali esse erano state fondate e che fossero l’unico legame concreto, in termini costituzionali, tra di esse e la Gran Bretagna. Anche queste, però, non furono interpretate in modo univoco: la carta della Pennsylvania, ad esempio, diceva che i coloni mantenevano gli stessi diritti di cui avrebbero goduto rimanendo a casa, ma mentre per gli inglesi questo significava che essi rimanevano sotto l’autorità del parlamento, per gli abitanti delle colonie ormai voleva dire che anche loro avevano il diritto a non essere tassati senza rappresentanza.

Il potere del parlamento non veniva discusso in quanto tale, ma nelle colonie si sosteneva che per essere effettivo questo ha bisogno di essere «costituzionalmente formato», vale a dire deve essere formato, in uno dei suoi rami, dal «popolo» e se questo era vero in Gran Bretagna, lo stesso non poteva dirsi per l’America.

I coloni, nel crescendo argomentativo di Ramsay, giungono così ad assumere una piena coscienza della loro autonomia dalla Gran Bretagna ed iniziano a considerarsi, loro stessi, depositari in prima persona delle libertà inglesi, fino a rivolgerle contro la madrepatria. Mantenendo il registro oscillante tra una sorta di predestinazione e la contingenza accennato in precedenza, Ramsay arriva però a ricavare un’altra origine della consapevolezza delle colonie, non frutto degli eventi degli anni ’60 e ’70 del diciottesimo secolo, ma inscritta nella loro stessa storia.

La migrazione dei coloni rientra, secondo Ramsay, nell’usanza comune fin dagli anni passati di «migrare, ed erigersi in società indipendenti» da parte di parti di una comunità. Nell’epoca moderna inaugurata dalla colonizzazione europea, la spinta del commercio ha però portato al prevalere di una «politica diversa»,

guidata dal «principio dell’Unione» che lega le colonie alla loro madrepatria; in questo sistema di dipendenza le colonie britanniche sono parte di un impero commerciale e, come abbiamo visto, disciplinatamente sottomesse alle regolazioni decise dalla Gran Bretagna che interessavano l’impero nel suo complesso. Contemporaneamente, però, essi sono guidati dalla ricerca dell’indipendenza in quanto

«They [..] set out on their own expence, and after purchasing the consent of the native proprietors, improved an uncultivated country, to which, in the eye of reason and philosophy, the king of England had no title»15.

Se economicamente il legame commerciale era favorevole alle colonie, politicamente, secondo questa visione, i primi settlers del New England, avendo legittimamente abbandonato il suolo natio per costituire un’associazione politica in un altro luogo, sono sempre stati indipendenti, al punto da non dover alcuna obbedienza alla madrepatria, se non quella da loro volontariamente concessa. Solo la dottrina «schiavizzatrice» del diritto divino dei Re interpreta quella che è l’«istituzione di un nuovo governo» meramente come un’«estensione del vecchio, nella forma di una colonia dipendente».

Questo non ha impedito, però, che una parte dei coloni fosse sempre stata convinta della propria indipendenza, e siccome tutto ciò che li legava alla corona era espresso in una carta, essi considerarono nulla ogni pretesa che non fosse esplicitamente dichiarata e sentendosi al riparo non pensarono utile, né necessario, sciogliere questo legame. Le cose cambiarono quando la Gran Bretagna pretese di avere il diritto di tassare, aprendo la «melancolica prospettiva» di un conflitto. Al sopraggiungere dei primi scontri militari, nel 1775, gran parte dei coloni erano però ancora convinti che la miglior cosa per loro fosse di rientrare in pieno godimento di quelli che consideravano i loro «ancient rights».

È solo nel 1776 che le convinzioni dei coloni cambiano radicalmente. Da un lato, crebbe la sensazione che il presentimento dell’arbitrarietà dell’azione del parlamento fosse giusto: la crisi continuava ormai da oltre dieci anni, e anziché mostrare segni di ravvedimento, la Gran Bretagna perseguiva nel suo intento, ed anzi inaspriva la sua condotta. Oltre a questo, la nuova esperienza militare rese palese che la Gran Bretagna aveva ormai abbandonato i suoi sudditi e li considerava alla stregua di nemici, in questa situazione

«they considered themselves to be thereby discharged from their allegiance, and that to declare themselves independent, was no more than to

announce to the world the real political state, in which Great-Britan had placed them»16.

Certo non furono solo le condizioni politiche generali a condurre a questa situazione: intervennero infatti numerosi scrittori a spiegare i vantaggi che