• Non ci sono risultati.

Il “dramma della modernità”: l'«Italia barbara» contro l'«Europa vivente»

2. L' INTERVENTISMO POLITICO CULTURALE DEGLI ANNI V ENTI

2.1. Il “dramma della modernità”: l'«Italia barbara» contro l'«Europa vivente»

Nel 1923 Suckert pubblicò L'Europa vivente: teoria storica del sindacalismo nazionale, opera nella quale confluirono alcune riflessioni pubblicate in riviste e giornali. Egli aveva intenzione di inserirsi nella battaglia di idee che animò il movimento fascista nei primi anni Venti, generata dalla necessità di elaborare una base ideologica e politica per continuare, dopo la presa violenta del potere, con la costruzione del nuovo Stato fascista.

Il titolo avrebbe dovuto essere, dichiara l'autore, piuttosto l'«Europa moribonda17», per indicarne lo stato di decadenza. È l'Italia invece, per Suckert, a

essere davvero “vivente”, cioè ancora capace di generare uno spirito nuovo che «solo potrà dare una forma nuova alle inquietudini e alle aspirazioni del mondo moderno18», e fornire una soluzione al secolare «dramma della modernità», concetto

che teorizzò in questi anni, e già argomento di un articolo pubblicato sulla «Rivoluzione liberale».

Partendo dalla premessa che le cause dell'attuale crisi italiana siano di ordine storico e non contingente, non dovute cioè a fattori economici o sociali, ma inserite in una crisi di civiltà che è europea e occidentale, il “dramma della modernità” si manifesta come una decomposizione della civiltà classica operata dalla civiltà moderna. Esso ha origine nella frattura causata dalla Riforma protestante nel mondo cattolico romano, con un conseguente capovolgimento dei valori che ha portato alla superiorità della civiltà dei paesi nordici su quella dei paesi latini: così, «le nazioni che un tempo erano barbare, oggi sono considerate civili, e quelle ch'erano civilissime hanno stima di barbare»19. La Controriforma è considerata, quindi, come

la reazione dello spirito latino alla modernità, il quale relegò l'Italia in una posizione di marginalità rispetto all'Europa, garantendole uno sviluppo parallelo ai paesi 16 L'Italie contro l'Europe è il titolo della prima traduzione francese de L'Europa vivente,

uscita nel 1927 a Parigi per Felix Alcan, con la prefazione di Benjamin Cremieux (C. MALAPARTE, L'Italie contre l'Europe, Paris, Felix Alcan, 1927, traduzione di M. Y. Lenoir).

17 EV, p. 345. 18 Ivi, p. 346. 19 Ivi, p. 364.

nordici fino al XIX secolo, quando, con lo «stupido Ottocento20», le idee moderne di

libertà, indipendenza, democrazia, liberalismo, socialismo, penetrarono in un paese naturalmente inadatto ad accoglierle, provocando la crisi odierna. Aggiunge, inoltre, una nota biografica importante, quando accenna alla propria doppia origine: di padre tedesco e di madre milanese, egli viveva in se stesso il “dramma della modernità”, la tensione tra i due spiriti che animano la civiltà europea21, e ciò lo rendeva in qualche

modo più sensibile nel cogliere il problema della decadenza europea.

Nella prima versione su «La Rivoluzione liberale», la nuova “Controriforma” auspicata dall'autore non si era ancora attualizzata in riferimenti storici concreti; nell'Europa vivente, invece, essa si identifica nel fascismo. Non mancarono le risposte polemiche al suo articolo sulla «Rivoluzione liberale»22, con il quale Gobetti

stesso non poteva concordare. La valutazione della Riforma in Suckert e in Gobetti partiva da due posizioni diametralmente opposte: per Suckert, essa era la causa e l'origine della crisi italiana, fenomeno che aveva inquinato la classicità e i valori tradizionali, e aveva sancito l'inferiorità del mondo latino rispetto a quello nordico, e la Controriforma, (per cui Suckert dichiarava di preferire il termine «Antiriforma23»)

era valutata positivamente; per Gobetti la crisi italiana era dovuta proprio al non aver avuto una Riforma, o alla cattiva assimilazione di essa, e dunque in ultimo agli effetti negativi della Controriforma, che aveva separato il cammino della nazione italiana da quello europeo lungo il progresso moderno e civile. Questo tema non è nuovo nella storiografia politica e letteraria d'Europa, ma risale già alla fine del XVII secolo24,

