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Uomini di poca fede o democratici radicali? Vicissitudini dell’Anti Federalismo come oggetto di studio tra storiografia nazionalista e critica

STORIOGRAFIA E ANTIFEDERALISMO TRA NAZIONALISMO E RISCOPERTA

1.2.1 Uomini di poca fede o democratici radicali? Vicissitudini dell’Anti Federalismo come oggetto di studio tra storiografia nazionalista e critica

Gli Antifederalisti sono stati sempre schiacciati, nella storiografia americana, all’interno della lettura della rivoluzione e della fondazione dell’Unione, in una posizione scomoda che ha avuto i suoi risvolti più determinanti, nella seconda metà del ‘900, nel dibattito tra la lettura liberale e la storiografia che è stata definita come sintesi repubblicana.1 Il loro ruolo è spesso stato letto come corollario alla

fondazione, le loro parole come elementi di completamento del discorso federalista. Si deve agli storici progressisti il tentativo di una loro riscoperta, allo scopo di far emergere la dinamica ‘sociale’ nella formazione dello Stato e nella prima repubblica, ma si deve a Cecilia Kenyon e al suo lungo articolo MEN OF LITTLE

FAITH: THE ANTI-FEDERALISTS ON THE NATURE OF REPRESENTATIVE GOVERNMENT,

pubblicato nel 1955,2 la riscoperta della loro dimensione ideologica, sebbene il suo intervento, di fatto, avesse lo scopo di screditarli come possibile alternativa.

In netta discontinuità con gli approcci economicisti legati all’opera di Charles Beard, Kenyon rende esplicito il suo intento partendo da una critica precisa alla lettura della Costituzione presentata nel celebre An Economic Interpretation of the

Constitution. Al di là degli «stereotipi metodologici» cui il testo aveva dato origine,

quello che preme a Kenyon è di constatare che l’opera di Beard, così concentrata in

1 Il concetto di sintesi repubblicana, su cui tornerò in seguito, è derivato da Shallope, T

OWARD A

REPUBLICAN SYNTHESIS: THE EMERGENCE OF AN UNDERSTANDING OF REPUBLICANISM IN AMERICAN

HISTORIOGRAPHY, WMQ, 3rd. Ser., vol. 29, No. 1, Jan. 1972, pp. 49-80.

2 M

EN OF LITTLE FAITH: THE ANTI-FEDERALISTS ON THE NATURE OF REPRESENTATIVE GOVERNMENT,

una spiegazione monocausale della Costituzione fino a definirla un «Documento Economico», ha trascurato, ed impedito alle generazioni di storici che al suo lavoro si rifacevano, di indagare e cogliere in pieno le sue «fondazioni teoriche».3 Nella lettura beardiana, i meccanismi costituzionali previsti dalla Costituzione avevano una precisa connotazione: erano i mezzi individuati dai Fondatori per proteggere i loro diritti proprietari contro la crescente democratizzazione delle politiche statali;4 in questo modo, è l’accusa di Kenyon, il «pensiero costituzionale» dei Fondatori è stato ridotto ad una «risposta ideologica ad interessi economici», una interpretazione che Kenyon si propone di confutare.5 Kenyon adotta per la prima volta un approccio differente, mettendo al centro della sua analisi non i Federalisti, ma gli Anti-Federalisti, partendo dal presupposto che «una larga porzione del popolo nel 1787-1788 erano Anti-Federalisti», e che dunque conoscere le «loro idee» è essenziale per capire «il pensiero politico Americano negli anni della formazione della repubblica».6

Kenyon non nega la rilevanza degli interessi economici, ma aggiunge che il «contesto ideologico» fu «altrettanto importante» per la determinazione della Costituzione. Nella sua ricostruzione, l’enfasi posta dagli oppositori sulla necessità di un piccolo territorio e di una popolazione omogenea per lo stabilimento della repubblica aveva una chiara derivazione dalle tesi di Montesquieu, ma era anche sostenuta dall’esperienza dell’autogoverno cui le colonie erano abituate prima della crisi che condusse alla rivoluzione: proprio l’intenso dibattito politico degli anni precedenti la rivoluzione, aveva posto le basi per un sospetto diffuso contro un governo distante, in quel caso quello inglese. Ricorrere semplicemente alle influenze ideologiche di autori come Montesquieu era perciò insufficiente, perché non teneva conto del «relativismo politico» diffuso all’epoca, che solo incrociando

3 ibid. p. 4.

