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3. L A RICERCA ESPRESSIVA DEGLI ANNI T RENTA TRA GIORNALISMO E LETTERATURA

3.2. La produzione breve degli anni Trenta

3.2.2. Fughe in prigione

Il periodo che precede la pubblicazione di Fughe in prigione è senza dubbio il più difficile della vita di Malaparte: nel 1933, arrestato e poi condannato al confino a Lipari, entrò in una condizione di profondo abbattimento e di depressione – oltre a subire un brusco peggioramento di salute52 –, durante il quale riuscì a scrivere solo

«una decina di pagine e qualche lirica», come testimoniato dalle lettere di questo periodo53. Da questo stato di prostrazione iniziò a uscire solo dopo il trasferimento

prima a Ischia, nell'estate del 1934, e poi nel novembre a Forte dei Marmi, e con la ripresa della collaborazione al «Corriere della Sera», sotto lo pseudonimo di «Candido»54 (gli era vietato, però, trattare di argomenti di attualità e politica). In una

lettera a Daniel Halévy, dopo aver tracciato le motivazioni del suo lungo silenzio epistolare e raccontato l'angosciante periodo vissuto55, scrisse che finalmente gli era

52 Malaparte soffriva alla gola e ai polmoni fin dalla giovinezza a causa dell'iprite respirata

durante la guerra in Francia. La prigione e il confino a Lipari peggiorarono la situazione, con continue febbri e problemi alle vie respiratorie. Ottenne il riconoscimento come invalido di guerra. Nel 1936 la lesione divenne una fibro-sclerosi polmonare bilaterale, e nel corso degli anni subirà vari interventi, ricadute, riprese, acciacchi, fino alla scoperta del tumore e alla morte nel 1957.

53 Scriveva così a Borelli, in una lettera del 10 novembre 1933, dal carcere: «Ma ahimé, mi

sono accorto che in carcere è impossibile scrivere. Sono tre giorni che tento, tento e non mi riesce di mettere insieme un periodo. Le idee mi si spappolano in testa. La prigione deprime terribilmente i nervi, e ammazza completamente qualsiasi genere di fantasia» (MAL III, p. 314); in un'altra lettera a Margherita Sarfatti, del 30 novembre 1933: «in prigione non si scrive, “non si può” scrivere. Il cervello non funziona, né fra quattro mura, né su uno scoglio. Perciò, addio anche alla letteratura» (MAL III, p. 324).

54 Il primo articolo firmato con lo pseudonimo Candido, che segna la ripresa della

collaborazione al quotidiano milanese è Ulisse in piazza, del 27 luglio 1934. Ricominciò a firmare col proprio nome con l'articolo Scoperta dell'America del 26 novembre 1935.

55 Lettera del 15 novembre 1935, appena trasferito a Forte dei Marmi, che descrive bene lo

sconforto di quei mesi appena trascorsi: «Ho attraversato periodi di grande avvilimento, non m'importava più di nulla, neppure della letteratura. Mi lasciavo andare. Ogni tanto mi riprendevo, tentavo di scrivere qualcosa, poi m'abbandonavo nuovamente. Nei due mesi di Regina Coeli non ho scritto un rigo. Non si può scrivere in prigione. Si pensa, si pensa sempre, con un'intensità straordinaria. Nei sette mesi passati a Lipari, ho scritto una decina

tornata «la febbre del lavoro, il gusto della vita e della lotta56»; che aveva giurato di

non occuparsi più di problemi politici, anche se è evidente che questa fu una scelta forzata, non volontaria, infatti nella stessa lettera continuava: «Ma non riesco a impedire che il mio cervello continui a macinare il saporitissimo grano dell'attualità57».

