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Il biodistretto come strumento di sviluppo territoriale

4. I distretti rural

L’estensione del concetto di distretto al ‘rurale’ va al di là delle specifiche filiere produttive localizzate e abbraccia un territorio nel suo insieme. Per questo il distretto rurale ha suscitato un grande interesse da parte delle istituzioni e delle collettività locali, specialmente nelle aree rurali più marginali e

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in quelle periurbane, dove l’agricoltura mantiene connotati, o quantomeno potenzialità, di maggiore multifunzionalità e può rappresentare un motore per lo sviluppo di tutto il territorio.

Dal punto di vista concettuale il passaggio da distretto agricolo/agroindustriale a distretto rurale è ricco di implicazioni. È necessario infatti da una parte considerare una molteplicità di attività economiche presenti in un territorio, diversificate ma fortemente integrate e interdipendenti, individuando il fondamento della competitività nelle loro essere complementari secondo una logica di economie di scopo e complementarietà; e dall’altra si deve concepire il territorio nella sua integrità, substrato per lo svolgimento di attività economiche ma anche supporto a un insieme articolato e complesso di funzioni di tipo sociale e ambientale, cui concorrono pertanto non solo imprese ma anche ‘non imprese’, cittadini, forze sociali. Il distretto rurale ha una specializzazione peculiare, che non risiede nel bene particolare che in esso si realizza (il tessile a Prato, il vino nel Chianti ecc.) ma nella capacità di offrire un insieme composito e integrato di beni e servizi che traggono la propria caratterizzazione dalla provenienza da un dato territorio. La logica è quella del

“paniere di beni e servizi” (PECQUEUR,2001), dove il carattere relazionale dei

prodotti offerti risulta determinante: il valore di un bene dipende dalla ‘qualità’ di tutti gli altri beni del paniere, e dalla ‘qualità’ stessa del territorio, dunque da un insieme di risorse territoriali che hanno un’ origine collettiva e rappresentano beni comuni da mantenere e riprodurre collettivamente (si pensi al paesaggio connesso alla presenza di sistemazioni agrarie tradizionali, alle tradizioni culturali, alla reputazione espressa nel ‘nome’ geografico del territorio). Pacciani (2003), riflettendo sull’esperienza del primo distretto rurale di qualità del nostro Paese, quello della Maremma, ha così sintetizzato i caratteri peculiari di un distretto rurale:

1. struttura produttiva caratterizzata dalla presenza di un elevato numero di piccole e medie imprese, e in cui anche le aziende non professionali svolgono importanti funzioni;

2. assenza di un settore economico e di una produzione dominante (polisettorialità), con una significativa integrazione e interdipendenza tra agricoltura e altre attività economiche presenti nel territorio (artigianato, turismo, ecc.);

3. forte caratterizzazione agricola dell’uso delle risorse locali e centralità dell’agricoltura negli assetti del territorio e nella gestione del paesaggio e dell’ambiente;

4. presenza di un paniere (più o meno ampio) di beni e servizi legati al territorio, caratterizzato da una immagine positiva verso l’esterno che

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deriva anche dalla percezione della ‘qualità’ stessa del territorio ed è strettamente legata alla ruralità e al carattere multifunzionale dell’agricoltura;

5. forte senso di identità territoriale posseduto dalle imprese e dagli altri attori presenti nel territorio (ivi compresi i cittadini), che si riflette in una visione dello sviluppo locale dipendente dalla qualità dell’ambiente, del paesaggio, della cultura locale.

Nella non ancora compiuta transizione socio tecnica da agricoltura modernizzata ad agricoltura multifunzionale un grande ruolo è stato giocato dalle politiche, e in primis dalla Politica agricola comunitaria. Essa ha incorporato alcuni dei principi della multifunzionalità mediante l’introduzione e il peso sempre crescente del disaccoppiamento e della condizionalità e ha rafforzato il peso delle politiche di sviluppo rurale, ma senza in realtà farli propri appieno.

Il distretto rurale, insieme al distretto agroalimentare di qualità, viene introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge di Orientamento agricola del 2001 (D. Lgs. 228 del 18.5.2001) la quale ne ha posto le basi per la istituzionalizzazione, allo scopo di offrire maggiori opportunità alle imprese del territorio ma anche di rendere le realtà distrettuali non solo oggetto ma anche soggetto delle politiche, ovvero capaci di inserirsi tra i livelli di progettazione e gestione delle politiche di sviluppo rurale. L’articolo 12 della Legge di orientamento stabilisce all’art.12 che i distretti rurali sono:

[…] sistemi produttivi locali […] caratterizzati da un’identità storica e territoriale omogenea derivante dall’integrazione fra attività agricole o di pesca e altre attività locali, nonché dalla produzione di beni o servizi di particolare specificità, coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali […]

recependo dunque appieno il modello di agricoltura multifunzionale. Ai sensi di detta Legge, alle Regioni spetta di individuare e riconoscere i distretti rurali, ma anche di individuarne i compiti nonché i criteri di delimitazione e riconoscimento, ovviamente tenendo conto delle proprie strategie e dell’integrazione di questa nuova entità all’interno della propria struttura istituzionale. L’iniziale fase di entusiasmo, che ha portato 13 Regioni e province autonome all’emanazione di leggi sui distretti agricoli ai sensi del D. Lgs. 228/2001 (agroalimentari di qualità e/o rurali), si è con il tempo affievolita e ad

oggi si possono contare 30 distretti riconosciuti da 8 Regioni (TOCCACELI,

2015;FRANCO E PANCINO,2015;RRN,2017), ma poco si sa circa il loro reale

funzionamento e soprattutto efficacia.

Si rileva comunque una grande varietà di interpretazioni dei distretti rurali,

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2007; TOCCACELI, 2012). Le diverse esperienze dei distretti rurali possono

essere articolate secondo due direttrici. La prima è quella di uno strumento di azione collettiva dove soggetti privati, talvolta in stretta interazione con il pubblico, sviluppano attività riconducibili essenzialmente al branding territoriale e/o al supporto all’economia rurale mediante la produzione congiunta di servizi e lo sviluppo di reti. La seconda è quella di livello intermedio delle politiche agro-rurali-alimentari, dunque con una maggiore focalizzazione sugli aspetti istituzionali, sulla territorializzazione delle politiche (adattamento e coordinamento di strumenti di politica di matrice esterna, in primis Piani di sviluppo rurale) e/o sulla produzione di politiche ‘proprie’ anche grazie a risorse dedicate e allo sviluppo di partnership pubblico-privato sull’esempio dei contratti di programma.

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