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Il sole è cieco e le corrispondenze di guerra

4. I L LUNGO VIAGGIO NELL 'E UROPA IN GUERRA

4.1. Il sole è cieco e le corrispondenze di guerra

È opportuno ricordare, prima di ogni analisi della produzione giornalistica e letteraria di questo periodo, che il controllo e la censura sulla stampa, con lo scoppio della guerra, divennero ancora più opprimenti e pervasivi. Le corrispondenze di guerra dovevano dapprima essere autorizzate dalla censura militare, poi da quella ministeriale, e infine subivano tagli e aggiustamenti anche in redazione1. Malaparte si

lamentò più di una volta di questa situazione2.

Nel giugno 1940, poco prima della pubblicazione di Donna come me, Curzio Malaparte fu richiamato in servizio nel 5° Battaglione Alpini, schierato sulle Alpi in attesa dell'ordine di attacco, in quella che sarà chiamata «la battaglia del Monte Bianco» (21-25 giugno 1940). Egli, però, non voleva combattere3: la Francia era per

lui una seconda patria, per la quale si era arruolato volontario a sedici anni nel 1914. Chiese e ottenne, perciò, di essere accreditato come inviato speciale per il quotidiano milanese, e riuscì ad avere anche un secondo contratto per il «Tempo». Malaparte scrisse quattro articoli sulla guerra in Francia per il «Corriere della Sera», e altri scritti furono pubblicati su altri giornali4; queste corrispondenze costituiscono il

1 Si rimanda a P. A

LLOTTI, Giornalisti di regime. La stamoa italiana tra fascismo e antifascismo (1922-1948), Roma, Carocci editore, 2012, pp. 131-144.

2 In una lettera a Mauri, responsabile della sede romana del «Corriere», del 20 giugno 1941,

da Bucarest, Malaparte è molto seccato della censura subita da un suo articolo in cui descriveva la situazione al confine russo-ucraino, alla vigilia dell'operazione Barbarossa: «Ho mandato già due articoli ma il primo sembra che non andasse, perché la cosa era detta troppo chiaramente: ma come fo a indovinare le istruzioni date in Italia alla stampa, se non me ne informano? E poi, non è facile far del colore, astraendo da tutto ciò che si vede. Non posso far del colore su Messina, se ci capito proprio il giorno del terremoto, astraendo dal terremoto!» (Archivio storico del Corriere della Sera, Carteggio personaggi (società o enti), fasc. 662C, «Malaparte Curzio», in E. R. LAFORGIA, Malaparte scrittore di guerra, Firenze,

Vallecchi, 2011, p. 54).

3 Come scrive in un articolo dal fronte di Leningrado, egli non si trova lì «per combattere, ma

per osservar da vicino, e narrare [...] per guardare oltre il parapetto della trincea» ( C. MALAPARTE, Davanti a Leningrado, «Corriere della Sera» 5 aprile 1942).

4 Sono: La Battaglia del Monte Bianco (7 luglio 1940); A colpi di cannone in mezzo alla

tormenta (9 luglio 1940). Altri due scritti, L'accampamento e La notte è una bestia, furono

pubblicati in settembre, lasciando da parte la cronaca delle battaglie per una descrizione che indugia sugli aspetti sociali, sulla vita quotidiana delle truppe. Altri scritti furono: In Savoia

nucleo generativo del romanzo Il sole è cieco, ne contengono gli episodi, i fatti, i personaggi, alcuni dei temi principali, come quello della singolarità della guerra di montagna. Interi passi degli articoli confluirono nell'opera in composizione fin dal luglio del 1940: si trattava di un «romanzo breve», sulla guerra e sugli Alpini: «un episodio di fantasia sulla trama vera, verissima, esattissima, della nostra offensiva alpina», con circa sessanta fotografie scattate da lui stesso e intercalate nel volume; il titolo sarebbe stato Un occhio in Francia5.

L'opera ebbe una vicenda editoriale un po' travagliata: senza ripetere una questione già ricostruita più dettagliatamente da altri studiosi6, comparve a puntate su

«Tempo», dal 2 gennaio al 27 marzo del 1941, ma fu interrotta. Tra ritardi, insistenze, assenze, e varie proposte di titoli – prima È in fondo all'uomo, poi Morte perché7 (che gli sembrava «più malapartiano, e più misterioso8»),– l'opera comparve

solo nel 1947 per Vallecchi, con il titolo Il sole è cieco, e il solito intervento paratestuale con la funzione di ricontestualizzazione nella mutata atmosfera del dopoguerra. L'edizione del 1947 riprende il testo della rivista, con una differente articolazione dei capitoli, che sono sedici e senza significative varianti.

