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3. L A RICERCA ESPRESSIVA DEGLI ANNI T RENTA TRA GIORNALISMO E LETTERATURA

3.2. La produzione breve degli anni Trenta

3.2.3. Sangue

Appena un anno dopo, nel 1937, Malaparte pubblica una terza raccolta edita da Enrico Vallecchi, intitolata Sangue, composta da tredici racconti, dodici dei quali già pubblicati nel «Corriere della Sera» tra il 1936 e il 193766, con un articolo

risalente al 1934, Scirocco nell'isola67, ambientato a Lipari, e un inedito, Madre che

cerca il suo bambino. Il momento era cruciale: Malaparte era stato liberato dal confino, ma aveva vissuto appartato e defilato a Forte dei Marmi, sempre sotto 64 FIP, p. XVIII.

65 Ivi, p. 5.

66 Sono, in ordine (tra parentesi la data di pubblicazione sul quotidiano milanese): Primo

sangue (23 luglio 1936); Primo amore (11 settembre 1936); Giochi davanti all'inferno (30

aprile 1937); Morte delusa (con il titolo Risveglio in riva al fiume, 31 ottobre 1936); Angoscia

di ragazzo (29 dicembre 1936); Salutami Livorno (4 luglio 1936); Città come me (14 febbraio

1937); Ippomatria (con il titolo Notturno, 20 febbraio 1937); Fedra (18 ottobre 1936); .

sorveglianza, in attesa di poter tornare alla ribalta letteraria e culturale. Grazie al sostegno di Borelli, e all'appoggio fondamentale di Ciano, al quale si deve anche l'alleggerimento del confino e la liberazione finale dello scrittore, Malaparte riuscì anche a fondare una rivista, «Prospettive», il cui primo numero uscì proprio in corrispondenza di Sangue, nel luglio 193768. Malaparte aveva preparato il suo ritorno

sulla scena letteraria con l'intenzione di sconvolgere il pubblico fin dal titolo della raccolta.

I racconti ruotano quasi tutti intorno al tema del «sangue»; nella prima prefazione alla prima edizione intitolata Confessione, spiegò la scelta di questo macabro e inquietante tema: elencando gli episodi nei quali si è trovato di fronte al sangue fin da bambino, afferma che l'«orrore del sangue e il rispetto della vita umana69» sono gli elementi fondamentali della coscienza morale del popolo italiano70,

l'esperienza attraverso la quale si può giungere alla coscienza di sé e del proprio popolo. I racconti dovevano porsi perciò in questa ottica come il frutto della sua esperienza di conoscenza e di comprensione delle «leggi misteriose del sangue», ma questa sembra essere una giustificazione moralistica che non trova del tutto riscontro nei testi, forse dovuta alla necessità di aggirare la censura più che di rispondere a una vera motivazione dell'opera.

Nei racconti, nei quali ancora si possono riconoscere le tipologie già incontrate nelle opere precedenti (autobiografia, invenzione, rilettura del mito, bozzetto) il sangue è l'elemento visivo dei movimenti più oscuri e misteriosi della coscienza umana, indagata nei suoi aspetti più inquietanti, morbosi e macabri, sconfinando nella dimensione della follia e della patologia. Giorgio Luti, infatti, 68 Si trattava di una rivista culturale di tipo monografico, ogni numero trattava un tema da

tanti punti di vista, e che non si occupò di argomenti scomodi al regime; nel 1939, dopo due anni in cui erano apparsi anche numeri molto poco edificanti (come quello sulla guerra di Spagna), la rivista cambiò formato, temi e intenzioni, e divenne una rivista quasi esclusivamente letteraria, sulla quale furono ospitati anche argomenti contemporanei poco graditi al regime (come il surrealismo e l'esistenzialismo), diventando una delle voci culturali più originali del periodo.

69 SAN, p. 39.

70 «Gli italiani sanno che il sangue è l'elemento più prezioso della natura e nell'uomo. Sanno

altresì che fra tutte le leggi, alle quali l'uomo è da natura portato a obbedire, la più misteriosa e la più severa è quella del sangue. Siamo tutti, dal più duro al più mite, schiavi di questa legge: la sola di cui siamo veramente schiavi. Il sangue è ciò che di più nostro abbiamo in noi. Nelle vene hanno radici i nostri pensieri, i nostri sogni, i nostri sentimenti e i nostri atti»

sottolinea che la specificità del libro risiede nella «capacità del narratore di cogliere il lato morboso e inquietante della parabola umana rappresentato nel suo elemento più appariscente e più impressionante: il sangue come aspetto sacrificale, come documento catartico di una sofferenza ancestrale71». Nella prefazione all'edizione del

1954, intitolata Le tracce di sangue, Malaparte si confessa in modo più intimo sul significato della raccolta, indicando nel “sangue” un elemento fondamentale della propria tragica esperienza di vita in guerra, senza più addurre spiegazioni concettuali, ma descrivendo la sua vita come un lungo inseguimento sulle tracce di sangue di un uomo che lui aveva ferito nel 191572.

