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Don Camalèo: una satira tra le righe

2. L' INTERVENTISMO POLITICO CULTURALE DEGLI ANNI V ENTI

2.4. Don Camalèo: una satira tra le righe

La pratica dello “scrivere tra le righe” ebbe in queste opere i suoi passi iniziali, e legittimò l'autore a rivendicare una posizione di critica e di opposizione al regime nel dopoguerra, quando diventò inderogabile per gli scrittori rendere conto della loro condotta nei confronti della dittatura. Allora potè sfoderare il suo romanzo Don Camalèo98 come uno spietato ritratto del duce e del fascismo pubblicato nel bel

mezzo dell'instaurazione del regime, sebbene quest'opera fosse stata scritta «contro la politica del duce, ma non contro il fascismo99», esprimendo cioè piuttosto la

posizione antigovernativa e antimussoliniana di Malaparte, e non una sua critica al fascismo tout court. L'opera fu pubblicata a puntate su «La Chiosa di Genova» tra il luglio del 1926 e il febbraio del 1927 (in tutto 34 numeri, corrispondenti a circa la metà dell'attuale romanzo), con il sottotitolo Ho allevato un camaleonte100, ma la

pubblicazione venne sospesa prima della fine. Anche l'edizione per la casa editrice La Voce, curata da Longanesi, non ebbe seguito, e uscì nella versione integrale solo 97 Memoriale 1946, in MAL II, p. 218-219. E continua: «Ma qui debbo avvertire che io non mi

proponevo affatto di fare dell'antifascismo politico. Ero semplicemente, e sono, e sarò sempre uno spirito libero, non uno scrittore cortigiano come ce n'erano e ce ne sono tanti. Sotto la dittatura fascista era praticamente impossibile fare dell'antifascismo politico, se non in una maniera clandestina; la letteratura non può mai essere, per natura, clandestina. […] Il pretendere che gli scrittori italiani sotto la dittatura fascista, pubblicassero in Italia dei libri antifascisti, è assurdo e disonesto. Com'è assurdo e disonesto pretendere che gli scrittori italiani smettessero di scrivere. La sincerità e l'onestà di uno scrittore, in un paese senza libertà, si misura da quel che egli riesce a far capire, e a far leggere fra le righe. Non si può pretendere altro da uno scrittore» (ibidem).

98 Da ciò che afferma Malaparte, il romanzo fu concepito su iniziativa di Piero Gobetti, che

avrebbe dovuto esserne l'editore se le violenze subite per mano fascista non l'avessero ucciso prima che Malaparte potesse terminare il manoscritto. Non sappiamo quanto ciò corrisponda a verità, perché nelle lettere non c'è accenno al fatto che tale romanzo sia stato ispirato e composto per Gobetti, ma nell'edizione completa del 1946 compare una dedica a lui che recita: «All'affettuosa memoria di Piero Gobetti che di Don Camalèo ebbe primo l'idea e a cui la morte negò di esserne l'editore» (DC, p. 112).

99 G. P

ARDINI, Curzio Malaparte. Biografia politica, cit., p. 193.

100 E non, come afferma Malaparte, nel 1928: nel fondo custodito presso la Biblioteca di via

Senato a Milano vi sono le copie della pubblicazione di Don Camalèo su «La Chiosa» in 28 numeri lungo l'arco temporale che va dal 1 luglio 1926 al 13 gennaio 1927. Sono presenti delle correzioni a penna e matita rossa, che forse risalgono alla fase di rielaborazione in vista della pubblicazione del 1946 (faldone 75).

nel dopoguerra (1946), con una premessa intitolata Storia di un manoscritto, la quale, nello stile dell'autore101, ripercorre le tappe di composizione dell'opera e le

motivazioni, scagliandosi contro coloro che «si adoprano oggi con ogni mezzo a dar credito alla stolta e malvagia leggenda che tutta la letteratura italiana di quei tristi anni sia una letteratura cortigiana e servile102».