all'interno della discussione sul Barocco: fin dalla fine del Seicento, molti furono i giudizi negativi su questo secolo, considerato di decadenza e di degradazione rispetto 20 Ivi, p. 352. È lo stesso Suckert che fa riferimento al titolo del famoso saggio dello scrittore

e politico francese Léon Daudet, Le stupide dixneuviéme siecle, pubblicato nel 1921. Daudet fu il fondatore con Charles Maurras dell'«Action française» un movimento politico antidemocratico, antiparlamentare, nazionalista, violento e cattolico, aspramente polemico e critico verso la modernità illuministica e riformista. Durante i soggiorni parigini degli anni 1923-25 Malaparte entrò in contatto con gli ambienti intellettuali legati all'«Action française», con Daudet e Maurras, e il socialfascismo di Valois, e nel gennaio del 1924 accompagnò una delegazione del movimento a Roma da Mussolini (M. SERRA, Malaparte vite e leggende, cit.,

pp. 98-99).

21 Ivi, p. 347.

22 Vd. EV, pp. 369-370. 23 Vd. C. M

ALAPARTE, Fascismo e Antiriforma, in «La Fiera letteraria», 10 aprile 1927.

24 Vd. G. G

al Cinquecento, «secolo della perfezione». L'Illuminismo, con il suo razionalismo critico e scettico, confermò quasi in blocco questo marchio negativo: la storiografia illuminista si volse spesso alla ricerca delle cause della decadenza delle civiltà, andando oltre il campo artistico per individuare la concomitanza di elementi ideologici e politici. Quinet è il primo a vedere nell'influsso negativo del cattolicesimo la causa della decadenza religiosa, morale, politica e letteraria del Seicento italiano. Questa la linea critica tradizionale che Suckert capovolge, vedendo proprio nella Riforma l'evento negativo che mise fine alla libertà creatrice dello spirito italiano: «il valore e il significato del Fascismo son tutti in questa sua storicissima funzione di restauratore dell'antico ordine classico dei nostri valori nazionali»25. Per fare ciò, era necessaria la creazione di una nuova scala di valori e di

miti condivisi, che fu esattamente il cammino intrapreso da Mussolini26. Il fenomeno

del fascismo viene ad assumere così una giustificazione come fenomeno storico, non come contingenza politica.

In campo economico e sociale, il fascismo viene identificato dall'autore, non senza contraddizioni, con il sindacalismo. Esso è la reazione al socialismo, una delle ultime derivazioni della modernità nordica, non adatto alla nazione italiana27, il

fascisni è un «sindacalismo politico28». Nell'opera si pose l'obiettivo, quindi, di

affrontare il problema della definizione di una teoria di questo «sindacalismo nazionale», in un'ottica di superamento della lotta di classe, verso la composizione di una “classe nazionale”: secondo l'autore la guerra aveva promosso la nascita di una classe formata dai combattenti, costituita dalla parte della nazione rimasta “antica”, da contadini e artigiani, dai fanti, non intaccata dalla modernità europea e depositaria dei valori tradizionali, che aveva compreso la qualità rivoluzionaria della sofferenza, e poteva riprendere la lotta, in continuità con il Risorgimento, contro l'«anti-nazione» (borghese, liberale, socialista).

Mussolini acquista, in questo contesto, la funzione del «pastore di popoli», la 25 EV, pp. 379-380.

26 Secondo Griffin, il mito centrale del fascismo è proprio la «visione dell'imminente rinascita

della nazione dalla decadenza» (citato in A. TARQUINI, Storia della cultura fascista, Bologna, Il

Mulino, 2011, p. 46).

27 EV, pp. 381- 395. 28 Ivi, p. 348 in glossa.

cui mancanza aveva decretato il fallimento della 'rivolta' di Caporetto, egli rientra nel novero degli «eroi capovolti», secondo la teoria elaborata riprendendo, rovesciandole, le riflessioni di Carlyle ed Emerson. Per Carlyle la storia è fatta dagli eroi, cioè dai “grandi uomini”, per carisma, intelligenza, e abilità; per Emerson gli «uomini rappresentativi» sono tali in quanto, appunto, rappresentano lo spirito del proprio tempo e del proprio popolo, non esseri originali e avulsi dal contesto, ma risposte a esigenze e bisogni in qualche modo preesistenti nella nazione29. Suckert

capovolge il pensiero emersoniano per affermare che gli eroi, gli uomini rappresentativi, «sono l'espressione contraria di un popolo»30: cioè non rappresentano

