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3. L A RICERCA ESPRESSIVA DEGLI ANNI T RENTA TRA GIORNALISMO E LETTERATURA

3.2. La produzione breve degli anni Trenta

3.2.1. Sodoma e Gomorra

La grande eterogeneità è la caratteristica fondamentale delle raccolte. Possiamo considerare Sodoma e Gomorra la prima opera “puramente” letteraria malapartiana39, edita da Treves nel 1931, contenente otto racconti40. Nel passaggio dal

giornale al volume tali racconti non subirono rielaborazioni sostanziali: gli interventi si limitano a qualche cambiamento di titolo41, all'eliminazione di sottotitoli e titoli di

Paradiso, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1962, pp. 219-335.

37 Lettera a Borelli del 3 dicembre 1936, in MAL III, p. 742.

38 Si tratta dei seguenti articoli: A Firenze si fa così (22 novembre 1936), Toscani veri (27

novembre 1936); I ladri di polli (13 dicembre 1936); Il vento dei toscani (16 gennaio 1937);

Cielo e terra (5 gennaio 1938); Oh le belle livornesi (26 febbraio 1938); Giovanni un par di schiaffi (12 marzo 1938); Il Cerbacone (31 maggio 1938); La Venezia di Livorno (10 giiugno

1938); Paesi intelligenti (21 febbraio 1940).

39 È lo scrittore stesso che così scrive in una lettera: «Caro Borelli, è uscito il mio libro

Sodoma e Gomorra. Tempo fa mi promettesti che appena io avessi pubblicato un libro di

letteratura mi avresti fatto fare la recensione da Borgese. Sodoma e Gomorra è un libro puramente “letterario”» (Lettera ad A. Borelli del 26 gennaio 1931, in 661, Archivio del Corriere della Sera, contenuta nella tesi di Beatrice Baglivo, I racconti di Curzio Malaparte, reperibile online a: https://www.academia.edu/28031698/I_racconti_di_Curzio_Malaparte). La tesi di laurea di Beatrice Baglivo, uno dei pochissimi studi incentrati unicamente sui racconti degli anni Trenta in modo approfondito, costituisce il basilare punto di riferimento per questa parte della mia tesi, anche per la suddivisione tematica dei racconti.

40 Due inediti, Storia del Cavaliere dell'albero e La Madonna di Strapaese; cinque pubblicati

su «La Stampa» (La Maddalena di Carlsbourg, 24 gennaio 1928; Donna rossa, 12 gennaio 1930; Il Moro di Comacchio, 14 aprile 1928; Il Martellatore della Vecchia Inghilterra, 23 febbraio 1928; Sodoma e Gomorra, 26 e 28 ottobre 1930); uno su «La Fiera letteraria» (La

figlia del pastore di Börn, 20 ottobre 1929). Questo è il risultato della mia ricerca.

L'incertezza è dovuta al fatto che gli scritti giornalistici malapartiani sono numerosissimi e sparsi in varie testate, anche piccole; ciò rende complicato riuscire a effettuare un censimento completo delle pubblicazioni.

paragrafi, all'attenuazione di alcune espressioni e a minimi ritocchi stilistici che non ne alterano il contenuto.

Nonostante la discontinuità, possiamo raggruppare i testi in due tipologie ricorrenti: racconti d'invenzione (La figlia del pastore di Born, Il Moro di Comacchio, Il martellatore della Vecchia Inghiliterra, il Cavaliere dell'albero) e a tema storico (La Maddalena di Carlsbourg, La Madonna di Strapaese e Donna rossa). Alcuni di questi sono anche autobiografici, perché contengono riferimenti diretti alla vita dell'autore: La Maddalena di Carlsbourg è narrato in prima persona da un soldato che possiamo facilmente identificare con Malaparte, è ambientato in Francia alla fine della Prima guerra mondiale, e vi sono numerosi riferimenti ai suoi ricordi di guerra. Anche Donna Rossa è autobiografico, poiché è una storia ispirata al suo viaggio in Russia nel 1929. Sodoma e Gomorra, invece, si discosta dagli altri, poiché il racconto del viaggio in Palestina (che Malaparte fece davvero), è trasfigurato fantasticamente attraverso l'incontro fortuito con Voltaire: un racconto in prima persona dalle evidenti connotazioni simbolico-allegoriche, ambientato in una Palestina “storica” (dominata dagli Inglesi) e allo stesso tempo «antica» e magica, dove i miracoli sono ancora probabili ed è possibile incontrare due angeli ai quali gli inglesi hanno tarpato le ali e messo l'uniforme, che suggerisce una velata, anche se ambigua, satira antinglese.