4 A dimostrazione di quanto l’accusa che Kenyon muove a Beard sia in un certo modo riduzionista rispetto alla stessa visione di Beard, Cfr. quanto egli scrive in questo passaggio sull’oggetto e i limiti dell’interpretazione economica: «Of course, it may be shown (and perhaps can be shown) that the farmers and debtors who opposed the Constitution, in fact, benefited by the general improvement which resulted from its adoption. It may likewise be shown, to take an extreme case, that the English nation derived immense advantages from the norman Conquest and the orderly administrative process which were introduced, as it indoubtely did; nevertheless, it does not follow that the vague thing known as “the advancement of general welfare” or some abstraction known as “justice” was the immediate, guidino pur pose of the leaders in either of these great historic changes. The point is, that the direct, impelling motive in both cases was the economic advantages which the beneficiaries expected would accrue to themselves first, from their action. Further than this, economic interpretation cannot go. It may be that some large world-process is working through each series of historical events; but ultimate causes lies beyond our horizon», Beard, An Economic Interpretation of the Constitution, New York, Macmillan, 1913. Questa impostazione è reiterata da Beard in due testi successivi: The Economic Basis of Politics, New York, 1922; e The Rise of American Civilization, New York, 1927, scritto insieme a Mary Beard.

5 L’intento di Kenyon va compreso considerando l’enorme influenza che le tesi di Beard ebbero negli anni seguenti, un impatto che si può dire abbia rovesciato una storiografia fino a pochi anni prima dominata da una sorta di consenso nazionalista e quasi venerazione dei Padri Fondatori, un punto cui torneremo in seguito. Sull’influenza di Beard ad inizio ‘900 cfr. Maurice Blinkoff, The Influence of Charles A. Beard upon American Historiography, University of Buffalo, May 1936.

«la natura e le circostanze» dei popoli coinvolti trovava una sua «incarnazione» in forme politiche concrete.7

Partendo da queste premesse, il lungo articolo procede nell’analisi del discorso politico antifederalista, focalizzando l’attenzione sulle critiche alla rappresentanza che si andava configurando nella Costituzione: Kenyon mostra come il discorso generico sulle dimensioni della repubblica trovi un suo obiettivo concreto nel rapporto tra elettori ed eletti, che era fissato dal testo in 1 a 30.000.8 Intorno alla

critica di quel rapporto, gli Anti-Federalisti ritratti da Kenyon costruirono una teoria della rappresentanza che si basava sostanzialmente sulla necessità di un’omogeneità tra gli interessi, i sentimenti e le opinioni tra popolo ed eletti, ma che molto concretamente accusa il processo elettivo previsto dalla Costituzione di effettuare una selezione a tutto favore dei potenti e dei demagoghi, dato che, come sostenne Richard Henry Lee, autore degli articoli a firma “Federal Farmer”, «a common man must ask a man of influence how he is to proceed, and for whom he must vote».9

Secondo Kenyon, tuttavia, questa concezione della rappresentanza era sostanzialmente ideale, nell’ottica Anti-Federalista, e vale come indicatore di un presupposto antropologico negativo che essi condividevano con i Federalisti:

«This attack stemmed directly from the Anti-Federalist conception of human nature. They shared with their opponents many of the assumptions regarding the nature of man charachteristic of American thought in the late eighteenth century. They took for granted that the dominant motive of human behavior was self-interest, and that this drive found its most extreme political expression in an instable lust for power».10

Gli Anti-Federalisti sollevarono l’accusa che non ci fosse alcuna garanzia che gli eletti potessero essere effettivamente dei «good men», un argomento che riverberava le tesi espresse nel Federalist, in particolare nei numeri 10 e 51, dove Madison sosteneva che se gli uomini fossero tutti dei santi non ci sarebbe bisogno del governo, e che se i governanti fossero tutti illuminati, non ci sarebbero bisogno di meccanismi costituzionali per rimediare o limitare le «cause» della faziosità, ma «gli statisti illuminati non saranno sempre a portata di mano»11. Sebbene gli

