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Realtà e invenzione, il "realismo magico" di Kaputt

4. I L LUNGO VIAGGIO NELL 'E UROPA IN GUERRA

4.3. L'«allegro e crudele» Kaputt

4.3.2. Realtà e invenzione, il "realismo magico" di Kaputt

La storia della composizione del romanzo indica che la base della finzione romanzesca è la realtà dei fatti della guerra: la maggior parte degli episodi, degli incontri, delle cose raccontate hanno un fondamento reale. È dunque un'esperienza

autobiografica, ma ciò che sembra testimonianza in presa diretta è una ricostruzione mediata da filtri letterari, artistici, filosofici, che ne rivelano la natura di artificio letterario:

Sia i resoconti legati all'attualità, sia le raccolte di racconti o i romanzi, si presentano quasi sempre, in Malaparte, saldamente ancorati all'immediatezza dell'evento, della situazione o dell'incontro, che occore 'registrare' senza 'filtro' alcuno. Ciò che sembra 'testimonianza' diretta è tuttavia, assai spesso, attenta e sapiente 'costruzione', effettuata attraverso un ampio spettro di riferimenti eruditi, di citazioni mascherate e talora difficili da decifrare109.

Non solo, gli stessi fatti narrati sono costruiti, come si è detto, in forma di “scene” paradigmatiche, incastro di realtà e invenzione, “montate” dallo scrittore, allo scopo di “dire” qualcos'altro oltre la loro apparenza concreta, di mostrare il significato nascosto sotto la realtà empirica. Allo stesso scopo concorre lo stile dell'opera, quello che altrove si è definito “realismo magico”, intendendo con ciò, con le parole di Malaparte, non un'«arte intesa a meravigliare», ma a «ricreare la realtà, a interpretare magicamente la realtà». Nella sua concezione espressiva, egli univa le nuove suggestioni del surrealismo all'influenza del barocco che, coltivata attraverso la lettura fin dalla fine della prima guerra, ha nutrito la vena grottesca, visionaria e “spettacolare” della sua scrittura. Del surrealismo rifiutava però l'automatismo psichico e onirico, «la meccanica freudiana del subcosciente110», per

un'arte che invece mettesse in mostra come le cose siano immerse in una fitta trama di corrispondenze e di richiami, come la realtà sia continuamente 'teatro' di eventi inverosimili, di paradossi e rovesciamenti.

Attraverso uno stile realistico continuamente tendente al fantastico e all'onirico da una parte, e al grottesco e al macabro dall'altra, Malaparte descrive un mondo in cui il reale è sempre sovrastato dal possibile, in cui le cose non sono ciò che appaiono: metafore, iperboli, analogie, ossimori, tutto un repertorio retorico è sapientemente utilizzato per ri-creare la realtà della guerra facendone emergere tutto l'orrore e l'assurdità. La mimesi realistica è spesso violata per produrre un “potenziamento del vero”, che provoca un effetto di choc che disorienta e sconcerta il 109 A.O

RSUCCI, Il giocoliere d'idee, cit., p.19.

110 C. M

lettore, e allo stesso tempo mette in luce la verità che sta al fondo degli eventi narrati. Un esempio dello stile di Kaputt è la descrizione del pogrom di Jassy, in Moldavia, che Malaparte racconta nel corso del pranzo presso il governatore tedesco di Varsavia Fischer. Tutto il capitolo, I topi di Jassy, è inscritto nel segno di un'atmosfera carica di funesti presagi e di inquietudine: il cielo carico di nere nubi «gracidava sommesso come un pantano111»; densi sciami di mosche avevano invaso

le strade; egli sente che «una enorme, massiccia, mostruosa sciagura, oliata, lucidata, messa a punto come una macchina di acciaio, stava per stritolare nei suoi ingranaggi le case, gli alberi, le strade, gli abianti di Jassy112». Al tramonto iniziano gli attacchi

aerei russi sulla cittadina. Mentre Malaparte accompagna Marioara, la ragazza che serve al Café del Jockey Club, terrorizzata, a casa, si scatena anche il temporale:

All'improvviso il temporale scoppia come una mina sui tetti della città. Neri brandelli di nuvole, di alberi, di case, di strade, di uomini, di cavalli, saltano in aria, turbinano nel vento. Un torrente di sangue tiepido erompe fuor delle nuvole squarciate dalle folgori rosse verdi turchine113.

