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I boschi del Montalbano

La gestione sostenibile del patrimonio forestale

2. I boschi del Montalbano

La vegetazione forestale che caratterizza oggi il territorio del Montalbano è il risultato di una lunga attività antropica che ha gestito o trasformato molte delle aree un tempo ricoperte dalla vegetazione originaria per far posto alle colture agricole, ai pascoli o alle aree edificate. In alcuni periodi queste attività sono risultate più intense, in altri invece hanno subito pause anche molto prolungate, durante le quali la vegetazione spontanea è tornata ad occupare i territori perduti. Attualmente ci troviamo in una situazione che potremmo definire intermedia tra le due precedenti, con una tendenza generalizzata alla rinaturalizzazione anche se, dopo secoli di condizionamenti, non è propriamente più possibile parlare di vegetazione naturale.

La descrizione del paesaggio vegetale, anche solo dei suoi caratteri più salienti, non può prescindere da un inquadramento climatico dell’area. Essendo una dorsale montuosa, seppur di modesta altitudine, il Montalbano presenta una sensibile variazione climatica tra i due versanti. Il clima nel complesso risulta di tipo termo-mediterraneo nel versante sud-occidentale e meso- mediterraneo in quello nord-orientale. Le precipitazioni medie annuali, più abbondanti in autunno e primavera, oscillano dai circa 800 mm delle basse colline di Vinci e Cerreto Guidi fino quasi ai 1200 mm della zona più settentrionale della catena montuosa (Monsummano e Serravalle) che risente della vicinanza con l’Appennino. Le temperature medie annuali oscillano dai circa 13 gradi nelle zone più fredde a 15-16 grandi in quelle più calde. In conseguenza del gradiente termico la vegetazione del Montalbano assume una fisionomia diversificata per fasce altitudinali ben identificabili anche da un occhio poco esperto. All’interno di forre o impluvi, dove gli estremi termici e di umidità subiscono minori variazioni stagionali, la vegetazione risulta meno influenzata dalla quota ed è composta soprattutto da specie esigenti di acqua e tolleranti dell’ombra.

La vegetazione originaria che, in tempi remoti, ammantava le pendici del Montalbano era costituita prevalentemente dai boschi misti di latifoglie, in cui dominavano incontrastate alcune specie di querce. Queste, ancora oggi presenti anche se con distribuzione e frequenza differenti rispetto al passato, hanno la caratteristica di essere alberi molto longevi (ne è una prova il plurisecolare leccio di Faltognano) grazie alla grande resistenza del legno alle sollecitazioni meccaniche e agli attacchi di patogeni (es. funghi e insetti).

La farnia è, tra le querce, la specie che meglio delle altre è riuscita ad adattarsi ai terreni alluvionali posti alla base delle pendici, grazie alla capacità di

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resistere a lungo ai ristagni d’acqua e alla sommersione completa delle radici. Purtroppo, a causa dei disboscamenti operati soprattutto nel XIX secolo nei terreni di fondovalle, i boschi di farnia sono ormai quasi del tutto scomparsi. Restano soltanto alcune piante sparse o piccoli nuclei come quelli presenti nel Parco della Magia a Quarrata, a testimonianza di quelle che un tempo furono le antiche selve planiziali.