La raccolta rappresenta il primo tentativo di distacco dalla stagione precedente rappresentata dalle opere strapaesane: il tono scanzonato e irridente, il linguaggio colorito e vivace, l'eloquio toscaneggiante, i personaggi scalmanati, chiassosi e popolani scompaiono, o riappaiono come sfondo di vicende individuali spesso tragiche e desolanti. L'unico racconto in cui la vena strapaesana scorre copiosa sia nei contenuti che nella forma è La Madonna di Strapaese, che narra della rivolta degli aretini contro i francesi del 1799 denominata «Viva Maria», riletta in chiave di scontro tra Strapaese e Stracittà: da una parte i francesi di Napoleone, portatori della modernità illuministica e razionalistica, dall'altra gli aretini, difensori della tradizione cattolica, legittimista, popolare. L'ultimo omaggio a una polemica che d'ora in poi diventerà soprattutto una «poetica», con ben più profonde rispettivamente su «La Stampa» rispettivamente il 26 e il 28 ottobre 1930.

implicazioni, sia espressive che ideologiche42.

La Maddalena di Carlsbourg, il primo racconto della raccolta, è ambientato in un «triste paese vallone», subito dopo la Prima guerra mondiale: ricorrono in esso le descrizioni già usate in Ritratto delle cose d'Italia del 1923, dunque entrano nel racconto esperienze biografiche dell'autore43. Ed è proprio Malaparte a narrare in

prima persona la triste e tragica vicenda di Maddalena, la «venere immonda» di Carlsbourg, una ragazza «di poco più di vent'anni, esile e bianca, dai grandi occhi dolci, chiari nell'ombra di una folta chioma bionda44», che era stata costretta a

prostituirsi, prima con la violenza, poi per fame, ai nemici tedeschi durante la guerra, e che per questo ora viveva perseguitata dagli abitanti del luogo. La vicenda sembra rieccheggiare nel suo svolgimento l'andamento e i moduli delle fiabe: il narratore si perde in un bosco e trova l'osteria solitaria nella quale abita, insieme alla vecchia madre, una ragazza “imprigionata”, vittima di una vicenda che la esclude dalla vita sociale; vi è la presenza di un “tabù”, che consiste nel divieto di frequentare l'osteria della ragazza, macchiata dal “tradimento”, e il tentativo di salvarla da parte del soldato-eroe, in una concitata azione che culmina nel finale tragico della folla che trascina Maddalena insanguinata per strada, con l'ultimo colpo mortale all'inguine. Una fiaba “nera”, fin dall'inizio percorsa da un senso di inquietudine e di tensione, da un oscuro presagio di morte («Seppelliti i nostri morti nel cimitero di Rocroi», così incomincia il racconto45), in un'ambientazione nordica e spettrale, in

una «continua disperata solitudine», giocata in una trama fitta di rimandi religiosi, spie linguistiche, parallelismi: la caccia ai cinghiali, alla quale Malaparte si dedica come tentativo di evasione dalla guerra e dalla solitudine, nel finale ha il suo doppio 42 Scrive Luigi Martellini: «Malaparte non è rimasto nei limiti buffoneschi del decennio

precedente e La Madonna di Strapaese è dunque il punto di evoluzione del suo stile, è l'anello di congiunzione – documentato in Sodoma e Gomorra – tra la prosa narrativa di gusto toscano e quella più sfumata psicologicamente, delle altre trame proposte» (L. MARTELLINI, Malaparte narratore, in ID., Il labirinto delle scritture, cit., pp. 132-133).

