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Dall'impegno politico a quello culturale: «Strapaese» e la polemica con

2. L' INTERVENTISMO POLITICO CULTURALE DEGLI ANNI V ENTI

2.2. Dall'impegno politico a quello culturale: «Strapaese» e la polemica con

All'indomani della scomparsa di Matteotti, fondò una rivista politica, «La Conquista dello Stato», uno degli organi principali del fascismo intransigente e squadrista; collaborò sin dal 1924 a «Il Selvaggio»; nell'ottobre del 1926 prese il posto di Prezzolini alla direzione della casa editrice «La Voce» quando questi si trasferì in Francia e poi negli Stati Uniti; nello stesso anno iniziò la collaborazione anche a «L'Italiano» di Longanesi, a «La Fiera Letteraria45», di cui diventò

caporedattore, e sui cui tenne una rubrica di polemica letteraria e di costume («Foglie della Sibilla»); sempre nel 1926 fondò, insieme a Bontempelli, la rivista «900».

Dalla metà degli anni Venti si accentua l'impegno letterario su quello politico46, primi segni di una disillusione, che si faceva più convinta man mano che

Mussolini rivelava il suo volto autoritario. Nel 1926 la situazione politica era, infatti, completamente cambiata rispetto a soli due anni prima: la battaglia per il fascismo integrale che lo scrittore aveva condotto su «La Conquista dello Stato», poteva pressoché considerarsi conclusa con una sconfitta, Mussolini intraprese la strada della normalizzazione in senso totalitario e repressivo, direzione che Malaparte non mancò di criticare aspramente dal suo giornale, schierandosi spesso apertamente contro il capo del governo nel nome della “vera” rivoluzione fascista47. Verrebbe

quasi da dire, considerati i suoi interventi teorici e l'antimussolinismo dimostrato 45 Dal 1929 col titolo di «Italia letteraria» ne fu anche direttore insieme a Angioletti.

46 Arrivò però il momento in cui egli si accorse che l'interesse per la politica era conciliabile a

fatica con la vocazione letteraria, tanto da innescare una crisi esistenziale che in un articolo del luglio 1927 su «La Fiera letteraria» egli drammatizzò curiosamente mettendo in scena un duello mortale tra “il politico Suckert” e “lo scrittore Malaparte”, in una lotta a colpi di spada e di battute che ha fine con l'uccisione di Suckert da parte di Malaparte e dunque la vittoria della letteratura sulla politica (C. MALAPARTE, Un duello mortale, «La Fiera letteraria», 24

luglio 1927, in MAL II, pp. 80-82).

47 Si leggano gli articoli che pubblicò su «La Conquista dello Stato», dai titoli eloquenti: C.

SUCKERT, Tutti debbono ubbidire, anche Mussolini, al monito del fascismo integrale, «La

Conquista dello Stato», n°17, 28 dicembre 1924, in MAL I, pp. 479-480; ID., Che cosa intendiamo per rivoluzione fascista, «La Conquista dello Stato», n° 3, 25 gennaio 1925

(sequestrato), in MAL I, pp. 513-516; ID, Mussolini si proclama integralista. Ma quando attueremo il fascismo integrale?, «La Conquista dello Stato», n° 12, 22 marzo 1925, in MAL

I, pp. 543-544); ID., O muore lo Stato liberale o muore il fascismo, «La Conquista dello

negli articoli, che più che “fascistizzare” il suo pensiero, egli volesse, narcisisticamente, quasi “malapartizzare” il fascismo, che andava sempre più identificandosi con il suo capo, fino alla creazione del mito del duce. Tra il 1925 e il 1926 furono varate le cosiddette “leggi fascistissime”, per mezzo delle quali ogni opposizione politica e culturale al regime fu messa a tacere. La stretta censoria e autoritaria colpì gli intellettuali e i giornali di opposizione, ma anche quelli fascisti, tanto che «La Conquista dello Stato» fu più volte sottoposta a sequestro, e dopo il 1926, Malaparte ne andò via via diradando le pubblicazioni fino alla completa cessazione nel 1928, quando la rivista era ormai priva di ragioni di esistenza. Le preoccupazioni principali degli articoli pubblicati tra il 1926 e il 1928 furono la proclamazione della necessità di una rivoluzione letteraria, cioè di una letteratura nuova che accompagnasse il nuovo corso politico – e qui si inserisce la partecipazione al dibattito sull'arte fascista48 – e la difesa della libertà intellettuale e