Al di sopra della falda affiorante, su suoli asciutti e ben drenati, un’altra specie di quercia prende il sopravvento: la roverella. Questa è una specie termofila e risulta pertanto più abbondante sul versante occidentale del Montalbano, spingendosi fino a 3-400 metri di quota. Un tempo doveva occupare la gran parte delle aree oggi coltivate a vite e ulivo. Sui suoli più superficiali e aridi e nelle esposizioni molto soleggiate, alla roverella si accompagnava o sostituiva un’altra specie di quercia: il leccio. Più in alto (dai 250-400 metri, a seconda del versante, fino al crinale), la specie più abbondante diventava probabilmente il cerro, essendo più resistente alle basse temperature e più esigente di umidità. La stessa specie era comunque molto diffusa anche alle quote più basse sui versanti ombrosi delle colline plioceniche. Basti pensare all’etimologia della città di Cerreto Guidi, nei cui dintorni sopravvivono ancora alcuni lembi di boschi di cerro. Associato sia al cerro che alla roverella un tempo doveva essere presente, molto più di quanto lo sia oggi, anche un’altra specie di quercia: la rovere. A differenza delle due precedenti, infatti, la rovere possiede un legno particolarmente adatto a essere lavorato e, per questo motivo, ha subìto nel tempo tagli molto intensi tali da causarne una rapida rarefazione. L’elenco delle querce del Montalbano si completa con due specie poco comuni anche in passato, anche se certamente più comuni di quanto lo siano diventate oggi: sughera e cerrosughera. La prima è una specie eliofila, con distribuzione meso-mediterranea (meno resistente del leccio alle basse temperature) e da sempre coltivata per la produzione del sughero che si ricava dalla corteccia. Per evidenti ragioni climatiche, nell’alta Toscana la specie è sempre stata sporadica all’interno dei boschi e oggi la si può trovare con individui isolati o in piccoli popolamenti probabilmente laddove un tempo era stata favorita a partire da nuclei spontanei o, più facilmente, di impianto. Ancora più interessante è la presenza del cerrosughera, specie protetta dalla Legge Regionale e presente sul Montalbano in modo sporadico. Assieme alle querce dovevano poi convivere numerose altre specie arboree oggi scomparse o sporadiche perché particolarmente sensibili al taglio o al pascolo degli animali allevati: il tiglio selvatico, il carpino bianco, l’agrifoglio, l’acero di monte, l’acero opalo e il tasso.

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Il paesaggio vegetale originario, così come brevemente descritto, è mutato a seguito dell’azione antropica secondo tempi e modalità differenti in relazione delle esigenze del periodo e dell’attitudine dei luoghi interessati. Per esempio, laddove in passato le cerrete ammantavano le aree di crinale, oggi risulta ben più frequente il castagno. Questa trasformazione non deve meravigliarci, vista l’utilità che l’uomo ha tratto dalla coltivazione di questa pianta. Il castagno, infatti, sebbene si ritenga appartenente alla flora spontanea italiana, nei boschi originari era presente in modo sporadico e soltanto nelle aree con suoli più fertili e profondi. Ma durante il dominio romano la coltura del castagno ebbe un grande impulso, non solo per l’ottimo frutto adatto ad essere macinato, ma anche per trarre legname da opera e paleria, che si ricavava dalla così detta ‘silva

palaris’ e che poi veniva impiegato tanto in edilizia che in agricoltura (ad

esempio, nei vigneti). Come vedremo, anche se la coltura del frutto era presente, la destinazione principale sul Montalbano è stata, e lo è ancora oggi, proprio quella legata alla produzione di paleria ottenuta mediante tagli frequenti dei polloni.

Presenti soprattutto a quote basse e nel settore meridionale della dorsale, i querceti misti di roverella e leccio sono boschi molto diffusi anche nel resto della Toscana. Queste formazioni possono assumere composizione e struttura molto differenti a seconda di quale delle due specie diviene dominante anche se, per motivi climatici, è il leccio che di solito risulta più abbondante sul Montalbano. Il leccio è considerata la pianta arborea per eccellenza delle foreste mediterranee perché estremamente longeva e molto tollerante dell’ombra. Quest’ultima caratteristica (denominata sciafilia) gli permette, nelle aree più idonee, di crescere anche sotto il fitto della propria copertura e quindi di perpetuarsi nel tempo, vincendo la concorrenza di tutte le altre specie arboree. Il legname di leccio è molto duro e difficile da lavorare perché soggetto a schianti e torsioni, per questo motivo è sempre stato utilizzato per produrre legna da ardere ottenuta mediante il taglio frequente dei polloni.

Leccete di una certa estensione si trovano nei dintorni di Capraia e Limite, nelle zone di Artimino, Carmignano e Monsummano. La lecceta più nota, tuttavia, è quella di Pietramarina dove sono presenti esemplari di grande dimensione associati a un’altra specie molto interessante: l’agrifoglio (Ilex

aquifolium). La roverella risulta più abbondante sul Colle di Monsummano

soprattutto nelle aree dove affiorano i calcari e le marne.