La maggior parte dei racconti non subì rielaborazioni e aggiustamenti importanti; altri, invece, come si è già scritto, furono rielaborati in funzione del tema centrale: Primo sangue, il primo racconto del volume, contiene vistose integrazioni, soprattutto nel finale; in Città come me (poi ripubblicato anche in Donna come me), Malaparte descrive come dovrebbe essere una città per essere “come lui”, rispecchiamento del proprio essere, aggiungendo l'intero finale, che cambia radicalmente l'effetto del racconto. Per completare la sua città ideale inserisce un bordello («un bordello ci vuole, in una città per bene»), ma soprattutto «una macchia scura sul lastrico di qualche vicolo, o meglio ancora, in mezzo alla Piazza del Comune. Una goccia di sangue, e nessuno sapesse come c'è piovuta, chi c'è morto, e perché»73.

I racconti autobiografici, proseguendo la traccia di Fughe in prigione, sono 71 G. L

UTI, Introduzione, in SAN, p. 15. Anche i critici che recensirono l'opera sembrano

scettici di fronte all'argomentazione contenuta nella Prefazione. Arrigo Benedetti scrisse che «Malaparte ha voluto scrivere un saggio sul “sangue”, ma infine il sangue non resta che argomento di piacevole ragionamento nella prefazione. In molti capitoli del volume, si potrebbe anche non discorrerne; resterebbe tutt'al più un sottinteso. […] Queste prose hanno, sì, in apparenza di contenere una certa moralità; ma in fondo il sangue in Malaparte non rivela una moralità. Svela il suo gusto verso certe situazioni. È un fatto fantastico, di una fantasia bizzarra e piacevole» (citato in G. LUTI, Introduzione, in SAN, pp. 23-24); e Carlo Bo:

«... il libro attrae anche per l'originalità e piace perché coglie aspetti umani meno conosciuti, attimi di vita intorno ai quali pochi ricamano» (Ivi, p. 25).

72 «Continuai a seguir le tracce su per la valle, mentre sul Col di Lana si alzava la falce della

luna: e le seguii per giorni e giorni, per anni e anni, finché i miei capelli diventarono grigi. Così è trascorsa tutta la mia vita da quel lontano giorno di guerra del 1915, da quando mi misi a seguire quelle tracce di sangue […] fino al letto di morte di mio fratello, mi avevano guidato quelle lontane tracce di sangue. Tutta la vita avevo speso [...] per ritrovare mio fratello, morto» (SAN, pp. 35-36).

anch'essi divisibili nei temi dell'infanzia (Primo sangue, Primo amore, Giochi davanti all'inferno, Ippomatria), dell'adolescenza segnata dall'inquietudine e poi dalla guerra (Morte delusa, Angoscia di ragazzo, Salutami Livorno) e l'età adulta (Giugno malato). Come si può notare, i racconti autobiografici sono il gruppo più consistente della raccolta, in tutti i casi il narratore è Malaparte, eccetto che in Giugno malato, dove l'autore è nascosto dietro la figura di Paolo e la narrazione è in terza persona74.

Anche nei racconti Primo sangue, Primo amore, Giochi davanti all'Inferno sono narrati episodi dell'infanzia che hanno assunto nella memoria un valore simbolico, di iniziazione ai misteri dell'esistenza, quindi di predestinazione a un destino diverso, connessi con la scoperta del “sangue”. In Primo sangue, racconta che da bambino si sentiva circondato da «fatti misteriosi», e incalzava la sua balia con le più varie e strane domande sui misteri dell'esistenza; la balia rimase «zitta e turbata» e non rispose alla domanda quando fu ritrovato in un campo il corpo di una ragazza, con un rivo di sangue sul collo, spettinata e graffiata. Il silenzio della balia gli precluse la comprensione di quel «misteriosissimo fatto75». La curiosità del

