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L’emergere della dimensione distrettuale

Il biodistretto come strumento di sviluppo territoriale

2. L’emergere della dimensione distrettuale

La riflessione sulla dimensione distrettuale dell’agricoltura attraversa l’analisi scientifica e il dibattito sulle politiche agricole e di sviluppo rurale degli ultimi decenni, almeno da quando – approssimativamente alla fine degli anni ’80 – ci si è cominciati a (re)interrogare sulla natura dell’organizzazione della

produzione in agricoltura (IACOPONI,1990;CECCHI,1992;CARBONE,1992). Si

era infatti di fronte alla fine dell’illusione di una impresa agricola moderna, inserita ‘a monte’ in una tecnostruttura che le metteva a disposizione conoscenze e fattori produttivi omogenei e pensati a livello globale seguendo i dettami della scienza (secondo il modello della rivoluzione verde). L’impresa era collegata ‘a valle’ in filiere orientate alla grande industria e alla grande distribuzione, capaci di performare in modo efficiente la sola funzione sociale a cui erano chiamate. Ovvero si trattava di produrre e distribuire in modo tecnicamente ed economicamente efficiente (grazie al conseguimento di economie di scala) generi alimentari standardizzati, sicuri dal punto di vista igienico e a prezzi ragionevoli per i consumatori.

Questo modello era preso a riferimento e sostenuto dalle politiche agrarie dei prezzi e dalle strutture dell’Unione Europea (e prima dalla Comunità economica europea), elaborate secondo modelli di tipo top-down, spazialmente uniformi e gestiti in modo centralizzato. In essi l’impresa agricola era inserita in un tessuto di relazioni di tipo prevalentemente verticale; la competitività era conseguita essenzialmente in base all’innovazione tecnica prodotta dai grandi centri di ricerca pubblici e sempre più spesso privati; il territorio contava poco o nulla, salvo che in esso dovevano essere garantiti taluni servizi e infrastrutture (quali accessibilità e irrigazione) tali da creare economie esterne per le imprese.

Il modello entra però in crisi già negli anni ’80, vittima del suo stesso

successo che contribuisce allo squeeze on agricolture (VAN DER PLOEG, 2006)

causato dalla stagnazione/riduzione dei prezzi e dall’aumento dei costi. Allo

squeeze la logica dell’agricoltura industrializzata risponde con la ricerca di

ulteriori guadagni di produttività conseguiti mediante intensificazione della produzione, che di fronte a una domanda rigida al prezzo e al reddito determina flessioni nel livello dei prezzi e dei ricavi. Gli effetti perversi non si

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fermano alla sola sfera economica; sempre più evidenti sono gli effetti ambientali negativi causati dalla intensificazione nelle aree maggiormente vocate ma anche dall’abbandono delle aree più marginali.

Si sviluppano così numerose visioni critiche che esprimono modelli più o meno ‘alternativi’ a quello della modernizzazione/industrializzazione, ispirati ai riferimenti concettuali della territorialità e della multifunzionalità.

Il recupero della dimensione territoriale dello sviluppo si rifà alla visione emersa nella conferenza di Cork del 1996 e al suo ‘decalogo per lo sviluppo rurale’, che ne sottolinea i caratteri di endogeneità (che esaltano gli approcci bottom-up centrati sulle risorse locali), integrazione (tra attività diverse all’interno dello stesso territorio/azienda, ma anche tra locale e globale) e sostenibilità nelle sue tre declinazioni ambientale, economica e sociale. Quest’ultima, in particolare, richiama la necessità di generazione di capitale sociale capace di sostenere la creazione di regole condivise. Emerge dunque una visione dello sviluppo territoriale come progetto politico di lungo periodo, condiviso dagli attori di un dato contesto locale in interazione con attori extra- locali e costruito sulla base di un set di risorse locali.

Questo cambiamento di paradigma (da modernizzazione a territorialità) si accompagna a un cambiamento delle politiche agricole dell’Unione Europea, e in particolare al rafforzamento e ri-orientamento delle politiche di sviluppo

rurale (SOTTE,1998;BASILE E CECCHI,2001). Senza entrare nel merito, basta

qui ricordare che la complessità delle politiche cresce, in quanto vengono predisposti una pluralità di strumenti che, per essere ben impiegati, richiedono una programmazione e progettazione di insieme che in alcuni casi è dovuta (come nei Piani di sviluppo rurale) mentre in altri casi è opportuna (strumenti attivati su fondi diversi, non solo di politica agricola ma anche di politica sociale, ambientale, industriale ecc.); questo chiama in causa una pluralità di attori, non solo del settore pubblico ma anche di quello privato, coinvolti in base al principio della concertazione; e anche una pluralità di livelli, non solo quello UE e quello nazionale, ma anche quello regionale e talvolta quello più locale, in alcuni casi esplicitamente chiamato in causa dagli assetti istituzionali.

In questo contesto (ri)emerge in modo forte il tema della distrettualità,

mutuato dall’economia industriale (BECATTINI, 1987b) e declinato non solo

come peculiare modalità di organizzazione della produzione all’interno di un settore territorializzato ma anche come ambito di progettazione e di governance dello sviluppo di un sistema produttivo locale o, più estesamente, di un territorio rurale.

Il distretto come modalità di organizzazione della produzione – distretto agricolo, o agroalimentare – risponde, come evidenziato anche da Iacoponi

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(1990; 1994; 1995), alla insoddisfazione verso i modelli interpretativi che

considerano le capacità individuali delle singole imprese come unico o principale fattore di competitività, e propone un modello di interazione reticolare tra una pluralità di imprese che condividono un’appartenenza settoriale e una vicinanza ubicativa, oltre che organizzativa. In questi reticoli si generano risorse (‘economie’) esterne alle imprese ma interne al distretto, accessibili facilmente solo a coloro che fanno parte del reticolo territorializzato.

Si tratta di risorse sia fisiche (infrastrutture, centri di formazione) che, soprattutto, immateriali, quali accesso alle informazioni, conoscenze, saper fare, capitali reputazionali. Infatti l’interazione sociale generata grazie alla prossimità fisica (rapporti faccia a faccia) e culturale/valoriale (appartenenza a una stessa comunità locale) facilita il confronto continuo tra gli operatori, la circolazione delle informazioni, i processi di apprendimento e l’accumulo localizzato delle competenze, la creazione di un clima di fiducia che abbassa i costi di transazione e rende possibile la specializzazione delle imprese in fasi particolari del processo produttivo. Secondo Becattini (1987a) la sola agglomerazione spaziale delle imprese non produce un vero e proprio distretto, il quale è appunto definito come una “entità socioeconomica caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese”.

Il distretto industriale, nato come strumento di lettura positiva della realtà economica, ha dato origine anche a specifici interventi di politica industriale, nella consapevolezza che l’operatore pubblico potesse in qualche misura intervenire per consolidare o anche innescare gli ‘effetti-distretto’. Esemplificativa in tal senso la Legge 317/1991 “Interventi per lo sviluppo delle piccole e medie imprese”, che ha avuto interessanti applicazioni anche nel comparto agroalimentare.

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