Il racconto in terza persona ruota intorno alle figure del Capitano, un ufficiale di collegamento, senza nome, ma facilmente vi si può riconoscere lo stesso Malaparte9, un uomo solitario, dal viso pallido e spento, dagli «occhi opachi,

con gli Alpini, censurato per il «Corriere», uscì su «Oggi» (14 settembre 1940), dove fu pubblicato anche Diario di guerra sulle Alpi, che contiene la descrizione delle operazioni (7 settembre 1940); Segreti degli Alpini, che conteneva due aneddoti buffi e divertenti sui soldati (come quelli che scrisse, giovanissimo, dalle trincee della Grande guerra), uscì su «Fronte. Giornale del soldato» (12 settembre 1940).

5 Lettera ad Arnoldo Mondadori del 20 luglio 1940, in MAL V, p. 279.

6 La ricostruzione della vicenda compositiva ed editoriale del libro è in E. L

AFORGIA, Malaparte scrittore di guerra, cit., pp. 113-139; Luigi Martellini ha ricostruito le varie stesure e

le varianti nel suo studio: Comete di ghiaccio, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2003.

7 Il primo fu proposto in una lettera ad Arnoldo Mondadori del 22 novembre 1942, al posto de

Il sole è cieco, che non gli era mai piaciuto (vd. Lettera a Mondadori del 22 novembre 1942,

in E. R. LAFORGIA, Malaparte scrittore di guerra, cit., p. 213). Il secondo comparve in un'altra

lettera sempre a Mondadori, del 12 febbraio 1943 (in MAL VI, p. 321).

8 Ibidem.

9 Dalla proposta di concessione della Croce di guerra al valore militare possiamo apprendere

che Malaparte era Capitano di Complemento, come il protagonista del racconto: «Il Capitano di complemento Malaparte Curzio [...] incurante sia dei gravi disagi fisici causati dall'imperversare del maltempo sia del tiro di artiglieria nemico, [...] mi diede tutta la sua devota ed intelligente collaborazione, senza soste né di giorno né di notte [...] diede altresì valida cooperazione alla raccolta delle informazioni ed al funzionamento dei collegamenti e,

dolcissimi, assorti come occhi di bambino che pensa a una sua pena segreta10»; e di

Calusia, un alpino del Battaglione Edolo, incarnazione dello spirito contadino bonario e paziente, legato alla terra come una pianta, dotato di un istinto e di una mansuetudine che lo rendono più simile a una bestia che a un uomo. Segno distintivo del soldato è un campanaccio di bronzo, di quelli che si mettono intorno al collo delle mucche, indizio sonoro della sua presenza per tutto il romanzo: «un suono di campano dolce e profondo, come una mucca smarrita nella tormenta11».

Il Capitano incontra spesso questo soldato, che gli appare sempre prima come «un'ombra incerta12», «un'ombra che scivola tra gli alberi13». Questo alpino è più a

suo agio con gli animali che con gli uomini: il Capitano lo vide per la prima volta in mezzo a una mandria di mucche, il soldato camminava con un braccio intorno a una di queste, «come se andasse a spasso con la ragazza». Poi lo aveva visto, ricoperto di campanacci infilati nelle braccia, nel collo, nelle spalle, fare uno strepito incredibile, parendogli forse «d'essere non una mucca, ma un'intera mandria14». Un'altra volta lo

aveva sorpreso a fare il bagno nel torrente, nudo, insieme a una mucca, e stendersi al sole quasi sotto al ventre dell'animale, accarezzargli le mammelle, sorridendo «di gioia, un sorriso ineffabile, quasi severo15»: una scena d'idillio e di estasi panica e

sensuale, un ritorno dell'uomo all'innocenza e alla purezza primigenia, in un bosco risvegliato dalla primavera, annunciata dall'acqua «con la sua voce di donna, il suo odore di carne, il suo colore di latte», dall'«erba tenerissima», dalle «gigantesche viole» che «parevan di carne16».

Il «dramma della guerra inutile» diventa in quest'opera «spettacolo surreale17»

nemica, incurante di ogni rischio personale» (MAL V, p. 231). Anche il Capitano de Il sole è

cieco è descritto come un «gran bell'ufficiale», che instancabilmente aveva fatto in su e in

giù per la montagna a portare ordini, informazioni e raccogliere i feriti (SOL, p. 461).