bambino era acuita dal senso di esclusione dalla vita della natura e degli uomini, perché sentiva come se «il sangue che gli scorreva nelle vene fosse diverso da quello che scorreva nelle canne, nei giunchi, sotto la scorza degli alberi76». Il cammino della

sperimentazione porta il bambino a meditare e a confrontare il proprio sangue con quello degli altri esseri viventi: una ferita profonda nella mano lo rende «assorto e felice77», sente una «simpatia» per il sangue che non ha niente di morboso e di

sadico, ma è l'oscura consapevolezza di un legame con gli altri esseri viventi. Sono rievocati altri episodi che mettono in scena l'attrazione del bambino verso questa forza misteriosa: la vista del corpo insanguinato del sarto di Filettole ritrovato in un 74 In quest'ultimo caso, il carattere autobiografico è dato dal fatto che proprio nel momento in

cui l'autore scriveva l'articolo originale per il «Corriere della Sera» aveva appena effettuato una visita in ospedale, dove gli era stata diagnosticata la malattia di cui è affetto Paolo nel racconto, la fibro-sclerosi polmonare bilaterale (Lettera a Borelli, del 24 giugno 1936, in MAL III, p. 708); in Paolo, dunque, Malaparte ha ritratto la tristezza e angoscia della scoperta di questa sua nuova condizione di vita, ma anche la speranza e il coraggio di ribaltare la situazione in qualcosa di positivo.

75 SAN, p. 48. 76 Ivi, pp. 48-49.

fosso a Prato («quel sangue così diverso dal mio») e quella della fronte rigata dal sangue di un cane rabbioso ucciso dai barrocciai. Mettendo alla prova i suoi dubbi, egli scopre con delusione e sconforto che nelle piante non scorre il suo stesso sangue, ma un succo gommoso, incolore, debole e sciapo:

Quella forza che m'urgeva nelle tempie, quel misterioso ardore, quel succo pieno d'istinti, d'impulsi, di desiderii, se io avessi potuto trasfonderlo nelle piante, nelle erbe, negli animali, quanto più viva e umana sarebbe apparsa la natura! Gli alberi si sarebbero messi a camminare, movendo i rami come braccia78.

Questo desiderio di fusione panica, che credeva con sconforto tradito, ha la sua realizzazione con un episodio rivelatore: egli incontra un ragazzo che si trascina un cane legato al collo con una fune, un cane zoppicante, pieno di croste, con una ferita sulla coscia dalla quale colava un rigagnolo di sangue. Il cane, sentendo l'odore del sangue proveniente dalla ferita, inizia a leccargli la mano, e il ragazzo si sente invadere da una dolce stanchezza:

Io sentivo dentro il cuore una pace contenta. La natura mi aveva rivelato il suo ultimo, e più profondo, segreto, uno stesso sangue scorreva nelle vene delle piante e degli animali, c'era qualcosa di fraterno nello sguardo del cane, nella carezza delle fronde sul mio viso79.

Qui terminava la versione originale del racconto pubblicata sul giornale; nel volume Malaparte aggiunse due episodi che riaprono il finale, spezzando l'equilibrio del racconto, e aggiungendo un senso di morbosità e di macabro, legando il tema del sangue a quello del sesso: nel primo, racconta di quando sorprese due ragazze sdraiate nel prato nell'atto di accarezzarsi il ventre, ansanti, e di come questa visione lo turbò profondamente, pensando che una delle due, di cui sentiva i gemiti, stesse per morire. Allora una delle ragazze, che lo aveva visto, dopo avergli strofinato il ventre nudo in viso, iniziò a picchiarlo fino a provocargli un fiotto di sangue dal naso. Nell'altra, descrive un'altra scena perturbante in cui il garzone del macellaio, 78 Ivi, pp. 50-51.

portato un «gran pezzo di carne rossa e livida» su un muricciolo, dopo averla palpata, schiaffeggiata, sollevata e fatta cadere un po' di volte, con uno «sguardo bieco» che «pareva un assassino», inizia a infilare un lungo coltello a serramanico e a tagliarla. Mentre i ragazzi lo guardavano provando un «turbamento strano, misto di paura e di vergogna», ficcava «nella piaga le dita delle due mani, ne allargava le labbra, curvandosi a guardar la ferita80», balbettando il nome di una donna.