dell'esercizio di critica, sentite come fondamentali risorse di una grande nazione. Questa «rivoluzione letteraria49», che secondo Malaparte era alle porte, consisteva

nella rinascita del «sano, schietto, e vivo spirito letterario di casa nostra50», contro

l'egemonia straniera: era «un problema di libertà», «di vedere oltre i termini posti dall'altrui esperienza alla nostra immaginazione d'uomini liberi51», di riuscire ad

andare oltre i modelli preconfezionati dalle tradizioni straniere ed europee. Non è 48 Il dibattito occupò la rivista «Critica fascista» dall'ottobre del 1926 al febbraio del 1927, la

posizione di Malaparte fu molto netta e polemica: egli sconfessò in modo deciso la produzione artistica ufficiale di regime, elargita e magnificata dalle istituzioni a dispetto del buon gusto e del talento, l'arte “con la tessera”, quella dei mediocri che hanno conservato uno «spirito decadutissimo e degeneratissimo», e cioè quello romantico, neoclassico e cosmopolita della modernità europea ( Vd. C. MALAPARTE, Arte e buon gusto, «La Conquista

dello Stato», n° 13, 15 dicembre 1926, in MAL I, p. 868; è lo stesso articolo, con qualche modifica non sostanziale, pubblicato in «Critica fascista» col titolo Botta e risposta nel novembre 1926). Il dibattito si concluse con l'articolo Resultanze dell'inchiesta sull'arte

fascista, che sancì solo la difficoltà e la complessità del problema, senza l'elaborazione di

una proposta estetica condivisa, ma indicò una generica tendenza da seguire, e cioè soprattutto quella della tradizione italiana, eliminando qualsiasi contenuto ad essa estranea e di derivazione straniera (come la psicanalisi), seguendo le linee tematiche della politica fascista (il nazionalismo, il mito dell'italianità, della campagna...), lasciando alla libertà creativa degli artisti la questione dello stile. L'inchiesta dichiarava anche la dipendenza dell'arte dalla politica e la concezione dell'artista come servitore dello Stato, quindi del fascismo.

49 C. M

ALAPARTE, Rivoluzione letteraria, «La Conquista dello Stato», n°1, 15 gennaio 1927.

50 C. M

ALAPARTE, Formule vecchie e spirito nuovo, «Il Resto del Carlino», 2 febbraio 1927, in

chiaro però in cosa consistesse dal punto di vista estetico tale «rivoluzione letteraria», sebbene Malaparte ne avesse annunciato più volte i segni senza darla mai per avvenuta. Un tentativo di rinnovamento letterario si scorge nelle opere di questo periodo, nate all'interno del movimento strapaesano, forse l'unica proposta culturale viva e originale nata nell'alveo fascista. In questi anni, scrisse, come si approfondirà più avanti, romanzi satirici pubblicati parzialmente, a puntate, Don Camalèo (su «La Chiosa») e il Reame dei cornuti di Francia (su «L'Italiano»); la prima opera narrativa malapartiana, Avventure di un capitano di sventura e la raccolta di rime dell'Arcitaliano, oltre alla pubblicazione di alcuni racconti su quotidiani e riviste.

La risposta militante alle riflessioni letterarie e culturali di Malaparte fu la collaborazione alla rivista «Il Selvaggio», diretta da Mino Maccari a Colle Val d'Elsa, organo del fascismo intransigente e rurale, che con la chiusura della lotta politica e di ogni possibilità di critica interna, si dedicò alla battaglia culturale, artistica e di costume52. Ad affiancare Maccari e Malaparte arrivò presto anche «L'Italiano», la

rivista di Leo Longanesi53, nata nel gennaio del 1926, come emanazione del fascio

bolognese, e fin da subito schierata in appoggio ai selvaggi.

Nasceva il movimento di «Strapaese», di cui Malaparte fu uno dei più accesi animatori, che proclamava la superiorità della tradizione italiana rurale e paesana contro la modernità urbana ed esterofila, luogo fantastico di vagheggiamenti ed evasioni, caratterizzato da una ironia tagliente e una comicità scoppiettante che avevano come bersagli principali il malcostume della classe dirigente fascista, l'imbecillità dei suoi rappresentanti, la classe liberalborghese e la retorica del regime.