10 SOL, p. 340. 11 Ivi, p. 343. 12 Ivi, p. 342.

13 Ivi, p. 354. Ancora una volta compare il lemma «ombra», come già in molti altri scritti e

come sarà sempre più frequente successivamente, insieme agli altri analoghi «spettri», «maschere», «larve», «riflesso»: la realtà si apre a una doppia dimensione – e oltre – le cose non sono mai solo ciò che appaiono davanti agli occhi ma sono sempre suscettibili di essere 'altro', di racchiudere 'altro'.

14 Ivi, p. 344. 15 Ivi, p. 347. 16 Ivi, p. 346. 17 G. G

e onirico: le cose sembrano perdere il loro ordine umano e razionale. Oggetto- simbolo iniziale e finale dello straniamento causato dalla guerra è la panchina che il Capitano trova, a quasi tremila metri, sul Col de la Seigne: una «panchina solitaria, pigra, malinconica», presente in ogni cittadina all'ombra di un platano, testimonianza di provinciale «ordine antico e nobile18». In mezzo alle granate diventa «un oggetto

ironico», «un invito al riposo19», il simbolo di un rifiuto, di una protesta, la conferma

dell'insensatezza della guerra.

Nella prima parte del racconto (capp. I-VII), il Capitano si muove da un battaglione all'altro, portando notizie e ordini, seguendo la marcia delle truppe: non ci sono scontri, la guerra sembra non essere mai iniziata («E così parlano di questo e di quello, come se non ci fosse la guerra, come se la guerra non fosse affar loro, finché si mettono a raccontare della caccia al camoscio20»). Egli si muove con

indolente rassegnazione, preso da un suo interiore e misterioso travaglio, soprattutto di notte, nella «solitudine abbagliante», nel «buio bianco21» della notte alpina

«impassibile, fredda e liscia come una maniglia di ottone22»; un qualcosa di

misterioso, di ignoto sembra stare nelle cose, nel paesaggio, un qualcosa di quasi ostile nella sua impassibilità, nella sua indifferenza: una «luce malata» dona agli alberi e alle rocce una sembianza di metallo, i monti diventano «strane, misteriose macchine23». Il «mistero» della natura e della morte che circondano l'esistenza,

nascosto dalle forme della civiltà, e che si rivela nei momenti di lacerazione della quotidianità e della vita civile, come in guerra, era già stata embrionale rivelazione nella Rivolta, ma era data come una consapevolezza conquistata dai fanti nelle trincee che avrebbe dovuto spingerli oltre il cerchio ristretto dell'orizzonte bellico, verso una lotta di liberazione e di riscatto. Ne Il sole è cieco tutto questo non c'è più, le stesse montagne di allora non son lo stesse:

Ecco di nuovo le montagne. Dopo più di vent'anni. Non sono le montagne di quando avevo diciotto anni, nell'altra guerra. Pure, eccelse, ispirate, innocenti, pietose. Oggi

18 SOL, p. 337. 19 Ivi, p. 338. 20 Ivi, p. 354. 21 Ivi, p. 342. 22 Ivi, p. 357.

così dure, aspre, nemiche. [...] Bisogna che impari di nuovo ad abituarmi a questa idea stupida, che si può morire da un momento all'altro24.

Il tono pure è cambiato, non c'è più nessuna speranza, che pure nell'altra guerra era presente nella rabbia dei fanti e del giovane Malaparte, ma un disincanto, una triste disperazione che si esprime in moduli lirici. Sopra tutto svetta l'immenso Monte Bianco, che sembra «un livido e lucente fantasma di donna», un «terribile spettro» che «appare nel vano della finestra, a gelargli il sonno nelle vene25». Anche

Calusia avverte la minaccia del «fantasma» bianco: gli occhi dell'alpino allora hanno «un bagliore opaco, una luce strana, d'odio e di paura26», mentre mormora «Purcù»

con accento di disprezzo.

La notte è una «bestia in agguato27» che man mano si trasforma in qualcosa

di inumano, in un 'nulla' incombente, che spinge il Capitano al contatto corporeo con un mulo, nel cui calore si ritrova come in un rifugio, una protezione dall'ostile indistinto notturno; e alla fine, si addormenta stringendo al petto una pietra liscia, rotonda e dura: «sensibile certezza di essere uomo vivo nell'immenso ventre caldo della bestia in agguato28». È il paesaggio alpino a proiettare una luce strana e

ambigua sull'esistenza, un'atmosfera di sogno e di astratto mistero, continuamente scosso dalla minaccia e dal pericolo rappresentato dagli elementi naturali, in cui la guerra non è che una sofferenza ulteriore e senza significato:

Fra gli alberi rosseggiano qua e là i fuochi dei bivacchi, e giunge dal fondo della Valle di Veny come un rullo di tamburo, il suono selvaggio di un tamtam. Il bagliore violento dei fuochi quel vagar d'ombre solitarie lungo il fiume, sotto la minacciosa corona del ghiacciaio della Brenva, quei lunghi ragli sperduti, quelle voci chiamanti dal fondo della selva, l'alto rantolo e il grido dei conducenti intorno all'agonia dei muli che la colica fa stramazzare nell'erba, quell'incerto moto d'uomini d'alberi di rocce nella notte serena, esprimono il senso di una rinunzia appena intuita, il presentimento di una vita fuori del tempo. Quasi già uno sporgersi fuori di un limite, fuori di un principio, di una regola, di un ordine. Un tentar le frontiere della natura, della realtà. E forse quella vita è già d'ombre, di spettri che vagano incerti29.

24 MAL V, p. 212. 25 SOL, p. 346. 26 Ivi, p. 355.

27 Gli stessi soldati dicono: «La notte è una bestia, signor Capitano, una gran brutta

bestiaccia» (Ivi, p. 359).

28 Ivi, p. 361. 29 Ivi, pp. 371-372.

A questo passo segue la visione del Capitano Barbieri e dei suoi due cani bianchi, che giocano sulla neve nella notte bianca «danzando nella luna», simili a delle «ombre», degli «spettri», che si muovono senza toccare terra, quasi senza respirare: «come se avesse ai piedi due ali luminose, Barbieri par che voli simile a un angelo, fra i suoi cani alati30». Questa visione di sogno, davanti alla quale il

protagonista resta muto e assorto nella contemplazione, sembra anticipare la triste fine dei cani, uccisi nel corso dei successivi scontri. In tutto il romanzo, queste apparizioni d'«ombre», di «spettri», di «fantasmi» d'uomini e animali, come un «incanto» nella luce alpina, sono come un «doppio» della realtà, epifanie dell'annichilimento bellico. Il rullo di tamburo, «una specie di selvaggio tamtam nel folto della nera selva31», che si ode ogni tanto in mezzo alla selva, ricorda il «rullar

fiero e precipitoso dei tamburi di guerra, il suono triste e lento dei tam-tam degli Amara32» nelle notti africane. Un suono che sembra scandire crudelmente l'ineluttabilità della guerra («Non possiamo restare tutta la guerra a guardarci in faccia, prima o poi bisogna sparare33», dice il maggiore Loffredo).

Nella seconda parte (capitoli VIII-XVI) la guerra arriva col suo schianto mortale, descritta nel suo crudo realismo, senza nessuna retorica di «belle gesta», senza declamazioni, senza gesti eroici, senza «pittoresco»34: sembra tutto come

mosso da una successione fatale di movimenti, una dimessa rassegnazione è sui volti di tutti, dagli ufficiali agli alpini, l'accettazione di un destino inevitabile, quasi l'inconscio appellarsi a una fortuna cieca, nessun conforto religioso nell'animo degli 30 Ivi, p. 373.

31 Ivi, p. 375. 32 C. M

ALAPARTE, La notte di Bahar Dar, «Corriere della Sera», 20 agosto 1939; in ID., Viaggio in Etiopia e altri scritti africani, cit. pp. 107-108 Anche in Alba tragica di Belgrado, pubblicato

sul «Corriere della Sera» il 16 aprile 1941, in cui racconta il terribile bombardamento tedesco della città, Malaparte scrive che «l'orizzonte risuonava cupo come un selvaggio tam-tam».

33 SOL, p. 367.

34 In un brano datato 11 giugno 1940, quando lo scrittore pensava alle corrispondenze, si

legge in proposito: «Da quanti anni, da quante decine d'anni, la guerra non batteva a queste montagne? Ora è tornata quassù, e cammina, col passo lento e sicuto degli Alpini, sulle tracce di antiche guerre [...] e con gli Alpini risalgino in queste valli, a questi passi ancora ingombri di neve,le bandiere, le insegne, i nomi, le canzoni, i reggimenti che già combatterono nei secoli. Sarebbe facile, se il tempo fosse ancora propizio alla moda delle corrispondenze di guerra di un tempo, sarebbe facile far la cronaca pittoresca di queste giornate. Le canzoni, le colonne, le bandiere alle finestre dei casolari, i ragazzi sulle porte delle case, gli evviva, le canzoni. Ma questo genere di pittoresco non è nel mio gusto» (MAL