Giochi davanti all'inferno è una sorta di variante sul tema dell'Ode alla Sibilla cumana, con il mito della discesa da vivi nell'inferno, a partire dall'aneddoto pratese di Agenore e del suo cavallo: Agenore era un barrocciaio scomparso dopo l'atroce morte del suo cavallo, bruciato dall'acido solforico fuoriuscito da una delle damigiane che trasportava. Si raccontava che l'uomo disperato avesse seguito da vivo il suo cavallo all'inferno, attraverso una grotta vicino al fiume, di cui si narra che se ne servì anche Dante per scendere nell'Oltretomba. Anche questo racconto sembra avere un carattere iniziatico, una sorta di educazione di formazione alle dinamiche della vita, costellato da “prove di coraggio” alle quali i tre bambini, Malaparte e i suoi fratelli, vengono sottoposti, sotto le spoglie dei giochi infantili.

In Ippomatria, Malaparte mette in scena ancora una volta i ricordi dell'infanzia, che ora si cristallizzano in una visione onirica e inquietante legata alla figura materna: nel cuore della notte, mentre lo scrittore lavora nella sua stanza, a un tratto “avverte” la presenza della madre, e si posa sul tavolo una mano, bianca, pesante, enorme, immota, il resto è buio. Questo dettaglio scatena l'apparizione di un ricordo: era un bambino, e trascorreva le estati dai Baldi, pago e felice di stare nei campi tutto il giorno; vedeva la madre una volta a settimana, quando ella arrivava dai Baldi in una carrozza trainata da «due cavalli pieni di fuoco, neri e scalpitanti, dalla lunga criniera ricciuta81». Quando, giunto ottobre, Milziade Baldi lo avvisa che il

giorno dopo la madre sarebbe andata prenderlo per riportarlo in città, il piccolo Kurt si ammala, sgomento all'idea di tornare a Prato. Nella febbre delira e ha un incubo: una mano di pietra, enorme, immota, bianca si posa sul letto mentre la voce della madre lo chiama. All'improvviso la figura materna appare in tutto il suo splendore 80 Ivi, pp. 54-55.

ma con una testa di cavallo, nitrendo dolcemente e tristemente alle urla del bambino che, spaventato, vuole cacciarla: la figura materna e i cavalli si fondono in un mostro onirico. La mano è un elemento che tornerà ancora nei sogni, associata quasi sempre alla figura materna, alla paura e al terrore82.

Anche l'immagine del cavallo è forse quella dell'animale più frequente nei testi di Malaparte. In Miniera (in Fughe in prigione), dove racconta la discesa nel ventre della terra insieme ai minatori, si sofferma su un cavallino bianco, «piccolo, magro […] la bocca imbavagliata di schiuma nerastra»; «gli occhi sono morti, lattei, affondati in una larga macchia rossa83»; è cieco, procede a strattoni per non battere la

testa nelle pareti della galleria, le zampe gonfie per l'umidità. Questi cavalli trascorrono tutta la vita sottoterra a lavorare, e tornano in superficie una volta sola all'anno per quella che chiamano “Pasqua dei cavalli”, quando si rotolano nell'erba, mordono le foglie tenere, e continuano a muoversi a strattoni per l'abitudine. In Miniera, uomini e animali condividono il destino di rassegnati e umili lavoratori, minacciati costantemente dalla morte nelle viscere della terra, entrambi vittime del mondo industriale, moderno (che è poi quello che per Malaparte ha inventato la “morte meccanica” nelle nuove guerre). Come si è detto a proposito dei fanti di Caporetto, il tema dei «vinti» è uno dei fili rossi di tutta la letteratura di Malaparte: in Kaputt si allargherà appunto agli animali e ai bambini, considerati le più alte incarnazioni dell'innocenza e della purezza, contro cui si scaglia l'insensatezza della crudeltà degli uomini. I cavalli sono una presenza costante degli scenari di guerra, e 82 Come ha notato Martellini, la troviamo n Diario di uno straniero a Parigi, dove confessa di

aver fatto un sogno che si ripete da molti anni, e cioè la madre che entra nella sua stanza, di notte, e gli dice di smettere di lavorare e andare a letto, lasciando sullo scrittoio la sua mano bianca, che lui getta dalla finestra, concludendo: «Ho paura di questo sogno, mi porta disgrazia». Anche in Mamma marcia vi è un passo in cui la parola “mano” ricorre insistentemente, sempre associata alla madre; e infine in Maledetti Toscani lo scrittore racconta del ritrovamento di una piccola mano di donna in una balla di cenci dove, bambino, frugava per gioco insieme ai compagni. Allora, narra di aver portato la mano a casa e di averla nascosta nel guanciale, e nella notte sognò che la mano si muoveva e tentava di soffocarlo, svegliandolo. L'arrivo pronto dei balii salva il ragazzino, con Eugenia che getta la mano nell'orto, dove sarà divorata dalle formiche. Martellini conclude così: «Pagine che legano simbologie oniriche di paura e di luttuosi presagi all'angoscia di tutta la sua vita, al suo non-essere mai stato felice e, infine, al fantasma della madre la quale, nelle metamorfosi del cavallo, oniricamente è associata all'incubo e assume psicanaliticamente il significato di morte (accanto a quella di donna-principio materno originario: donna-giumenta, in una sorta di ambiguità demoniaca): un animale psichico insomma. (L. MARTELLINI, Malaparte narratore,