In alcuni aree, come quelle a monte di Vinci tra la Fonte del Sassone e Pietramarina oppure all’interno del Bosco della Magia, sopravvivono lembi di foresta con caratteristiche vegetazionali ancora in parte simili a quelle originarie. Si tratta di boschi a dominanza di cerro, una quercia piuttosto

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esigente di fertilità che, soprattutto in aree a clima mediterraneo, soffre gli sfruttamenti eccessivi e i tagli molto frequenti. In questi boschi vivono ancora magnifici esemplari di oltre un metro di diametro e anche 25 metri di altezza.

Le selve castanili si sviluppano lungo tutto il crinale sopra i 4-500 di quota e riescono a scendere fino a 300 metri sul versante fresco nord-orientale. i castagneti fino agli anni ’40 del secolo scorso risultavano ancora più estesi e diffusi di adesso, ma nel secondo dopoguerra una grave malattia conosciuta col nome di ‘cancro corticale’ - provocata dal fungo parassita nordamericano

Cryphonectria parasitica - ha portato al disseccamento di moltissimi esemplari. Gli

effetti di questa epidemia furono così devastanti che in molte aree è stata realizzata una radicale conversione dei boschi di castagno utilizzando la robinia (Robinia pseudacacia), specie di origine nordamericana. Attualmente i castagneti del Montalbano vengono gestiti per lo più a turni molto brevi e presentano perciò caratteristiche di scarso interesse naturalistico e paesaggistico. Esistono comunque diverse eccezioni e, in alcune aree di limitata estensione, sopravvivono boschi di castagno molto belli ricchi di flora e fauna tipica delle foreste mature.

I boschi di pino domestico e cipresso si localizzano sostanzialmente nelle aree meridionali del Montalbano e più precisamente tra Artimino e Limite sull’Arno. Sono il frutto di rimboschimenti effettuati in passato per garantire maggiore stabilità ai versanti acclivi e si presentano oggi in condizioni di elevata naturalità grazie all’ingresso di numerose specie spontanee. Il loro valore comunque resta principalmente quello estetico in quanto caratterizzano in modo peculiare il paesaggio della valle dell’Arno tra la stretta della Gonfolina e Montelupo Fiorentino. Entrambe le specie sono rustiche e tolleranti della siccità. La loro principale minaccia è rappresentata dagli incendi a causa dell’elevato contenuto di resine che possiedono e che aumentano moltissimo il loro grado di infiammabilità. Il cipresso è da diversi anni soggetto a una grave malattia provocata dalla diffusione di un fungo di origine americana (Seiridium

cardinale), quasi sempre mortale, che fortunatamente non sembra per il

momento aver colpito in modo esteso gli esemplari del Montalbano.

Il pino marittimo è una specie molto comune sul Montalbano e si trova frequentemente associato alle querce, alle quote più basse, e ai castagni a quelle più elevate. Risulta anche piuttosto comune in formazioni pure, frutto di rimboschimenti operati dall’uomo. È proprio l’uomo che nel corso dei secoli ha spesso favorito la diffusione del pino marittimo rilasciando, a ogni ceduazione nei querceti o nei castagneti, qualche decina di piante ad ettaro al fine di ottenere nel tempo fusti di grandi dimensioni utilizzabili per ricavarne legname da opera. La diffusione del pino viene anche favorita dagli incendi

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grazie al fatto che, essendo una specie eliofila e pioniera, riesce a sfruttare al meglio le condizioni che si creano al suolo subito dopo il passaggio del fuoco. Tale caratteristica è accentuata dal fatto che i coni del pino marittimo sono portati a lungo sulla pianta e la loro apertura, durante la quale vengono rilasciati i semi, è favorita dalle alte temperature che si sviluppano con gli incendi. Una grave epidemia tuttavia si è diffusa da oltre un decennio interessando gran parte delle pinete riducendo drasticamente la densità del pino marittimo in tutto il suo areale di distribuzione. Si tratta della cocciniglia Mattsucoccus feytaudi, un insetto fitomizo di origine portoghese che si nutre della linfa della pianta, portandola in pochi anni al completo disseccamento. Questo insetto ha raggiunto le pinete toscane a partire da un nucleo accidentale di diffusione nel sud della Francia da cui in breve tempo è passato alla costa ligure e a quella toscana. Attualmente l’epidemia sta interessando tutte le pinete del Montalbano, provocando morie diffuse e determinando una drastica riduzione di questa specie a vantaggio soprattutto del castagno, del cerro e del leccio.