43 In questo racconto Malaparte riprende le stesse espressioni e le stesse immagini usate nel

Ritratto delle cose d'Italia: «il triste paese vallone»; la fuga coi commilitoni nella natura per la

caccia: «quando mi sentii avvilire, incattivire, immeschinire, mi ribellai, chiusi i libri, tornai a imbrancarmi con i miei vecchi fanti contadini, boscaioli, cacciatori, pastori, via come prima per i boschi a inseguire cervi e cinghiali» (RSM, p. 164); l'inverno rigido, il clima tetro e solitario del luogo (vd. RSM, pp. 159-165).

crudele nella caccia delle povere ragazze come Maddalena, in una ferocissima persecuzione con incendi e uccisioni che a loro volta richiamano alla mente le crudeli e violente cacce alle streghe dell'epoca moderna. Il nome stesso dell'osteria dove vive Maddalena, Sangle noir, “cinghiale nero”, sembra alludere a questa connotazione di “preda” e di “vittima”, associandola all'animale cacciato dagli uomini. Anche il nome della donna non è casuale, col suo chiaro riferimento biblico: un ironico emblema che segna la distanza con il destino della prostituta della Bibbia. Maddalena è, dunque, un'altra incarnazione dei «vinti» della letteratura malapartiana, assimilabile ai fanti caporettisti, è un'altra «figura Christi», caratterizzata dall'innocenza e dall'umiltà, consapevole del suo sacrificio imminente:

Al primo annunzio del pericolo Maddalena m'aveva alzato gli occhi in viso, guardandomi senza ombra di smarrimento, serena e decisa. «Va bene» aveva detto «mi verranno a prendere». Ed era rimasta in piedi vicino alla porta chiusa, volgendo verso me la bocca illuminata da un sorriso triste di bambina, dove la rassegnazione vinceva l'amore46.

Questa connotazione di “vittima”, che finisce per essere sempre “sacrificata” alla crudeltà del mondo, appartiene anche agli altri protagonisti dei racconti: ne La figlia del pastore di Börn, ambientato anch'esso in un paese nordico, viene narrata la pazzia del pastore protestante del luogo che tiene la figlia segregata in casa, poiché vi rivede la moglie defunta. Il racconto è narrato in prima persona dalla figlia del pastore, con una tecnica intradiegetica che Malaparte sperimenta qui e non più altrove, ma che rafforza la carica drammatica ed emotiva del testo. Quando la figlia si innamora di Guda, il nuovo e giovane pastore che prova ad aiutare il padre, e infine i due si sposano, il padre uccide Guda47. L'elemento violento e quello

patologico si uniscono in un finale che ha l'ineluttabilità del destino, costruito in un crescendo di tensione.

Il Moro di Comacchio narra la storia di Semba, un esploratore africano giunto 46 Ivi, p. 12.

47 Vi è da scorgere, forse, il richiamo alla novella di Tancredi e Ghismonda del Decameron,

archetipo letterario dell'amore paterno geloso e omicida. L'influenza di Boccaccio è continua, come si vedrà soprattutto in Kaputt.

in Europa per scandagliarne le valli e le sorgenti, che infine si ferma presso Comacchio a far la vita dei vallini pescatori di anguille e gran bevitori, in un'atmosfera che richiama quella strapaesana delle Avventure di un capitano di sventura, fino al richiamo dell'ignoto che lo porterà a morire nell'idrovoro di Codigoro. Anche per Semba un destino ineluttabile, segnato anche dal punto di vista espressivo dall'analogia finale con la morte di Ettore, dal quale riceve l'aura di eroismo: il grido di Semba, «succhiato a tradimento dall'idrovoro di Codigoro», risvegliò il nitrire dei puledri intorno, «come già, lungo le rive dello Scamandro, l'ultimo grido di Ettore domator di cavalli48». Come scrive Martellini, l'analogia con

l'eroe greco è una spia linguistica «della sua visione del mondo e delle cose, e della sua ineluttabile concezione dell'esistenza gestita dal Fato49».