Possiamo così riassumerne le caratteristiche principali: un nazionalismo dalle 52 Nel marzo del 1926, Mino Maccari, in un articolo intitolato significativamente Addio del

passato, sancì programmaticamente il nuovo corso della rivista, basato sul disinteresse per

la politica e la scelta definitiva per l'impegno artistico, che si può vedere certamente come un surrogato dell'azione politica ormai preclusa (M. MACCARI, Addio del passato, «Il Selvaggio»,

2°, 1926, in L. TROISIO (a cura di), Le riviste di Strapaese e Stracittà. Il Selvaggio – L'Italiano - '900, Treviso, Canova, 1975, p. 66).

53 «L'Italiano» fu fondata nel gennaio 1926 da Leo Longanesi, a Bologna. Anticonformista e

irriverente, Longanesi curò in modo particolare la scelta dei testi letterari e la grafica, e fu tra i primi in Italia a inserire fotografie satiriche e di costume (a Longanesi si deve anche la creazione del primo rotocalco italiano, Omnibus, nel 1936). Notevole attenzione investì nella veste tipografica della rivista, con il riutilizzo di caratteri antichi e dimenticati. Fu più aperta alla pubblicazione di testi e opere straniere, mentre «Il Selvaggio» si tenne strettamente sulla produzione nazionale.

forti tinte locali e paesane (soprattutto toscane); un profondo e aggressivo spirito antiborghese; l'avversione per la modernità, che prende le forme dell'antieuropeismo e dell'antiamericanismo; la satira feroce e comica del fascismo, senza sconti per i capi; l'insofferenza per la retorica, per la pomposità del costume fascista e del culto imperiale e personale del duce; l'esaltazione del popolo italiano. Si trattava di un populismo a tratti ingenuo e incantato, basato sulla idealizzazione del “popolo” come depositario di tutti i valori positivi; ne viene fuori un'immagine del popolo a tratti stereotipata e superficiale, anche se sincera. Nell'articolo di Maccari Addio del passato si definivano i selvaggi come i «buffoni di Mussolini54», ma la leggerezza del

gioco era solo superficiale:

Ci perviene da fonte ben informata che il nostro Duce fa delle matte risate leggendo "Il Selvaggio". Siamo felici di procurare un attimo di buon umore al nostro amato Capo, perché anche questo fa parte del programma di Strapaese. Notiamo però che se ne “Il Selvaggio” si trova di che ridere, leggendo bene tra le righe si può anche trovare di che piangere. Che il Duce pianga non desideriamo (non ci mancherebbe altro!) ma che Egli legga bene tra le righe è pure nel nostro programma55.

Ecco, dunque, il risvolto politico dell'ironia strapaesana: essa si configurava come una denuncia sottotraccia del malcostume e del tradimento della rivoluzione; una presa in giro apparentemente leggera che andava però a colpire con aggressiva puntualità le mancanze e le nefandezze del regime. Attraverso la satira e l'ironia, il motto, la facezia e il riso gli strapaesani potevano “dire senza dire”, continuare a pungolare la società sul versante del costume e della cultura, dire delle verità mascherandosi con gli abiti del giullare56.

L'esperienza di «Strapaese», col suo caleidoscopio di disegni e di vignette satiriche, mise in contatto lo scrittore con un serbatoio di immagini che agiranno 54 M. M

ACCARI, Addio del passato, «Il Selvaggio», 2°, 1926, in L. TROISIO, op. cit., p. 67.

55 O

RCO BISORCO, Gazzettino ufficiale di Strapaese, «Il Selvaggio», 10 novembre 1927.

56 I selvaggi si ritagliarono così un'oasi di sopravvivenza, ma sempre all'interno del regime; la

critica e la satira erano portati avanti sotto la bandiera di una sorta di “ultrafascismo”, puro e primigenio, di cui si proclamavano i difensori. Nonostante le censure, i sequestri, le riviste non furono mai soppresse dal regime perché esse rappresentavano una “valvola di sfogo” delle spinte centrifughe del mondo intellettuale e civile, una sorta di “recinto” di libertà, funzionale alla dittatura, che controlla tanto il consenso quanto il dissenso; esse non si configurarono mai come movimento di opposizione, ma operarono in una posizione di fronda