le virtù o i difetti di un popolo, ma le virtù e i difetti che il popolo non possiede. Gli “uomini rappresentativi” sono quindi solo i “mediocri”, non gli eroi. Egli continua dichiarando che gli eroi sono una «reazione allo spirito della razza o del secolo», e individua in primo luogo in Dante, «nemico del comune spirito italiano31»,

l'incarnazione di tale teoria32. A sostegno della sua tesi egli cita pure la descrizione

machiavelliana del «principe», colui che deve avere quelle doti tiranniche in grado di permettergli la sottomissione del popolo per la grandezza della nazione. La qualità tirannica degli eroi italiani è per Suckert l'origine dell'odio del popolo contro di essi, in quanto gli italiani, che hanno «la tendenza a onorare negli altri quelle virtù, e spesso quei vizi, che essi pure credono di possedere», e quindi si ritengono alla pari dei loro idoli, mal sopportano la tirannia degli eroi “domestici”. L'ultimo degli eroi, di cui Suckert fa un ritratto sarcastico e beffardo, è Garibaldi. La tradizione nazionale degli eroi era rinata con Mussolini, «il restauratore della tradizione aristocratica degli eroi tirannici»33. Antico e moderno, Mussolini presenta le qualità tradizionali

dell'eroe nazionale, ma partecipa delle inquietudini e delle incertezze della 29 Vd. R. W. E

MERSON, Gli uomini rappresentativi, a cura di Angiolo Biancotti, Torino, UTET,

1952, pp 37-62. Nella Rivolta dei santi maledetti è presente un'esplicito richiamo testuale al libro emersoniano dedicato ai «grandi uomini»: «[...] aver "mangiato la terra e averla trovata deliziosamente dolce" [...]» (RSM, p. 5), che richiama il testo emersoniano: «Nella leggenda di Gotamo, i primi uomini si nutrirono di terra e trovarono questo cibo deliziosamente dolce» (R. W. EMERSON, Gli uomini rappresentativi, cit., p. 37).

30 EV, p. 323. 31 Ivi, p. 324. 32 Ivi, pp. 324-325.

modernità, soffrendo in sé il dramma del suo popolo.

Il libro si chiude con un capitolo, intitolato significativamente Ritorno delle favole e degli eroi, in cui nell'ultima parte la trattazione del sindacalismo/fascismo in termini storici lascia il posto alla rappresentazione letteraria ed evocativa dell'antica “favola” del popolo italiano, un mito delle origini che racchiude in sé il mistero del nostro destino di «continui splendori e decadenze». Gli italiani sono «gli eroi della Genesi34», il popolo «frutto di tutte le razze»35. L'Italia è una sorta di grembo materno

in cui i popoli lasciano il proprio seme vitale, in essa i semi maturano, muoiono per poi rinascere, in un continuo ciclo di vita e di morte, di decadenza e di rigenerazione. Per questo è «il regno dei vivi e dei morti», in contatto costante con il mondo sotterraneo.

Gli eroi ritornano e hanno le fattezze degli antichi, Ercole, Enea, Romolo, Evandro, Cesare come Dante, Giotto, Donatello, Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Napoleone e Leopardi, in una dimensione circolare del tempo in cui il passato torna continuamente a manifestare i suoi segni spirituali nel presente: una visione del mondo antimoderna e antiprogressista36, che esteticamente si rivela nelle continue

epifanie del passato nel presente, nei continui collegamenti tra epoche e uomini, mediati spesso da richiami artistici e letterari. Questa visione del passato come dimensione continuamente ritornante e il legame con la terra sono anche alla base di un sincretismo religioso che permette di fondere insieme cattolicesimo e paganesimo nel comune significato di “tradizione”: «Quando avremo riportato nelle case deserte di Roma le statuine di terracotta e di legno dipinto dei nostri iddii autoctoni e dei nostri Santi paesani, aspetteremo il ritorno degli eroi37».

La storia sfuma dunque nel mito, all'argomentazione razionale si sostituisce la rappresentazione letteraria: così come ne La rivolta dei santi maledetti la ricostruzione storica degli eventi cede il passo a una trasposizione letteraria del mito 34 Ivi, p. 472.