La robinia è un albero appartenente alla famiglia delle leguminose e, come già descritto, è di provenienza nordamericana. Fu introdotta per la prima volta in Francia nel 1601 per scopi ornamentali ma, a partire dal 1750, ha conosciuto una notevole diffusione come specie da rimboschimento, soprattutto a fini idrogeologici, principalmente nell’Italia settentrionale e in Toscana. Dal XIX secolo la specie è stata impiegata anche in tutta la Pianura Padana per alberature complementari all’attività agricola mentre successivamente il suo impiego è proseguito nel rivestimento delle scarpate delle nuove strade e tratte ferroviarie. Il boom nell’impiego di questa specie esotica si è comunque avuto dopo la crisi della castanicoltura, nel secondo dopoguerra, quando molti proprietari hanno sostituito i castagneti da frutto colpiti dal cancro corticale con la robinia, utilizzata a turno breve per trarre legna ardere. La robinia è una specie estremamente invasiva che riesce a propagarsi oltre che per disseminazione anche per polloni cresciuti direttamente dalle radici. Rappresenta pertanto una forte minaccia nei confronti della vegetazione autoctona con cui entra in competizione (soprattutto querceti, castagneti e vegetazione delle forre e dei corsi d’acqua). Sul Montalbano, sebbene la specie entri a far parte di tutte le associazioni vegetali, risulta maggiormente diffusa sul versante nord-orientale nelle zone di Serravalle Pistoiese e Quarrata.

Le forre e gli impluvi sono spesso accompagnati da una vegetazione perfettamente adattata alle particolari condizioni microclimatiche che caratterizzano questi ambienti: elevata umidità, scarso irraggiamento solare e suolo ricco di affioramenti rocciosi. Alle nostre latitudini, la pianta regina di questi ambienti è l’ontano nero (Alnus glutinosa). Grazie alla presenza dell’acqua,

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che solitamente scorre per gran parte dell’anno anche nei più piccoli impluvi, questi ambienti costituiscono delle vere oasi naturalistiche, ricche di specie vegetali e animali molto interessanti. Lo stesso ontano nero è una specie basilare per l’ecosistema torrentizio perché le foglie, i semi e i rametti che cadono in acqua contribuiscono in modo determinante a sostenere la comunità degli invertebrati acquatici. L’unica minaccia alla specie (e all’habitat che contribuisce a creare) è rappresentata dall’ingresso dell’esotica robinia quasi sempre favorita dai tagli degli alberi, purtroppo consueti, effettuati lungo i corsi d’acqua. Gli alberi di ontano possono raggiungere dimensioni considerevoli grazie all’abbondante disponibilità idrica e potendo immergere i capillizi radicali anche direttamente nell’acqua corrente. Gli alberi o gli arbusti che, oltre all’ontano nero, compongono la flora tipica delle forre sono il carpino bianco, sebbene piuttosto raro sul Montalbano, il nocciolo e il sambuco nero.

In ampi settori del Montalbano risultano presenti anche formazioni arbustive tipiche degli ambienti mediterranei, ovvero ricche di specie ben adattate a resistere alle elevate temperature estive. Si tratta di arbusteti o ‘macchie’ che pur avendo caratteristiche apparentemente comuni tra loro possono avere origini del tutto opposte. Tali formazioni possono essere infatti il risultato di una degradazione del bosco originario causata da tagli frequenti, pascolo o più probabilmente incendi, oppure l’effetto di una colonizzazione spontanea di aree non più coltivate. In entrambi i casi si tratta di ambienti fortemente dinamici in cui cioè, anche in assenza di interventi dell’uomo, la struttura della vegetazione tende normalmente a cambiare in modo repentino e ad assumere una fisionomia sempre più simile a quella boscata.

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