Nel giugno del 1935, quando fu prosciolto dal confino, Malaparte intraprese una condotta più prudente e un basso profilo, per tentare di risollevarsi socialmente e riprendere l'attività letteraria, senza entrare in urto con il regime. Fughe in prigione, pubblicato nel 1936, segna quindi il ritorno alla vita letteraria58, e come dichiarava

l'autore nella Prefazione, contiene la “prova letteraria” della sua esistenza nonostante il confino, l'esito dei suoi tentativi di fuga, delle evasioni dell'intelligenza e della cultura fuori dalle gabbie della storia e della biografia:

Ho scritto queste pagine durante i miei due anni di prigione e di confino. Mi sono deciso a raccoglierle in volume soltanto per mostrare – a chi mi credesse avvilito dalla schiavitù – che sono rimasto sereno, e libero. […] Ma, più che da un lungo viaggio, son tornato da due anni di continui tentativi di evasione. I criminali, i bruti, tentano di fuggire dal carcere segando le sbarre delle inferriate, calandosi con i lenzuoli dalle alte finestre, da muraglie a picco; o tagliandosi le vene dei polsi. Gli uomini intelligenti, colti, civili, tentano di evadere attraverso l'intelligenza, la cultura, la poesia. Queste pagine sono il racconto delle mie fughe in prigione59.

Raccoglie 27 testi: due inediti, ossia il racconto iniziale intitolato La passeggiata, e Uno scandalo a Parigi; venticinque racconti apparsi sul «Corriere della Sera» tra il 1932 e il 193660, e dunque appartenenti a periodi molto diversi,

Commissione Medica di Messina e quella di Palermo mi hanno tolto ogni volontà di lavorare. A Ischia, in piena estate ho ricominciato a imbastire qualche articolo per il Corriere della Sera, ma fiaccamente. Ogni tanto mi abbandonavo alla mia “stupida” idea di tagliare i ponti con gli amici. Temevo di riuscire seccante, noioso, importuno. Che piacere possono fare le mie lettere (pensavo) ai miei amici, occupati e preoccupati da ben altre faccende, personali e nazionali?» (MAL III, pp. 534-535).

56 Ivi, p. 535. 57 Ivi p. 537.

58 In una lettera a Madame Halévy del 16 settembre 1936 dichiara emozionato: «In questi

giorni esce il mio libro “Fughe in prigione” e sono un po' commosso da questo avvenimento.» (MAL III, p. 726).

59 FIP, pp. XV-XVI.

60 I racconti sono i seguenti, tra parentesi la data della pubblicazione sul «Corriere della

Sera»: Sera nell'alta Scozia (16 dicembre 1934), Il porto (3 ottobre 1934), Donna in riva al

prima e dopo il confino61. L'opera è divisa in due parti, Racconti e memorie e

Sentimenti e viaggi, che rispecchiano il contenuto dei testi. Abbiamo anche in questa raccolta le tipologie incontrate nella precedente, e cioè racconti autobiografici (La passeggiata, Il giardino perduto, Ode alla sibilla cumana, La mamma in clinica, Oggi si vola, Petrarca in camicia rossa, Milziade); d'invenzione (Il porto, Le due sorelle, La visita dell'angelo); storici (Scoperta dell'America, Fine di una lunga giornata, Uno scandalo a Parigi, Miniera), ai quali si aggiungono le rivisitazioni dei miti (La morte di Ettore e La dolce ira funesta, racchiusi da un sottotitolo «Ettore e Achille», e Preghiera per una donna, che è una rilettura del mito di Orfeo ed Euridice), e alcuni testi descrittivi.

I racconti autobiografici sono tra i più interessanti: vi sono racconti legati al mondo dell'infanzia, all'adolescenza, all'età adulta, segnati da esperienze particolari come la guerra e il confino. Malaparte è narratore e protagonista, ma l'esperienza autobiografica, ricostruibile attraverso gli episodi narrati e i personaggi che compaiono, non è sempre realistica: spesso realtà e meraviglioso si fondono nei ricordi d'infanzia e di adolescenza, dove prendono corpo visioni e sogni ad occhi aperti di timori, ansie, tormenti del bambino e del ragazzo.