Al di là del contenuto storico-politico legato alla diretta attualità, vi è un'analisi del costume politico della nazione italiana, il camaleonte si rivela alla fine non solo alter ego del duce, quanto allegoria dell'eterno trasformismo italiano:

E se ad alcuni parrà che questo mio libro sia attualissimo, rispondo che è attualissimo: e che non è colpa mia se la storia d'Italia è sempre quella, se i personaggi della commedia politica italiana son sempre gli stessi, se Don Camalèo, più che una creatura della mia fantasia, è una maschera eterna della vita italiana103.

Il narratore è lo stesso Malaparte, che racconta di aver avuto in affidamento da Mussolini un piccolo camaleonte, «animale politico» per eccellenza, per educarlo e insegnarli a vivere tra gli uomini. Malaparte inizia l'istruzione dell'animale insieme al bibliotecario Sebastiano, intellettuale umanista e uomo di virtù. Il camaleonte ha un modo curioso di imparare: come con i colori, gli basta accovacciarsi su un libro per acquisirne immediatamente per imitazione il contenuto; impara così anche a parlare. L'educazione del camaleonte passa attraverso un'iniziale formazione umanistica improntata alla virtù e alla moralità (dai favolisti greci, Esopo, Fedro, poi Firenzuola, La Fontaine), equilibrata con letture “libertine” (abate Casti, Rabelais, Aretino), e soprattutto inizia a girare per Roma, dove diventa l'attrazione sulla bocca di tutti.

Alla fine, l'animale decide di stare dalla parte del Governo d'Ottobre, instaurato nel 1922, dunque di Mussolini, fino ad assumere la posizione più 101 È tipico dell'autore far precedere i suoi scritti da premesse nelle quali contestualizza la

loro composizione, e ne chiarisce le motivazioni, come si è visto fin dalla sua prima opera. Sono ricostruzioni a posteriori variamente mescolate di realtà e finzione, in cui emerge l'intenzione di dare un'immagine di sé come uomo e scrittore libero e indipendente, quando non direttamente antifascista, che non corrisponde del tutto al contegno da lui tenuto nel corso della sua vita. Il rapporto con il fascismo, anche dopo il confino e il distacco dalla politica attiva, fu piuttosto ambiguo, pur dovendogli riconoscere in ogni caso doti di coraggio intellettuale, indipendenza critica e autonomia, che molti suoi colleghi non ebbero.

rivoluzionaria, a fianco delle camicie nere, di cui riesce ad accattivarsi l'appoggio e le simpatie. Frequenta riunioni di partito, feste, cerimonie, mentre il Sofotetro, capo dell'opposizione (il rappresentante del politico tradizionale ottocentesco, liberale e costituzionalista), si lancia in campagne diffamatorie e denigratorie sul conto dell'animale. Giunta l'ora di difendersi, Malaparte gli assegna come segretario personale il Dottor Libero, «nome che in italiano ha molti significati, tranne quello di libero», un esperto dell'ambiente politico e trasformista romano: la sua caratteristica principale è l'ipocrisia, che convive con una certa dose di ingenuità. Alla fine si rivelerà un gesuita al servizio della Chiesa104.

Dopo aver preso il battesimo col nome di Don Camalèo, il piccolo animale è pronto a dare battaglia nel nome dell'intransigenza rivoluzionaria, ricalcando dunque le posizioni che aveva assunto lo stesso Malaparte all'interno del fascismo, e ottenendo un crescente favore popolare. Ciò convince Mussolini a usarlo come strumento della sua politica, per spaventare e screditare i suoi avversari e per tenere a bada anche i suoi sostenitori, “cortigiani” sempre pronti al tradimento. Quando Don Camalèo viene eletto in Parlamento emerge tutta l'ambiguità della “rivoluzione” fascista: Mussolini è salito al potere con il programma di rivoluzionare lo Stato, ma entrando in Parlamento la rivoluzione si è assoggettata alle regole costituzionali che essa stessa rifiuta e vorrebbe distruggere. Durante la discussione parlamentare sulla riforma dello Statuto, base giuridica dello Stato, la situazione di ambiguità viene denunciata da Don Camalèo, che avverte che la Riforma è necessaria «per immettere la rivoluzione nello Stato105». Mussolini è ben conscio di ciò, ha già deciso di

riformare lo Statuto, ma vuole salvare la forma della discussione parlamentare e non avere la responsabilità della rottura della legalità; Don Camalèo è dunque solo l'attore utile a recitare, contro i liberali schierati a difesa dello Statuto, la parte delle ragioni della rivoluzione.