7 Ibid., p. 7, nota 8. 8 Ibid., p. 10.

9 Federal farmer, ED, II, 232. 10 Kanyon, cit., p. 13.

11 Cfr. Il Federalista, cit., pp. 456-462 e 189-197, in particolare le pp. 192-193. Per argomenti Anti- Federalisti in questo senso, Caldwell, NC: «that gentlemen, as an answer to every improper part of it [la Costituzione], tell us that every thing is to be done by our own representatives, who are to be good men. There is security that they will be so, or continue to be so» e Robert Lansing, NY: «Scrupules would be impertinent, arguments would be in vain, checks would be useless, if we were certain our rulers would be good men [..] and all free constitutions are formed with two

argomenti Anti-federalisti fossero rivolti alle derive autoritarie degli eletti e alla loro lontananza dagli elettori, mentre quelli Federalisti fossero soprattutto preoccupati della possibile sintonia degli eletti in quella parte dell’elettorato che poteva costituire una «maggioranza»12, gli argomenti utilizzati concorrono in una

definizione in termini negativi della natura umana, propensa all’abuso del potere e al perseguimento dell’interesse individuale. Occorre però a questo punto dire che la polemica Anti-Federalista non può essere letta solo nei confronti di “Publius”, la firma degli articoli che sarebbero poi stati raccolti nel Federalist, ma va considerata rispetto ad un insieme di argomentazioni che tendevano, in effetti, a scaricare sulla virtù e le capacità degli eletti molte delle critiche che venivano rivolte al sistema, facendo anche ampio uso della credibilità ed autorevolezza degli uomini che avevano materialmente scritto il testo nella Convention di Philadelphia. È solo tenendo conto di questo, a nostro parere, che si può meglio comprendere perché, come rileva giustamente Kenyon, gli oppositori alla Costituzione sostenessero che non ci si poteva fidare, a priori, degli eletti.

Allo stesso modo, un altro argomento forte, che consiste nel giudicare insufficiente l’elezione popolare come rimedio per eventuali abusi di potere, deve essere collocato all’interno della critica ad una rappresentanza considerata insufficiente e fortemente caratterizzata in senso aristocratico13. Coerentemente con questa visione, gli Anti-Federalisti di cui parla Kenyon chiedevano chiarezza nel testo costituzionale su alcuni punti-chiave, in modo da prevedere e rendere espliciti i poteri dei diversi organi del governo e i loro limiti. Kenyon però, giudicando questo atteggiamento in base al suo presente, rileva che quello che oggi (1955) è considerato un pregio della Costituzione, la sua brevità e la «libertà dalle minuzie», era invece «temuto» dagli Anti-Federalisti, che invece «volevano tutto scritto nero su bianco, senza spazio di discrezione o interpretazione lasciata per i loro Rappresentanti nel Congresso»14. Dal nostro punto di vista, prima di

anticipare una tendenza successiva dei testi costituzionali, andrebbe osservato che

questo accento verso il mandato imperativo era il frutto dell’esperienza politica maturata nei decenni precedenti ed accelerata dalla Rivoluzione, che aveva visto crescere, attraverso l’istruzione degli eletti e la possibilità di controllo della loro azione, la capacità di settori popolari prima esclusi di influire sulle scelte dei

views – to deter the governed from crime, and the governors from turanny», in ED, IV, p. 187 e II, p. 295-296.

12 Fattore questo non irrilevante, ed anzi determinante per comprendere appieno la differenza tra le due visioni. Il F10, infatti, continua specificando che «se una fazione non raggiunge la maggioranza, il principio repubblicano stesso fornisce il rimedio [..], invece, se la maggioranza stessa fa parte di una fazione, gli istituti di governo popolare permettono di sacrificare il pubblico interesse ed il bene degli altri cittadini alla propria passione o interesse comune», Il Federalista, cit., p. 193.

13 Cfr. Kenyon, p. 20. 14 Ibid., p. 22.

governi locali e statali.15 Ecco allora che la critica di George Mason, «niente è così

essenziale alla preservazione di un governo repubblicano della rotazione periodica [nelle cariche di governo, in particolare riferito ai Senatori e al Presidente]», si arricchisce di una dose di concretezza che supera una astratta teoria del governo repubblicano16.