È una visione apocalittica, in cui il frastuono e la furia del temporale e lo sconvolgimento dei bombardamenti si mescolano e si intensificano a vicenda. E all'improvviso, alzando gli occhi al cielo, un'apparizione straordinaria:

C'erano uomini, lassù, che camminavano sul tetto del temporale. Piccoli, goffi, panciuti, camminavano lungo la grondaia delle nuvole reggendo con una mano un immenso ombrello bianco, che oscillava nelle raffiche del vento. Erano forse vecchi professori dell'Università di Jassy, in tuba grigia e in redingote color verde pisello, che tornavano a casa scendendo per il lungo viale verso la Fundatia. […] O forse erano le belle e orgogliose gentildonne di Jassy che tornavano dalla loro passeggiata nel parco, facendosi ombra al delicato viso col parasole di seta celeste o rosa […] o forse erano i vecchi nobili del Jockey Club, i grassi gentiluomini moldavi dai favoriti di taglio parigino, dai vestiti di Savile Row, dalle piccole cravatte strozzate nella stretta fessura di alti colletti inamidati […] «Sono i nobili di Jassy che scappano, hanno paura della guerra» […]114

111 K, p. 140. 112 Ivi, pp. 140-141. 113 Ivi, p. 146.

Il temporale ha trasfigurato il bombardamento in uno “spettacolo” surreale115,

in uno dei tanti mirabilia che la guerra scatena in Kaputt, una visione onirica che ha «i verdi i rosa i turchini e i grigi di Manet116», in «una festa galante in un parco di

primavera117», un quadretto di vita mondana parigina. Finito il temporale, il cielo

sembra «un paesaggio dipinto da Chagall», con «i suonatori ebrei di violino seduti sui tetti delle case», «le coppie d'amanti ebrei distesi a mezz'aria sull'orlo di una nuvola verde come un prato», un paesaggio di sogno, «illuminato da una tonda luna trasparente118»: la realtà sembra imitare l'arte.

Ma sotto questo cielo meraviglioso la visione orribile e macabra del pogrom: la città è in preda al fuoco, ragazzi, donne e uomini scappano inseguiti dai soldati, intorno agli edifici in fiamme. A dare a quel «freddo e spettrale scenario fotografico» il «senso vivo e immediato della realtà119» sono il clamore confuso degli ebrei

inseguiti da ogni parte, dei soldati, l'urlo spaventoso delle sirene, il lungo sibilo delle locomotive, il crepitio delle mitragliatrici. La descrizione concitata del massacro non risparmia nessun dettaglio macabro e sconvolgente: i soldati uccidono gli ebrei nelle loro case, radunano le donne in piazza e le fucilano, scagliano bombe a mano nelle cantine (dove alcuni avevano pensato di trovare rifugio), restando a osservare l'effetto degli scoppi ridendo: «Il piede, dove maggiore era la strage, scivolava nel sangue; dappertutto la lieta e feroce fatica del pogrom riempiva le strade e le case di spari, di pianti, di urli terribili e di risa crudeli120». Il giorno dopo, la strada è

ingombra di «forme umane abbandonate in gesti scomposti», i morti sono ammucchiati sui marciapiedi. Solo i cani mostrano rispetto e pietà mentre si aggirano tra i morti con «l'aria spaurita e umiliata del cane che cerca il padrone121».

Sotto il cielo ebreo di Chagall, sotto il cielo della civiltà, di cui l'arte è una delle massime espressioni, scorre il sangue degli ebrei, la realtà atroce del massacro, la distruzione e gli incendi: la «civiltà» che i tedeschi vogliono imporre agli altri 115Più avanti, l'identificazione degli uomini che camminano sui tetti come paracadutisti russi:

«sotto la lenta pioggia di paracadutisti sovietici che scendevano dal cielo appesi all'immenso ombrellone bianco, posando leggermente il piede sui tetti delle case» (Ivi, p. 149).

116 Ivi, p. 147. 117 Ivi, p. 148. 118 Ivi, p. 149. 119 Ivi, p. 150. 120 Ivi, p. 151. 121 Ivi, p. 154.

popoli che considerano barbari è scoperta come la vera barbarie, con lo scopo dell'annientamento crudele della vita umana. Nella visione surreale del temporale è tutto il mito di una civiltà europea elegante, gentile, nobile che scompare, che fugge sotto il temporale come fanno gli uomini e le donne ben vestiti con gli ombrelli in mano. Una fuga, una dichiarazione di crudele indifferenza, simboleggiata dalla carrozza della Principessa Sturdza, «rigida e impettita», «tutta vestita di azzurro122»

che passa per Jassy guardando in alto, in mezzo ai morti ammucchiati per le strade e agli spogliatori di cadaveri, senza il più lieve segno di cedimento emotivo.