104 Il nome stesso rieccheggia quelli dati nel Medioevo ai Padri della Chiesa: il «dottor

Sottile» (Duns Scoto), il «Dottor Angelicus» (Bernardo di Chiaravalle), il «Dottor Mellifluo» (Tommaso d'Aquino). Don Camalèo finirà per rimanere vittima delle macchinazioni del Dottor Libero, che gli rifila sottobanco dei testi religiosi (Introduction a la vie devote di Francois de Sales, e l'Imitazione di Cristo di Tommaso de Kempis, che Malaparte e Sebastiano avevano messo tra i libri proibiti), inculcandogli la convinzione di essere il salvatore della patria, il “messia”.

Il camaleonte, nel suo discorso, si proclama il rappresentante della nuova specie di italiani portati alla ribalta dalla Rivoluzione d'Ottobre, e destinati a compiere il Risorgimento tradito nel 1860 e nel 1870, a continuare l'opera di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi. Quest'«Italia a quattro zampe» è la reincarnazione dello spirito della Rivoluzione ora portata avanti dal fascismo, e Don Camalèo arriva a dichiararsi il più fedele interprete del pensiero di Mussolini, anzi «il simulacro di Mussolini, lo spettro della sua coscienza, il suo aspetto segreto»106. Si proclama il

dorùforema di Mussolini: «colui che sulla scena accompagnava gli eroi della tragedia greca, ne ispirava i gesti, le voci, gli accenti, impersonava la loro coscienza sotterranea, il loro io plutonico107». Alla fine Mussolini può dichiarare: «Egli è la

rivoluzione, io sono l'ordine. Ora giudicate, e scegliete108». In questo modo l'autore

sigilla la consapevolezza della strumentalizzazione del fascismo rivoluzionario. La «confessione» del camaleonte era il preludio all'ultimo gesto della sua vita: convinto dal Dottor Libero di essere stato investito dalla Divina Provvidenza della missione di “salvare l'Italia”, finisce con il rimanere schiacciato nella calca della Basilica di San Pietro dopo essersi proclamato Cristo, durante la celebrazione del Giubileo.

Un elemento su cui soffermarsi brevemente, poiché avremo modo di approfondirlo in seguito, è il tema dei rapporti tra uomini e animali sollevato dal camaleonte nel suo discorso. Affermando quanto vi era di bestiale in Mussolini e nel popolo italiano, il camaleonte, secondo Malaparte, aveva instillato negli uditori un orrore e una paura arcaici:

La confessione di Don Camalèo aveva senza dubbio risvegliato nell'animo della sbigottita assemblea quell'inconscia gelosia. E rivelando quel che di animalesco, di

106 DC, pp. 322-323. E continua poco dopo, con parole che sembrano quasi una autodifesa

dell'autore, perennemente tacciato di camaleontismo: «Qual superficialissima razza d'uomini son gli italiani, che giudicano tutto dalla pelle, e non vanno mai dentro alle cose, non scendono mai in fondo alle cose, paghi di guardarle e di giudicarle dal di fuori; che non si arrischiano mai, o per viltà, o per vanità, o per orgoglio, a scavarle,a penetrarle, accontentandosi di quel che i loro occhi vedono, e rifiutandosi di ascoltare le voci che salgono dall'antro profondo, dall'oscuro abisso delle loro viscere! […] Quando vi farete animo a intendere che le vere azioni degli uomini nin sono quelle che apaiono agli occhi, ma quelle che si svolgono nel mondo inesplorato della loro coscienza?» (Ivi, p. 323).