uomini coinvolti. La guerra appare un'immensa, inutile, fatica, sopra le cime dei monti, sotto un cielo terso, in un paesaggio lieto e dolce, che nasconde minaccie e insidie. Gli scontri iniziano improvvisi, segnati dagli scoppi delle granate che uccidono gli alpini e i loro muli, senza scampo; la realtà è sconvolta, risucchiata in questo inferno di piombo, di fango, di sangue, e risputata fuori sovvertita nelle sue leggi fisiche e naturali. Lo sconvolgimento è sottolineato dallo stile surrealista, improntato a un analogismo esasperato: il Monte Bianco, poco prima, è «immacolato, impassibile come un Santuario come una Madonna come una Prigione come un Ospedale […] come una tavola anatomica come una macchina da cucire una sedia elettrica una ghigliottina […]35», a un tratto «salta per aria, si solleva come un

enorme geyser, sboccia nel cielo squamoso come un mazzo di fiori gialli bianchi rossi36». I proiettili hanno una «voce» dalla quale si può riconoscerne la forma, e sono

forme animali, di oggetti, di frutta, di paesaggi:

[...] alcuni hanno la forma di una testa di cane e si avventano latrando, altri di una testa di serpente, e bucano sibilando il cielo con la verde fronte triangolare (gli occhi rotondi, fissi, la lingua forcuta saettante fuor della bocca crudele). Altri hanno la forma di oggetti, di minuti oggetti familiari, pettini, spazzole, forbici, bottiglie colme di liquido giallo, rocchetti di filo, altri la forma di un frutto, pesche, mele, albicocche, e altri di pannocchie di granoturco, altri di visi umani, altri di paesaggi, il Bisenzio a Santa Lucia, la casa del prete di Coiano, il convento di Galceti, il molo del Purgatorio a Lipari, il Castello di Sala Dingai nello Scioa [...]37

È l'intero mondo quotidiano e sentimentale, fatto di oggetti, di luoghi e di animali familiari, che l'autore riversa in questo inferno di piombo, una visione fantastica che accentua in modo tragicamente doloroso il senso di sovvertimento dei valori della vita, e sembra quasi che ogni proiettile si porti con sé la possibilità di annullamento di ogni ricordo, di ogni luogo attraversato, di ogni esperienza di conoscenza, di ogni nome imparato, di ogni più piccolo tassello dell'umile e preziosa vita quotidiana. Le descrizioni realistiche, spesso macabre, delle lacerazioni dei corpi, contenute per esempio ne La Rivolta, o nei racconti (soprattutto in Sangue), lasciano il posto a immagini meno crude, dove tutto è come avvolto in un sudario di 35 SOL, pp. 392-393.

36 Ivi, p. 394. 37 Ivi, pp. 394-395.

neve e gelo che cristallizza la morte in gesti puri, astratti, “puliti”: gli alpini cadono, con ovattato movimento, e tuffano il viso nell'erba, nella neve.

I momenti più intensi della narrazione riguardano gli animali. L'inizio della battaglia è segnato dall'esplosione di una granata che ha preso in pieno un artigliere e il suo mulo, che si trascina con le zampe spezzate, con «urlo orrendo di dolore, di amore, di furore, chiama il suo artigliere, chiama i compagni, [...] chiama gli alpini del Battaglione Edolo38». Nella lunga marcia sui ghiacciai un altro mulo che scivola e

si spezza le zampe, viene abbandonato da una parte, e leva il suo «grido lamentoso, il suo lamento deluso e disperato39», mentre si sforza di rialzarsi e di seguire la colonna,

invano, e questa sua terribile agonia viene spenta da un colpo di moschetto. Il Capitano scivola col pensiero ai muli in Africa che inciampavano e cadevano dalle scarpate, trascinandosi a volte gli ascari, sfracellandosi sul greto del fiume; ripensa agli occhi del mulo ferito mentre l'ascaro gli sparava, «la delusione, l'amore, la disperazione in quei rossi occhi obliqui40» che lo fissavano. È questa forse la

«pazzia» delle bestie a cui si allude nel racconto («Le bestie son matte» dice Calusia al Capitano), questa sofferente vicinanza, questa innocente disperata fede nell'uomo, nel suo istinto vitale.

La sofferenza degli animali è al centro di tutta la seconda parte del racconto, la loro morte in guerra diventa l'emblema del sacrificio puro e disinteressato, come quello di Pioppo, il cane del battaglione, inviato a chiedere aiuti col biglietto appeso al collo in mezzo alle granate, e morto con il petto squarciato e negli occhi velati, come in uno specchio, il paesaggio: un cane coraggioso, che «non si perde d'animo, sa quale è il suo dovere, conosce a memoria il regolamento di disciplina […] sa che un cane non deve mai tornare indietro, deve compiere il suo dovere41». E Calusia

incarna l'animale nell'uomo, ha la loro innocenza e la loro purezza: il Capitano sente