Coloro che leggono Kaputt (e anche La pelle) si chiedono se le cose orribili descritte dall'autore siano accadute realmente o no. Questo dubbio, che non ci si pone quasi mai davanti alla genericità dei romanzi che leggiamo, perché siamo consapevoli di essere di fronte a una finzione letteraria, è messo esplicitamente in scena dall'autore in una parte de La pelle, e proprio a proposito di Kaputt. Egli si trova in un accampamento militare francese, vicino Montecassino, insieme all'ufficiale americano Jack Hamilton. Un soldato marocchino ha perso una mano a causa di una mina, e la mano mozzata è introvabile. Durante il pranzo insieme agli altri ufficiali, qualcuno ironizza sulla grande immaginazione di Malaparte, che in Kaputt dice di aver assistito agli eventi più straordinari, di aver pranzato con ambasciatori, principesse, ufficiali, in grandi palazzi, con stoviglie preziose, chiedendo se ci fosse qualcosa di vero, mentre lo scrittore continua a mangiare in silenzio, sorridendo. Il colonnello Jack risponde che non è importante sapere se quel che racconta Malaparte «è vero, o falso. La questione da porsi è un'altra: se quel ch'egli fa è arte, o no123». Qualcuno insinua che tutto ciò che viene raccontato nel

romanzo sia falso, a questo punto lo scrittore interviene nella discussione raccontando di avere appena vissuto la più straordinaria delle sue avventure: la mano del soldato marocchino era andata a finire nella pentola del cous cous e da lì nel suo piatto, ma lui, che era un ospite bene educato, non aveva detto niente per non turbare la convivialità del pasto, e aveva continuato a mangiare, disponendo le ossa nel piatto nella forma di una mano come prova di quel che aveva confessato. Il colonnello è 122 Ivi, p. 155.

preso da un moto di vomito, mentre Jack e Malaparte proseguono il loro viaggio commentando l'accaduto: «Hai visto con che arte avevo disposto nel piatto quegli ossicini di montone? Parevan proprio le ossa di una mano!124», dice Malaparte.

Come scrive Barberi Squarotti, questo aneddoto è per un verso una «spiegazione della natura profonda della letteratura, di dover esser verisimile125», per

l'altro, «una lezione allegorica126»: l'aneddoto rivela, al di là dello scherzo, la verità

della guerra, il fatto che questa non sia una cosa lontana, pulita, quasi una lotta agonistica di macchine e di motori, dove la morte degli uomini è considerata un incidente di percorso (come sembra dalle conversazioni degli ufficiali francesi che precedono il pasto), ma è una cosa incredibilmente orribile. Al di là della trovata della mano rosicchiata nel piatto, il soldato ha davvero perso la mano, e nella realtà davvero i soldati perdono le mani in guerra, restano mutilati, vengono uccisi.

Anche noi lettori, a volte, davanti ai romanzi di Malaparte, ci poniamo lo stesso dubbio del generale Guillaume, ed è una reazione volontariamente provocata dall'autore: i personaggi che incontra sono realmente esistiti e compaiono coi loro nomi reali, anche i fatti raccontati sono alla base storici, per questo il lettore si pone davanti all'opera in parte come davanti a una ricostruzione storica. Contribuisce all'alone di verità la costruzione di un io narrante e di un personaggio dotato di molte caratteristiche ed esperienze dell'io biografico dell'autore, a partire dal nome, poi i riferimenti a se stesso come autore di Tecnica del colpo di stato127, l'allusione ai

problemi avuti con le autorità tedesche per alcuni articoli sulla Polonia128, e in ultimo

all'operazione subita in Finlandia nell'estate del 1942129. Così quando Malaparte

racconta di avere incontrato Ante Pàvelic, e di aver veduto sulla sua scrivania un paniere di ostriche, ma egli rivela che si tratta in realtà di chili di occhi umani, dono dei suoi ustascia, restiamo talmente scioccati dalla crudeltà dell'immagine, che l'illusione di verità creata dall'autore vacilla, poiché è troppo incredibile per essere vera e allo stesso tempo, nella disumanità e nello sconvolgimento di ogni confine 124 Ivi, p. 288.

125 G. B. S

QUAROTTI, L'allegoria degli orrori della guerra, in Curzio Malaparte: il narratore, il politologo, il cittadino di Prato e dell'Europa, cit., p. 287.