bestiale, è mischiato, nel profondo, inesplorato antro della coscienza dell'uomo, ai sentimenti più propriamente umani, aveva fatto incombere sull'assemblea il senso di una oscura minaccia, […] quell'oscuro pericolo, quell'incombere di inevitabili, orrende sciagure, annunziati da quella bocca, da quell'essere deforme, da quella specie di lucertola, avevano gettato sull'assemblea la nera ombra di un superstizioso terrore. Lo spettro della tirannia, evocato da quel profeta bestiale, era là, seduto sul suo alto seggio: e non era lo spettro di un uomo, ma di una bestia, un orrendo mostro dalla testa di lucertola!109

Il brano fa riferimento a un tempo arcaico in cui animali e uomini vivevano insieme in una sorta di promiscuità primigenia, prima che l'uomo se ne separasse con «orrore». Il tema del rapporto tra uomini e animali, che fa capolino in questo romanzo, sarà una costante della letteratura del Malaparte maturo, e assumerà una straordinaria importanza in Kaputt, a partire dagli stessi titoli dei capitoli del romanzo, che prendono il nome di animali (I cavalli, I topi, Gli uccelli, I cani, Le mosche). Istintivi ed innocenti, gli animali diventeranno la rappresentazione di ciò che di più “umano” vi è nell'uomo: l'essere umano sarà inteso come un animale degradato dalla ragione.

In Don Camalèo Malaparte riversò, con ironia sottile e calibrata, il suo malcontento e la sua posizione sugli eventi contemporanei: era consapevole del ruolo strumentale che aveva svolto il fascismo rivoluzionario, di cui era stato uno dei maggiori teorici, nel gioco di potere mussoliniano, e con questo romanzo, travestito da favola satirica, non esitò a rendere pubblico il suo punto di vista. La satira si serve di un'ironia tagliente e sottile per colpire i principali bersagli dell'autore: il duce e la sua politica reazionaria, la Chiesa, l'eroismo retorico della propaganda fascista. L'ironia è il mezzo attraverso il quale egli, che pure era un “attore” delle vicende politiche contemporanee, frequentando quegli stessi ambienti che biasimava, diventa osservatore distaccato degli eventi, condizione necessaria per conservare, anche stando all'interno, libertà e autonomia di giudizio. L'autore inizia in questo periodo a costruire un “se stesso” letterario che non può essere ricondotto alla mera biografia, un personaggio dotato di ironia, sarcasmo, arguzia, cultura, che nelle opere future ne faranno l'osservatore distaccato degli eventi, sempre accanto ai protagonisti della Storia e nella storia. Questo ruolo di osservatore e di testimone sembra delinearsi 109 Ivi, pp. 338-339.

nella metafora dello “stare alla finestra”:

Quando entrarono in Roma, nell'ottobre del 1922, le Bande Nere di Mussolini […] Ero affacciato alla finestra a guardarli passare in trionfo per le strade di Roma imbandierate: e rimasi alla finestra tutto quel giorno, rammaricandomi in cuor mio di non poterci stare tutta la vita. Né allora né poi mi è mai venuto in testa di lamentarmi della mia fortuna: quello di stare alla finestra è stato il primo ed unico beneficio che io abbia ricevuto dalla rivoluzione di Mussolini […]110.

Questo non è un passo autobiografico, poiché Malaparte si trovava in realtà a Firenze, e anche se non partecipò alla Marcia su Roma, era già iscritto al Partito e si adoperava nella città fiorentina per la riuscita del colpo di mano. È chiaro l'intento di costruzione di una identità letteraria, soprattutto a partire dall'allontanamento dalla politica e una più decisa adesione all'impegno artistico, che si sviluppa proprio in questi anni, e di cui le opere strapaesane sono un primo, originale, tassello.

3. L

A RICERCA ESPRESSIVA DEGLI ANNI

T

RENTA TRA GIORNALISMO E