Il Martellatore della Vecchia Inghilterra ruota intorno al pugile scozzese Bob As, una montagna di muscoli dalle gambe secchissime, che gira di città in città, accompagnato da una piccola bambina silenziosa e malata, per esibirsi nel proprio numero di forza. Giunto a Prato, incorre in una lite con un uomo che degenera fino alla sua cattura e alla messa in prigione. Non se ne sa più nulla se non che uscì di prigione per accompagnare la bambina al cimitero; ne viene descritta l'ultima mestissima scena del suicidio, col collo legato alla palla, gettandosi giù nel Bisenzio. È un finale dal forte impatto, amplificato dal distacco della voce narrante, che descrive in modo quasi meccanico i gesti del pugile che si prepara a togliersi la vita. Un pessimismo di fondo accomuna questi racconti dove i personaggi si avviano ineluttabilmente verso la morte, spesso in modo crudele e violento, descritta in modo analitico. Questo gusto per il macabro, la violenza e l'elemento crudele è un altro dei fili rossi che si dipanano successivamente. Sono vicende estreme, imprevedibili, scioccanti, i cui protagonisti sono personaggi ai margini o esclusi dalla società, che si muovono tra il patologico, il mostruoso e l'eccentrico, quasi borderline: una prostituta russa, una povera ragazza francese costretta a prostituirsi, un pastore protestante impazzito, un ebreo cristianizzato, un esploratore africano, un pugile scozzese girovago.

Donna rossa, che nella versione originale sul quotidiano aveva come sottotitolo «Scene della vita d'ogni giorno nella Russia dei Soviet», è interessante perché ci mostra la tecnica con la quale Malaparte costruisce i suoi racconti: esso è ispirato ai giorni che trascorse a Mosca, narra dei suoi giri per la città, accompagnato in ogni luogo da Tania, una ragazza russa con una vita misteriosa. Malaparte racconta che dall'aspetto e dai modi la ragazza sembrava provenire da una famiglia borghese, non ancora «bolchevisée», e lei stessa si definiva borghese. Ma alla fine, scopre che Tania è una prostituta, e che era stata, quindi, tutta una finzione: Tania era “figlia” della rivoluzione bolscevica, ma voleva dimostrare a uno straniero che nel “nuovo” mondo sovietico, «dove la rivoluzione ha sconvolto tutti i valori morali e sociali, tutti i principii, tutti i pregiudizi, tutte le tradizioni50», era ancora possibile trovare una

ragazza di fermi principii, di tradizione e di pregiudizi borghesi. Attraverso la storia di Tania, Malaparte voleva mostrare la situazione sociale della Russia proletaria, con un intento anche di tipo giornalistico. In una lettera all'amico Bessand-Massenet dell'aprile del 1934, Malaparte scrive a proposito di questo racconto:

Non ho mai capito perché Gaxotte ce l'avesse tanto con quella povera ragazza che non è inventata da me, ma esiste veramente, è la sorella di una grande attrice cinematografica del Sovkino, e si chiama Marika Scimisciani […] Ho alterato un po' la fine, nel racconto, per ovvie necessità, attribuendo a Marika la fine di un'altra ragazza di cui mi avevano raccontato la storia. Ma tutta la cronaca, tutta la passeggiata con Marika fino al cimitero del Convento delle Nowdievici, la visita alla tomba di Lenin, ecc. ecc.; è esatta fin nei più minuti particolari. Io ho inteso scrivere una «cronaca della vita quotidiana a Mosca», non già un racconto51.

Malaparte afferma dunque che la ragazza che ha ispirato il racconto esiste, e che la passeggiata si è svolta così come l'ha raccontata; egli ha «alterato» il finale mescolando fatti “veri” appartenenti a persone diverse. Rivendica perciò la realtà dei fatti narrati, poiché veri nelle singole parti, e poi riassemblati «per ovvie necessità», cioè creare un testo interessante che rappresentasse, in modo paradigmatico, la situazione sociale nella Russia sovietica. Malaparte rivendica il diritto di alterare la realtà con la finzione, la storia con l'invenzione, quando la realtà così com'è, per 50 SOD, p. 46.

prima cosa, non è abbastanza “raccontabile”, ma anche e soprattutto per rappresentare la verità che le sta al fondo, spesso in opposizione all'apparenza. Questa è la tecnica che sta alla base della sua costruzione narrativa, si è visto anche con l'espediente della passeggiata con Zangwill nella Tecnica.