126 Ivi, p. 288. 127 K, p. 78. 128 Ivi, p. 211. 129 Ivi, p. 400.

etico caratteristici della guerra, è possibile, quindi non necessariamente falso.

È proprio nel brivido di terrore scatenato da questo scarto tra il vero e il possibile che si pongono le rappresentazioni letterarie malapartiane: è qui che risiede il loro valore simbolico e testimoniale al tempo stesso, la loro verità di fondo, e cioè che la guerra è il teatro entro cui si assiste allo spettacolo dell'annientamento dell'umano, alla rottura degli argini della civiltà, per cui anche ciò che di più inverosimile possiamo immaginare, nel campo della distruzione dei viventi, è ormai possibile. E ciò non perché si creda davvero che tutto sia accaduto, ma perché sappiamo che è sempre possibile che tutto accada e accadrà: è in questa inquietante, atroce probabilità che, da Kaputt in poi, ci muoviamo noi oggi, nel mondo attuale.

4.3.3. «Vous êtes cruel»: l'ironia crudele di Kaputt

È necessario soffermarsi brevemente sulla finzione autobiografica. Come si è potuto osservare nel corso del presente studio, la narrazione malapartiana è in molte opere svolta in prima persona, e questo narratore è sempre Malaparte. Anche in Kaputt, Malaparte è allo stesso tempo narratore e personaggio. Abbiamo già visto quali caratteristiche biografiche dell'autore sono state trasfuse nel personaggio: a partire dal cognome, dall'allusione alle sue opere e ai suoi scritti, più spesso riconosciuto come ufficiale italiano, come «capitano». Il narratore è colui che ha vissuto e ha visto le cose che racconta, ma per poter esercitare questa funzione di “testimone” ha dovuto pagare il prezzo di un certo grado di complicità coi crudeli esecutori della distruzione: il personaggio Malaparte siede alle mense dei tedeschi, recitando la parte del foul, sfoderando le sue battute ironiche e brillanti, può dire tutto poiché in fondo è innocuo, impotente di fronte all'enormità della tragedia, al di fuori della logica dei padroni tedeschi e dei potenti, emarginato nella sfera dell'estraneità e della “bizzarria”; solo così può rendere la sua «testimonianza» dentro la storia, in nome della futura salvezza e redenzione di sé e delle vittime nella scrittura.

nel capitolo intitolato La commedia dell'ironia, nel quale essa è «la più alta e l'ultima possibilità dell'intelletto130», la sua natura è logica e non passionale, e dunque si

muove a partire da una impassibilità assoluta che non conosce fede né commozione sentimentale, e può approdare solo a una sconsolata forma di fatalismo. Solo attraversando tutta l'esperienza del comico quotidiano, l'umorista può diventare, da «attore» delle vicende quotidiane nelle quali agisce sempre con critica e scettica partecipazione, «spettatore» calmo e insensibile del mondo degli uomini. A permettere il passaggio è la tristezza e la noia generate dal «viaggio» nelle vicende umane: quando l'esperienza del comico, che si nutre di continua novità, genera noia e tristezza, allora vuol dire che le cose sono “morte”, sono diventate “ombre”, e l'ironia nasce appunto da questa “morte delle cose”, dalla disgregazione dei valori contingenti.

Da questa concezione dell'ironia e dell'umorismo deriva la stessa struttura delle opere sia narrative che saggistiche: la finzione autobiografica sembra assolvere a questo compito di “viaggio” nel mondo delle cose, l'autore si è autoaffidato il compito che ha dato all'“uomo ironico”, quello di “spettatore” delle cose degli uomini; e il personaggio Malaparte, onnipresente “attore” sulla scena del romanzo, attraversa fatti ed eventi di una realtà sconvolgente e straordinaria, mettendone in luce idiosincrasie e ambiguità, intento a cogliere rovesciamenti e paradossi, esercitando costantemente una ironia critica, tagliente e scettica. Nel Ritratto di Pirrone131 il legame che unisce le due dimensioni si incarna nella figura del filosofo

scettico, il triste e silenzioso accompagnatore di Alessandro il Macedone. Quest'uomo «testimonio d'ogni fatto, ma [che] non crede in nulla, neppure in ciò che avviene sotto i suoi occhi132», così come descritto da Malaparte, sembra delineare un

modello ideale di scrittore e di letteratura, che si assumono il compito di «testimoniare», non rifiutando di spingersi nei fatti più atroci.