Come Kenyon rileva, questa sfiducia nei confronti degli eletti si accompagna ed in parte è derivata da una sfiducia nei confronti degli elettori, vale a dire quel popolo che secondo George Clinton, governatore dello Stato di New York, «è troppo propenso ad oscillare da un estremo all’altro», un’instabilità favorita dai tumultuosi cambiamenti dell’ultimo decennio e che contrasta, invece, con il genio della Common Law indicato da “Centinel” nella «riluttanza al cambiamento» prodotta dalla «stabilità e l’attaccamento che il tempo e le abitudini danno alle forme di governo». Senza questa stabilità, gli illuminati e gli uomini di potere possono facilmente indirizzare il sentimento popolare a favore delle loro strategie politiche17. Queste riserve nei confronti delle capacità del popolo, non mettono in

discussione la ratifica popolare, ma piuttosto indicano come insufficiente il solo controllo elettorale, un ragionamento condiviso anche da chi, come James Wintroph, autore degli articoli firmati “Agrippa”, sosteneva che gli individui dovessero guardarsi dalla maggioranza in una repubblica come ci si deve guardare dal re in una monarchia.18 Su questa base, oltre che dalla necessità di

definire i limiti dei poteri, veniva avanzata la richiesta di un Bill of Rights nella Costituzione.

In sostanza, commenta Kenyon, gli Anti-federalisti e i Federalisti condividevano una certa antropologia negativa:

«For one thing, they shared a profound distrust of man’s capacity to use power wisely and well. They believed self-interest to be dominant motive of political behaviour, no matter wether the form of government be republican or monarchical, and they believed in the necessity of constructing political machinery that would restrict the operation of self-interest and prevent men entrusted with political power from abusing it. This was the fundamental assumption of the men who wrote the Constitution, and of those who opposed its adotion, as well».19

15 Per una discussione del concetto di rappresentanza ed in particolare del mandato imperativo in opposizione al concetto di mandato libero, si veda Bruno Accarino, Rappresentanza, Bologna, il Mulino, p. 199, in particolare alle pp. 87-104.

16 ED, III, p. 485. 17 ED, II, p. 225.

18 Cit. in Kenyon, p. 36. 19 Ibid., p. 38.

Ma, sostiene Kenyon, pur condividendo questi presupposti, la differenza radicale tra i due schieramenti era sulla possibilità o meno di estendere il governo repubblicano, fino a comprendere un’«intera nazione». La critica alla rappresentanza torna così fondamentale per capire in che senso si possa dire che gli Anti-Federalisti fossero localisti: lo erano, secondo Kenyon, in un senso peculiare, che «ricorda la teoria Rousseauiana del Contratto Sociale», nella quale la dimensione limitata era necessaria per un governo «in accordo con la Volontà Generale».20

La limitazione territoriale, di popolazione e di «diversità» era necessaria dal momento che essi credevano che «la volontà del popolo» sarebbe stata distorta dal processo rappresentativo. Kenyon si spinge però oltre, sostenendo che gli Anti- Federalisti vedessero la rappresentanza come un «sostituto istituzionale» alla democrazia diretta e che, proprio in virtù di questa concezione che metteva al centro la volontà popolare intesa come volontà generale, non prendessero in considerazione la «necessità del compromesso», ma si rifacessero ad un modello di piccola repubblica che ricalcava la democrazia assembleare dell’antica Atene. Non è chiaro però perché il modello dovessere essere la Grecia antica e non, invece, l’esperienza di autogoverno che passava attraverso i towns meetings del New England, le petizioni o le conventions attraverso le quali le comunità locali riuscirono ad acquisire una voce politica già nel periodo coloniale, e che furono fondamentali per la trasformazione della Rivoluzione da una battaglia puramente ideologica sul diritto alla tassazione senza rappresentanza, in uno scontro che vide la mobilitazione politica del popolo tra le sue componenti decisive.

Senza considerare queste esperienze, Kenyon somma a questo modello «ideale» la «sfiducia» nel processo rappresentativo, per ricavare un giudizio complessivo degli Anti-federalisti come uomini spaventati dall’accelerazione imposta dai federalisti verso un sistema che avrebbe determinato, proprio per la sua scala nazionale, una diversa dinamica di coagulo del consenso, nella quale l’«organizzazione» avrebbe avuto un ruolo determinante per il coinvolgimento dell’elettorato. Era in sostanza il processo di filtraggio e consolidamento dell’«opinione pubblica» visto positivamente da Madison che invece gli Anti- federalisti temevano, perché avrebbe sostituito alla maggioranza «reale» una maggioranza «organizzata».21 «Uomini di poca fede», gli Anti-Federalisti non

credevano nell’efficacia dei meccanismi di separazione dei poteri e di checks and

balance offerti dalla Costituzione, ma, e questo punto mi sembra importante per

capire il perché del riferimento ad Atene o alle macchinose costituzioni moderne piuttosto che alle esperienze del decennio 1776-1787, secondo Kenyon «nessuno»

20 Ibid., pp. 38-39. 21 Ibid., pp. 40-41.

espresse l’idea che questi sistemi fossero in realtà progettati per difendere i diritti proprietari dei well-to-do.