in ID., Il labirinto delle scritture, cit., p. 154).

in essi Malaparte vede simbolicamente la «purezza», la «nobiltà», una libertà fiera, tutto ciò che l'Europa sembra aver perduto inesorabilmente.

Nei racconti d'invenzione, soprattutto in Un giorno felice (che rappresenta secondo Luti «il massimo tentativo di uscire dallo spazio della memoria evocativa, verso il racconto in terza persona84»), Malaparte accentua l'elemento macabro e

crudele, con risvolti psicanalitici. Anche Un giorno felice presenta dei cambiamenti rispetto alla versione sul quotidiano: innanzitutto, il nome del protagonista è nel libro cavaliere Bonfanti, mentre nell'articolo era il cavaliere Demetrio, col solo nome di battesimo; poi vi sono per tutto il testo delle brevi parti aggiunte, che vanno soprattutto nella direzione di conferire una maggiore profondità psicologica al protagonista, e di inserire delle spie della nevrosi latente; vi è poi, come già detto precedentemente, l'interpolazione dell'articolo Carattere dei Romani, quando il cavaliere Bonfanti si reca in una osteria della capitale. Da quel punto in poi tutto il lungo finale è stato aggiunto per l'edizione del volume, fino al macabro finale con la crudelissima e scioccante descrizione dell'uccisione del gatto.

Il cavaliere Bonfante è un impiegato del Catasto, descritto come un uomo ligio al proprio dovere, che non ha mai perso un giorno d'ufficio, preciso, monotono, abitudinario, che vive da solo con una governante. Una mattina si sveglia tardi, e decide di non andare a lavoro ma di vedere finalmente la vita della città di Roma. Incontra dapprima un gruppo di Balilla, e prima un ragazzo, poi un ufficiale rispondono con voce sprezzante e provocatoria a una semplice domanda. Poi si imbatte in un gruppo di soldati di fanteria, che richiama alla memoria la sua frustrazione per non essere stato in guerra, essendo stato riformato per l'ernia («A quel che pareva, non era poi così difficile diventare un eroe85», con tono sottilmente

polemico verso il regime); infine incontra un gruppo di soldati fascisti di ritorno dall'Africa, acclamati dalla folla, e facendosi prendere da un impeto di patriottismo inizia a urlare «Viva l'Italia!» in mezzo alla gente, che lo guarda divertita e stupita. Dietro la tranquilla contemplazione della vita cittadina, si scorgono i segnali di una inquietudine e di una frustrazione interiore covata da anni: «Il Cav. Bonfante 84 G. L

si sentiva sconvolgere da un sentimento oscuro e remoto86», inizia a pensare alla sua

vita d'ufficio, chiuso tutto il giorno in una stanza mentre fuori la vita d'ogni giorno scorreva festante, in un'Italia bella e sincera, spontanea e giovane, ch'era a lui preclusa; gli sembra che tutti siano felici eccetto lui. Confessa questi pensieri a un gruppo di operai, riunitisi intorno al suo tavolo in osteria, attirati dall'ilarità ebbra dell'impiegato, che li invidia in quanto “classe sociale” coesa, solidale, felice. La situazione però ben presto degenera, all'impiegato «luccicavano gli occhi, aveva la fronte rossa e sudata», «inciampava nelle parole, faceva strane smorfie con la bocca87», fino ad autoumilarsi in pubblico inghiottendo una bandierina tricolore di

carta fin quasi a strozzarsi. Le mogli e i bambini sono sempre più spaventati, mentre l'oste, scocciato del baccano e convinto che sia una spia, lo caccia dall'osteria in malo modo. A questo punto gli operai e le loro famiglie si prendono cura del povero cavaliere, e decidono di andare tutti insieme a casa.

Il Cavaliere deluso e infelice – anche il solo gesto di libertà che gli sembra di