35 Ivi, p. 473.

36 Ma non è rifiuto del progresso scientifico: «È lo spirito di modernità futurista che i popoli

anglosassoni identificano con la civiltà, che noi neghiamo, non il fatto di un ritrovato o di una scoperta che possono arricchire o facilitare la nostra vita giornaliera. Così sono i valori essenziali spirituali antichi che noi difendiamo e che dovremo far di tutto per ripristinare, non le forme esteriori di un mondo in cui non potremmo tornare a vivere, e dove ci sarebbe impossibile di vivere», come scrive Soffici nella premessa all'Europa vivente (Ivi, p. 651).

politico soreliano, osserviamo anche in questo caso come la funzione mitopoietica costituisca per Suckert un fondamentale mezzo espressivo e conoscitivo; il mito permette la rappresentazione di una visione del mondo altrimenti incomprensibile attraverso la sola razionalità, crea narrazioni condivise all'interno di una comunità e si sedimenta nella memoria collettiva. È a questa potenza del mito che attinge per la creazione dei suoi personali miti letterari.

Suckert tentò di operare una giustificazione storica del fascismo e di elaborare una teoria politica per il “secondo tempo” della rivoluzione nel solco di un estremo antimodernismo, che non ha però carattere reazionario e conservatore, in quanto, diversamente dai pensatori reazionari, il concetto basilare della sua ideologia era la sovranità popolare, e non un potere autocratico o teocratico. Il richiamo alla Controriforma non si deve perciò intendere in senso religioso, bensì nel senso di un recupero dei principi storici tradizionali e universali del cattolicesimo, funzionale alla costruzione di una modernità “altra”.

I temi dell'Europa vivente sono ripresi anche nell'opera successiva, Italia barbara, pubblicata nel 1925, per la prima volta firmata col nuovo nome di Curzio Malaparte38, edito da Gobetti, a cui il libro non piacque, poiché riteneva che fosse un

rimpasto delle tesi sul “dramma della modernità” già esposte nell'opera precedente39.

Si tratta di una raccolta di saggi, sul modello già sperimentato nell'Europa vivente, alcuni già pubblicati precedentemente40, in cui l'attenzione dell'autore si

38 Il nome Curzio, italianizzazione del tedesco Kurt, era già da tempo usato dallo scrittore per

firmare i suoi articoli; per quanto riguarda il cognome, invece, dichiara di averlo tratto da un

pamphlet anonimo dal titolo I Malaparte e i Bonaparte nel primo centenario di un Bonaparte- Malaparte (1869), in cui si affermava che i Bonaparte si fossero chiamati in origine

Malaparte, famiglia nobile italiana, e l'alternanza del cognome era associata alla condotta di Napoleone: “Bonaparte” quando difese il papa, “Malaparte” quando lo attaccò. Così per il suo gusto anticonformista e provocatorio dovette sembrargli un nome adatto a lui (vedi M. SERRA, Malaparte. Vite e leggende, cit., pp. 107-110).

39 Scrive Gobetti nella lettera del 14 agosto 1925: «Italia barbara è un pessimo libro! Colpa

del fascismo: il libro sarebbe importante se nel 1922 lo proseguivi nel suo disegno originario, coi due capitoli pubblicati in R.L. [ = «La Rivoluzione liberale», ndr] (che hai poi ignobilmente raffazzonato nell'Europa vivente con degli sproloqui sindacalisti) e coi due o tre capitoli nuovi che ci sono nel libro attuale. Colpa del fascismo, dunque, in parte, che ti ha messo a capeggiare degli scamiciati, ma colpa precipua tua, pronto sempre a diventare letterato da strapazzo [...] I lettori intelligenti che comprano i miei libri non ci abboccheranno. Capiranno a volo che qui si ripete la solita storia del dramma della modernità» (lettera di Piero Gobetti del 14 agosto 1925, in MAL I, p. 593).

sposta sul popolo italiano, tratteggiando un ritratto idealizzato e apologetico dell'Italia, che egli definisce appunto “barbara” rispetto alla “civile” Europa. Egli attacca D'Azeglio e la sua pretesa di “fare gli italiani” dopo aver fatto l'Italia: secondo Malaparte, infatti, il Risorgimento conclusosi con l'Unità era stato sostanzialmente «tradito», perché non aveva risolto ma anzi approfondito il problema dell'integrazione del popolo nella vita politica della nazione, ed aveva portato al potere uomini che avevano della patria una concezione moderna e dunque “straniera”. Questi “patrioti”, che chiama spregiativamente «italiani rifatti» e «bastardi» sono coloro che hanno ripudiato la tradizione e che, convinti che i mali d'Italia derivassero dalla mancata assimilazione dello spirito riformista europeo, hanno creduto necessaria l'imitazione dei popoli civili (francese, inglese, tedesco), introducendo parole come libertà, progresso, democrazia, giustizia, rivelatesi poi vuota retorica. Il patriottismo di questi italiani è quindi inviso al resto del popolo rimasto attaccato alla propria storia, sicché l'antipatriottismo dei “barbari” italiani è in realtà, secondo Malaparte, il vero patriottismo, poiché è la difesa della tradizione nazionale contro coloro che vorrebbero cancellarla:

