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Noi cadorini, sone n’aurta stirpe

Capitolo 5. Sentimento di “cadorinità”

5.2 Noi cadorini, sone n’aurta stirpe

«Sone pì semplici e stason pì in pas. Sone n’autra stirpe144» (Irma e

Giovannina). Una definizione di cadorino è stata data da F. Zadra nel 1915 – come si può leggere in appendice (pag.163) – anche in relazione alla storica indipendenza governativa concessa al Cadore. I cadorini oggi - molto in generale (ovviamente senza fare di tutta l’erba un fascio) - si possono definire delle persone capaci, rispettose, laboriose e alla stesso tempo restii alla novità, un po’ diffidenti e chiuse.

Antonio Tramonte, di origini veneziane, vive a Lorenzago di Cadore da 12 anni. È molto attivo a livello sociale e dei cadorini pensa che: «hanno due grosse qualità: sono lavoratori parsimoniosi, però sono molto chiusi e questo secondo me è un gran problema, per chi viene da queste parti ha grossi problemi di confronto, su tutto». Anche Irene

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Prevedello, in base alla sua esperienza dice dei cadorini: «Sono particolari. All’inizio fanno fatica ad aprirsi e mantengono un po’ le distanze con la gente di fuori, però dopo quando impari a conoscerli sono molto disposti ad aiutarti. Forse è legato al territorio perché sono posti piccoli».

E anche tra i più giovani, Aurora De Martin mi dice:

La maggior parte delle persone sono molto chiuse qua, noto anche tra i giovani che è sempre qua il discorso, Cadore e basta. Secondo me ci teniamo tanto al nostro territorio e quindi siamo abituati a rimanere qui, a stare tra di noi, abbiamo una mentalità chiusa che a parer mio va espansa perché forse gli adulti hanno un po’ superato questa cosa, mentre noi giovani ci teniamo a far capire che noi apparteniamo a questo posto. «Ci teniamo tanto al nostro territorio e secondo me si fa fatica, per chi non ci conosce, per sentito, non ci lasciamo tanto convincere né ci spostiamo facilmente. Quindi anche su certe cose che noi ci teniamo, cambiare idea o fare delle cose nuove, preferiamo rimanere con le nostre tradizioni, conservatori» (Anna Simonetti). «Molto legati ai valori, sono un po’ timidi (che non è chiusi), sono molto operativi; c’è sempre però bisogno di una spintarella che ci sta un po’ ad arrivare ma quando arriva riescono ad essere uniti tra di loro. Sono un po’ restii alla novità ma quando scoprono il bello della novità si attivano» (Apollonio Zanderigo Rosolo). Valentino D’Ambros Rosso ritiene che:

Nei nostri territori credo che sia un po’ accentuata questa chiusura mentale legata al fatto di non muoversi più di tanto, di non aprirsi ad altre realtà, di non volersi aprire tante volte anche per paura di diventare qualcos’altro. C’è chi si ostina a volerlo ostentare ossia “vado fiero del posto dove sono, indi per questo sono montanaro”. Nella mia tesi scrivevo che uno dei passaggi per lo sviluppo di questi territori è passare anche per una nuova identità e una nuova cultura montana.

Ma come giustamente sottolinea Iolanda Da Deppo:

I cadorini sono stati dei grandi migratori, quindi presumo e immagino che questa chiusura che spesso si narra delle popolazioni di montagna sia più dovuta ad una costruzione, ad una narrazione che c’è rispetto a qualche cosa di reale; viviamo

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in un posto che ti costringe di più a vivere in casa, ad avere meno rapporti.

Quindi i cadorini sono diffidenti, un po’ chiusi, restii alla novità, però quando scoprono la novità c’è una forte partecipazione. Qui a seguire riporto due interviste: l’una che evidenzia l’entusiasmo e l’apertura alle novità; l’altra che sostiene la difficoltà verso l’innovazione. Martina Casanova Fuga organizza eventi, mostre, iniziative (per lo più legate al territorio):

[…] ogni volta che si propone qualche iniziativa (che riprende tradizioni o valorizza le tradizioni, le cose del territorio) è sorprendente la “positività” che le persone esprimono. La vicinanza delle persone, che in altri luoghi non è scontata, è una caratteristica positiva, e non è legata solo al conoscersi ma all’essere presenti agli eventi di vita. Altro aspetto positivo è che resta una terra un po’ vergine e tutto ciò che si propone è visto in modo positivo e dall’inziale paura o distacco si partecipa e si avverte il trasporto.

Francesca De Riz invece dice: «Il Cadore potrebbe offrire molto di più, dallo sport, al teatro, alle attività di montagna; le piccole iniziative ci sono in Cadore ma non sono nemmeno sfruttate a pieno dalla persona cadorina, sia per una certa diffidenza verso il nuovo, sia per un uso del tempo legato alla stagionalità».

Molte iniziative, infatti, sono programmate e realizzate nei periodi di afflusso turistico e spesso gli autoctoni, impegnati nel lavoro, fanno fatica a parteciparvi e sembra generarsi un’ulteriore condizione che ostacola la partecipazione.

C’è poi chi nel popolo cadorino si identifica, si sente appartenere alla gente cadorina più che al territorio, un esempio è Giampaolo Lozza che dice:

Io non mi considero molto legato al territorio; io potrei vivere ovunque quindi più che il Cadore in sé a me mancherebbe la gente cadorina. Trovo che abbia caratteristiche diverse da qualsiasi altra popolazione. È gente che nonostante sia un po’ chiusa è molto generosa e sempre disposta a dare una mano nei momenti difficili, e nel momento difficile dà il meglio di sé.

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I cadorini manifestano una difficoltà nelle relazioni sociale ma «se tu chiedi il cadorino ti dà, basta guardare i numeri del volontariato, le persone impegnate nell’aiutare gratuitamente e se perdiamo anche questo in Cadore finiamo male» (Giovanni Giacomelli).