Il dubbio e l'umorismo sono le armi dello scrittore-testimone per riuscire a osservare gli eventi stando dentro il dramma e contemporaneamente fuori di esso, 130 IB, p. 560.

131 Ritratto di Pirrone è il titolo di un paragrafo dell'inedito Viaggio in inferno, ora pubblicato in

MAL I, pp. 719-723; tale paragrafo fu poi pubblicato dall'autore con lo stesso titolo in «Pègaso», I, 1929, pp. 44-47.

pena l'impossibilità del racconto. Una testimonianza, dunque, che potrebbe sembrare cinica, poiché deve partire da una condizione di incredulità, di scetticismo davanti a tutto ciò che accade davanti ai suoi occhi:

«Io penso» osservò Heath «che bisogna esser grato a Pirrone della sua infelicità. Senza questa sua testimonianza incredula e disinteressata, nulla accadrebbe quaggiù, e perfino il mondo classico nel quale egli vive, non avrebbe senso. È da credere» aggiunse «che i testimoni siano i soli responsabili di ciò che avviene»133.

Senza testimoni chi può dire che qualcosa stia accadendo o sia accaduta? Il testimone, cioè colui che si trova dentro gli eventi, raccontandoli con la propria parola, è responsabile di ciò che accade poiché con la sua testimonianza li rende reali, presenti, sottraendoli alla cancellazione, all'oblio. Ironia e testimonianza sono perciò legate nella visione dello scrittore, la prima è condizione e premessa della seconda, ed entrambe sono componenti fondamentali della scrittura. In Kaputt la testimonianza è complicata dall'enormità della tragedia che Malaparte si trova davanti: come raccontare l'orrore?

Per rispondere a questa domanda bisogna partire dalle parole che Malaparte ha premesso al romanzo: «Kaputt è un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell'Europa in questi anni di guerra134», affermazione talmente vera che si sarebbe tentati di definire il libro

come una galleria di storie crudeli. Ma tale crudeltà, appunto, non può essere fatta risalire, come hanno fatto molti, a gusto per il macabro, a desiderio in sé di colpire il lettore, a mancanza di qualsiasi sentimento. La crudeltà di Kaputt è il riflesso della crudeltà della guerra: essa sta in primo luogo nella realtà che racconta, non l'ha inventata Malaparte. Il vero obiettivo dello scrittore è quindi, a mio avviso, quello di rendere raccontabile questa crudeltà, questa insensibilità e indifferenza alla sofferenza altrui, questo aberrante piacere nel provocarla, di cui i tedeschi sono l'espressione più pura e agghiacciante.

La risposta sta, quindi, nel «riso gaio e crudele» che riecheggia da una parte all'altra di Kaputt: non basta narrare gli eventi ai quali si è assistito in modo 133 Ibidem.

realistico, si otterrebbe una cronaca, o un'opera neorealista che rappresenta l'orrore ma non lo esprime. L'intenzione di Malaparte non è solo «testimoniare» la «realtà» della guerra, il suo è un «lungo e crudele viaggio» attraverso gli orrori, ma soprattutto "dentro" l'orrore, nel fondo oscuro della coscienza umana, della civiltà europea e occidentale. Egli vuole far comprendere la realtà profonda di quel che racconta, colpire provocatoriamente il lettore, produrre una reazione di rifiuto, perché tutto ciò che ci urta nel romanzo è ciò che è accaduto, anche se non necessariamente così come lo racconta Malaparte. Il continuo esercizio di questa ironia e la sua abnormità, che sconvolge e a tratti disgusta, non fa che rivelare la verità dell'immensa tragedia che si ha davanti.

Nel capitolo intitolato Le città proibite, durante un pranzo conviviale alla presenza dell'alta gerarchia militare e governativa tedesca, davanti a una tavola imbandita riccamente e risonante di risa, Malaparte racconta:

Il governatore Fischer, mentre andava facendosi colare col cucchiaio, sulle sue fette di daino, una dorata pioggia di sugo, narrava come venivano seppelliti gli ebrei del ghetto: «Uno strato di cadaveri e uno strato di calce», come se dicesse: «Una fetta di carne e uno strato di sugo, una fetta di carne e uno strato di sugo»135.

La battuta del narratore, questo paragone insensibile e dissacrante tra uomini e cibo, o meglio la riduzione a "oggetto" di esseri umani morti proprio per mano tedesca, assimilati alla "carne" del daino, ormai anch'essa "cosa", "cibo", senza più