Noialtri italiani rappresentiamo in Europa un elemento vivo di opposizione al trionfante spirito delle nazioni settentrionali: abbiamo da difendere una civiltà antichissima, che si fa forte di tutti i valori dello spirito, contro una nuova, eretica e falsa, che si fa forte di tutti i valori fisici, materiali, meccanici41.

E sono proprio i “barbari”, coloro che chiama anche i «particulari42», a

rappresentare l'Italia antica e controriformistica nel mondo contemporaneo; la loro irriducibilità ed estraneità al moderno spirito civile sono le caratteristiche che li rendono il fulcro ideale e politico del recupero degli antichi valori, sanando la frattura creata alla fine del Risorgimento tra Stato, urbano e piemontese, e popolo, cioè il resto dell'Italia rurale e provinciale. Questi “buoni italiani” esaltati da Malaparte sono i contadini, i popolani, gente di campagna e di fatica, umili e ingenui, 41 IB, p. 495.

42 Malaparte si riferisce dunque al “privato cittadino”, al «provvido particulare del

Guicciardini», capovolgendo la connotazione negativa associato al concetto guicciardiniano dal De Sanctis in poi.

taciturni, attaccati alla famiglia, alla casa, al paese, rissosi e violenti se minacciati nell'onore o nei valori più intimi, impregnati di un fatalismo pessimistico che non esclude né il sacrificio né il coraggio, schietti e diretti, beceri ma generosi, istintivi. Il polo negativo era costituito dai rappresentanti della civiltà moderna: i politici, gli intellettuali, i falsi patrioti, i borghesi, i capitalisti, «zente refada43», rigonfia di

retorica e di sofismi.

Nei saggi di questi anni emergono alcune caratteristiche che saranno poi costanti, soprattutto nell'attività giornalistica: la vocazione all'osservazione dell'attualità; la riflessione critica sull'Italia e sul popolo italiano, che lo pone nella tradizione dei pensatori civili; la tendenza ad analisi che privilegiano la suggestione, la costruzione di miti, la plasticità delle immagini, rispetto all'argomentazione logico- concettuale e astratta; la variegata formazione culturale, che porta l'autore a servirsi, per i suoi scopi argomentativi, di riferimenti letterari, politici, storici, economici, filosofici, artistici. È interessante notare come Malaparte, alfiere dell'Italia controriformistica, fosse in realtà impregnato, fin nelle origini, proprio di quello spirito moderno ed europeo che voleva combattere: l'origine tedesca da parte paterna, la confessione protestante, la formazione culturale europea, soprattutto francese, l'esperienza nelle trincee e nelle ambasciate di Francia e d'Europa, la cultura e i modi raffinati ne facevano una figura tutto sommato lontana dal mondo che vagheggiava. Il suo populismo era dunque di natura soprattutto intellettualistica ad affettiva, ma non per questo priva di sincerità. Nel Memoriale del 1946, a proposito dell'Europa vivente (e può valere anche per Italia barbara) scrisse: «erano saggi letterarii, nutriti di cultura storica, dai quali esulava ogni pensiero e ogni intendimento politici44»,

affermazione non del tutto corretta, dato che con queste opere egli intendeva acquisire una posizione di rilievo all'interno dell'intelligencja fascista, e influenzarne l'ideologia politica secondo il proprio modello teorico del fascismo integrale. Il forte tasso di letterarietà dei suoi scritti rendeva però le tesi piuttosto vaghe e prive di sbocchi nella pratica politica.

43 «Zente refada», “gente rifatta”, cioè i nuovi ricchi, dal titolo di una commedia del veneto

Giacinto Gallina (1852-1897), che lo scrittore usa più volte per indicare i liberali, la cosiddetta gente “civile”, coloro che dopo il Risorgimento si affrettarono a introdurre in Italia le istituzioni e i valori dell'Europa moderna.

2.2. Dall'impegno politico a quello culturale: «Strapaese» e la polemica