Ne Il giardino perduto Malaparte racconta che da bambino era ossessionato dal pensiero della morte, e che questo mistero turbava le sue giornate. Il pensiero che fra tutti immortali lui solo fosse destinato a morire minaccia la quiete anche nella famiglia, dove il Malaparte bambino si sente incompreso. Allora decide un giorno di (con il titolo La valle dei morti, 12 novembre 1935), Visita dell'angelo (23 febbraio 1936), Le

due sorelle (18 ottobre 1935), Morte di Ettore (12 luglio 1935), la dolce ira funesta (4 agosto

1935), Il giardino perduto 23 aprile 1935), Ode alla Sibilla Cumana (1 maggio 1935), La

mamma in clinica (21 settembre 1935), Miniera (13 gennaio 1933), Uomini in gonnella (10

giugno 1933), i cervi (con il titolo I cervi e il latino, 14 luglio 1933), Altre terre deserte (30 giugno 1933), Nascita di un fiume (24 dicembre 1932), Toscana immaginaria (23 maggio 1933), Oggi si vola (3 dicembre 1935), Milziade (24 luglio 1935), Sotto i ponti del Tamigi (22 gennaio 1933), Petrarca in camicia rossa (21 dicembre 1935), Scoperta dell'America (26 novembre 1935), Fine di una lunga giornata (11 novembre 1934), Hotel Jules César (che è una narrazione unica di cinque dei sei articoli del reportage dalla Provenza: Un sobborgo di

Roma in Francia, Albergo Giulio Cesare, Giulio Cesare eroe provenzale, I piccoli fanti di Giulio Cesare, Da Tartarino ai Campi Elisi, usciti tra il luglio e l'agosto del 1933).

61 È lo scrittore stesso che spiega questa scelta nella prima prefazione all'opera: «Vorrei dir

la ragione che mi ha indotto ad aggiungere, alle pagine del tempo della mia prigionia, alcune scritte in Francia e in Inghilterra, poco prima del mio arresto. Le ho aggiunte perché l'attento lettore possa misurare, dal confronto, quanto sia breve il passo dalla libertà alla schiavitù, e

fuggire per andare a vivere nel bosco, dove si perde e scopre la vita quasi incantata della natura. Dopo un'iniziale paura e smarrimento, egli impara i suoni, i colori, le vibrazioni del mondo che lo circonda, e sembra trovarsi in un “paradiso edenico”. La sottotraccia biblica è molto forte, fino al finale in cui l'incontro con un serpente provoca il terrore e lo svenimento del bambino, salvato dalla sorella, di cui Malaparte sottolinea il nome, Maria, come la Madonna, che ha schiacciato il serpente-Satana. Il racconto si configura insomma come una sorta di cammino iniziatico del bambino verso l'età adulta, con la scoperta del male e della morte, simboleggiate dal serpente, e la “caduta” dell'uomo da una primitiva condizione di innocenza e immortalità, che è l'infanzia.

Anche nell'Ode alla Sibilla cumana viene raccontata una iniziazione che presiede al passaggio dall'adolescenza all'età adulta, sempre caratterizzato dal mistero della morte. Ancora vi è lo smarrimento e il vagare del bambino Malaparte per la campagna alla ricerca dell'antro della Sibilla per scendere vivo all'inferno, come nell'antichità, unico modo di affrontare la propria paura e di liberarsi del pensiero ossessivo della morte. Anche questo racconto si conclude con lo svenimento del protagonista. Un'infanzia turbata e inquieta quella di Malaparte, lontana da quell'immagine stereotipata spensierata e inconsapevole, che mette l'accento sulla sua diversità e sulla sua sensibilità estrema.

All'età adulta afferiscono La mamma in clinica e La passeggiata: il primo narra del ricovero della madre dello scrittore a Firenze, ed è ambientato in una stanza d'ospedale dove madre e figlio dialogano in un reciproco rapporto di specchi, che fa affiorare ricordi ed episodi. Il rapporto con la madre è al centro anche di altri testi malapartiani ed è molto interessante perché è chiaro che esso costituisce un nodo non risolto della sua intimità: la figura della madre è al centro dell'inquietante Ippomatria (in Sangue); e il “romanzo” postumo Mamma marcia è tutto incentrato, come si è già visto, sul dialogo tra lo scrittore e la madre morente. È come se la figura della madre fosse una sorta di doppio, in cui egli si riflette e si rivede con tutte le sue fragilità e le sue paure, una figura in grado di metterlo a nudo. Tornano anche nei dialoghi di Mamma marcia i ricordi dell'infanzia coi primi incontri con la morte, che egli trasfigura nel racconto di passeggiate notturne per la campagna toscana in compagnia

delle ombre di Edo, dei suoi cani, di Agenore (il barrocciaio Agenore di cui si dice fosse andato vivo all'inferno seguendo il suo cavallo morto). Afferma che la sua stessa scrittura nasce dalla morte:

E certo è da loro che ho imparato tutte le cose meravigliose di cui son pieni i miei libri, e che soltanto i morti conoscono. Ho imparato da loro quel mio modo di guardare un paesaggio, un albero, una casa, un animale, una pietra. Ho certo imparato da loro a capire certi liguaggi della natura, il linguaggio delle cose animate e quello delle cose inanimate […] a non aver paura della morte, ad aver più paura della vita che della morte. […] Da quelle mie fughe notturne mi è rimasto quest'odio per la vita, per questo dono funesto, e questa affettuosa pietà per gli uomini, per la loro tristizia, per la loro crudeltà, per la loro ostinazione nel fare il male agli altri e a sé medesimi, nel far soffrire gli altri62.

Anche in questo ricordo d'infanzia, in un'opera composta nel 1951-52, il bambino sviene, e il risveglio assume così il significato di un ritorno dal regno dei morti, un ritorno alla vita che porta con sé un acutizzazione dei sensi, una capacità misteriosa di leggere il linguaggio della natura e delle cose mortali, un “potere” che è poi quello fantastico della scrittura: una «morte vissuta63», immaginata, creata,

meditata, dalla quale nasce l'intera letteratura di Malaparte.

Il racconto inedito iniziale, La passeggiata, è interessante poiché narra in terza persona il trasferimento del detenuto Boz dal carcere di Roma al confino nell'isola di Lipari, accompagnato da due carabinieri e dalla madre: non è difficile scorgere l'autore sotto il personaggio di Boz, che grazie alla narrazione extradiegetica riesce a porsi con distacco rispetto alla sua esperienza e ai suoi sentimenti, proponendo un ritratto ideale di sé, soffuso di grande dignità e stoicismo, nella difficile prova della prigionia, rovesciando la prospettiva del carcere e del confino: Boz si sente, infatti, smarrito nel mondo esterno, e si volta anche indietro a controllare di essere seguito dagli agenti, appare quasi «felice». Malaparte rivendica 62 MMAR, pp. 30-31.

63 L. M

ARTELLINI, Malaparte narratore, in ID., Nel labirinto delle scritture, op.cit., p.140. Scrive

Martellini: «Se si pensa poi che tutta la produzione di narratore che seguirà dal '30 fino alla morte […] sarà segnata da una morte vissuta (dal momento che l'aveva conosciuta nel corso di ben due guerre mondiali) e memorialmente elaborata a livello di scrittura […] se si pensa a ciò, dicevamo, non possiamo non notare come ci si sia sempre soffermati (e accaniti) su un Malaparte “minore” coi suoi peccati di gioventù e, al contrario, sia passata quasi sotto silenzio la produzione narrativa che via via andava faticosamente maturandosi dagli anni

in modo paradossale la sua condizione di prigioniero come la scoperta di una verità esistenziale: «il proprio dell'uomo non è di vivere libero in libertà ma libero in una prigione64», accentuando il senso di separatezza dagli altri e ponendosi al di sopra

degli eventi e degli altri uomini. È allo stesso tempo un ritratto molto intimo, in cui l'autore mostra una parte di sé molto vulnerabile; la “prigione” diventa la metafora della sua esistenza:

Sentiva che la cella n.461 del 4.o Braccio di Regina Coeli, dove era vissuto per tutto quell'enorme tempo, ed erano appena sessanta giorni, era dentro di lui, era rimasta dentro di lui: era divenuta la forma segreta del suo spirito. Pensò a un uccello che avesse ingoiato la propria gabbia. Si portava la sua cella con sé, dentro di sé, in quel viaggio verso Lipari, come una donna incinta porta il suo bambino nel ventre65.

Con questi racconti autobiografici di Fughe in prigione, Malaparte continua a costruire un suo autoritratto ideale, mescolando realtà ed elementi visionari e fantastici, un «doppio» letterario, che prenderà forma ancora in Sangue, e in Donna come me, dove addirittura l'autoritratto letterario si scomporrà in un caleidoscopio di metamorfosi e visioni surreali.