Incapaci di proporre alternative costruttive e sospettosi della regola della maggioranza, gli Anti-federalisti erano forse guidati da «principi democratici», ma «essi mancavano sia della fiducia che della visione per estendere i loro principi a livello nazionale»; contro la visione «irrealistica e antistorica» di Beard e dei suoi seguaci, che imputano una mancanza di democraticità nel processo di formazione della Costituzione, Kenyon conclude che la costituzione non sarebbe mai stata ratificata, se non per la tenacia dei Federalisti, che crearono uno «schema nazionale che avrebbe favorito la successiva ascesa della democrazia»22. La

conclusione di Kenyon ha dunque due obiettivi: il primo, è quello di spazzare via ogni retroterra ‘sociale’ dalle critiche Anti-Federaliste; il secondo, di escludere gli Anti-Federalisti dal novero dei Padri Fondatori, ascrivendo unicamente ai Federalisti non soltanto il merito della Costituzione, ma anche la sua successiva implementazione e le conquiste democratiche che successivamente vennero introdotte grazie a quella cornice.

Il carattere pionieristico dell’articolo di Kenyon, e l’impatto delle sue tesi, che in fondo non contrastavano con l’immagine degli oppositori alla Costituzione che si era sedimentata nel tempo prima di Beard, ma fornirono un nuovo quadro interpretativo e una nuova etichetta, concorsero a renderlo un punto di riferimento irrinunciabile per chiunque volesse affrontare l’argomento. Cecilia Kenyon era stata il primo studioso a dedicare agli argomenti Anti-Federalisti una specifica e approfondita analisi e, grazie al suo intento anti-beardiano, a focalizzarsi sulla dimensione ideologica del loro pensiero. Scritto negli anni ’50, prima della formalizzazione della sintesi repubblicana, MAN OF LITTLE FAITH,

seguito dalla pubblicazione curata da Kenyon di numerosi testi Anti-Federalisti a supporto delle sue tesi23 era e rimane probabilmente lo scritto che più a lungo ha

influenzato la lettura dell’Anti-federalismo all’interno della storiografia americana.24

Sono queste conclusioni che vengono invece capovolte da Jackson Turner Main nel 1961, questa volta nella prima, e tutt’ora una delle poche, monografie dedicata agli Anti-Federalisti, The Anti-Federalists: critics of the constitution25. Intento di Main, storico progressista che si richiamava in un certo modo a Beard, era di far

22 Ibid., pp. 42-43.

23 Cecilia Kenyon, ed., The antifederalists, Bobbs-Merril, Indianapolis, 1966. Anche in questo caso, si trattava della prima raccolta del genere.

24 Nel dire questo non sostengo che gli scritti venuti dopo non abbiano apportato nuovi contributi, ma che è da Kenyon che i più partono nella descrizione dell’Anti-Federalismo: l’etichetta di «man of little faith» così declinata è cioè il punto di partenza che svolge un ruolo performante nel determinare poi la citazione degli altri contributi come corollari ed eccezioni di tale visione, che finisce in questo modo per plasmare la lettura di fondo dell’Anti-federalismo.

25 Jackson Turner Main, The Anti-federalists. Critics of the Constitution, 1781-1788, University of North Carolina Press, 1961.

emergere il carattere democratico della Rivoluzione americana e la natura sostanzialmente reazionaria della Costituzione. In questa ottica, focalizzarsi sugli Anti-Federalisti permetteva di vedere che cosa la realtà sociale, politica ed ideologica americana fosse, tra la fine della guerra e il 1788, ed, indirettamente, che cosa venisse invece contrastato dai padri fondatori, nel loro progetto di riforma della Confederazione.

L’analisi di Main muove dalla critica ai nuovi poteri fiscali che la Costituzione attribuiva al governo federale, particolarmente attaccati dagli Anti-federalisti, in particolar modo riguardo alla possibilità per il nuovo governo di applicare imposte direttamente sugli individui, un elemento di discontinuità indicato da