sottoforma di suggestioni e di visioni nella descrizione dell'Europa in decomposizione degli anni Trenta-Quaranta. Maccari e Longanesi furono molto influenzati, infatti, dall'espressionismo tedesco e da artisti quali Grosz, Otto Dix, Ensor, Gulbransson, fino al Goya nero dei Capricci e dei Disastri della guerra; le opere di questi artisti comparvero sulle riviste, soprattutto su «900» e «L'Italiano». Enorme fu l'influsso sullo scrittore toscano: ritroviamo la mediazione della loro arte nella rappresentazione della borghesia e dei potenti, nella descrizione dei vinti e degli umili, nella stessa concezione della realtà deformata e grottesca dell'Europa in guerra, nella tecnica del simbolismo e dell'allusività allegorica; essi diventano una sorta di filtro della realtà descritta, come se lo spettacolo dell'Europa in macerie e in fiamme non potesse essere raccontata se non attraverso uno “specchio”, quasi che la realtà copiasse l'arte. L'importanza della palestra strapaesana si intravede anche nella satira del potere e del mondo della diplomazia nei romanzi della maturità, nelle battute del Malaparte personaggio coi suoi interlocutori, nella presenza di veri e propri aneddoti intercalati nel racconto, dal sapore grottesco e ironico.

Nell'autunno del 1926 era nata anche la rivista «90057», fondata da Malaparte

e Bontempelli e diretta da quest'ultimo. Per Malaparte, «900» sarebbe stata una rivista di promozione e di diffusione della letteratura italiana contemporanea, in particolare di quella letteratura espressione del nuovo spirito dei tempi; in questa prospettiva, la lingua francese adottata dalla rivista doveva essere uno «strumento puramente meccanico58» di diffusione. Anche per Bontempelli la rivista avrebbe

dovuto «sottolineare e favorire gli spiriti nuovi» del secolo, ma ciò implicava per lui, al contrario, l'apertura dell'Italia all'Europa, dichiarando la necessità di una sprovincializzazione, seppure in un'ottica «imperialistica» e non internazionalistica59.

I dissidi furono sin da subito notevoli, tanto che Malaparte abbandonò poco dopo il progetto, e pubblicò su «900» un solo articolo60.

57 La rivista «900», fondata a Roma da Bontempelli e Malaparte, aveva come sottotitolo

«Cahiers d'Italie et d'Europe», era scritta in lingua francese, con cadenza trimestrale e alla sua apparizione suscitò subito molte polemiche. Dopo poco tempo fu imposto l'uso della lingua italiana, ma la rivista ebbe una vita abbastanza breve: dopo una sospensione di quasi un anno dall'autunno del 1927 al luglio del 1928, le pubblicazioni cessarono nel 1929.

58 C. Malaparte intervistato da «La Fiera Letteraria», 1° agosto 1926, in MAL I, p. 828. 59 Massimo Bontempelli intervistato da «La Fiera letteraria», 29 agosto 1926, in MAL I, p.

836.

60 C. M

La rivista rimase così organo del pensiero esclusivamente bontempelliano, basato sull'assunto teorico del «novecentismo», cioè l'arte di tutti coloro che vivono nel XX secolo, facendone coincidere l'inizio non con i primi anni del secolo bensì con il 1922, anno dell'instaurazione del fascismo. Bontempelli rifiutava l'Ottocento e le sue «malattie spirituali», psicologismo, impressionismo, estetismo, idealismo e spirito democratico. Il “nuovo tempo” aveva bisogno di reinventare le dimensioni di spazio e di tempo e una nuova realtà esterna attraverso l'immaginazione. Il “novecentismo” doveva dunque consistere nella capacità di creare i miti, le favole, i personaggi del nuovo tempo. Tutto questo sarebbe confluito nella formula del “realismo magico”: esso rifiuta, cioè, tanto «la realtà per la realtà» quanto «la fantasia per la fantasia e vive del senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose61»; un'arte che univa la precisione realistica all'atmosfera magica,

in grado di alludere e far sentire un'altra dimensione “nascosta”, rispetto a quella della realtà esterna, come pienamente espresso nelle opere dei pittori del Quattrocento, Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca62. Il “novecentismo” non

doveva essere considerato, però, un'avanguardia come il futurismo, dunque un movimento «aristocratico», bensì esso tendeva «ad avvincere il pubblico», a farsi «popolare». Il rifiuto della tradizione nazionale, considerata il «rimasticamento della decadenza europea63», è uno dei maggiori punti di netto contrasto con il pensiero

malapartiano e strapaesano, il quale invece ripudiava la modernità come “prodotto” straniero importato dalla Francia e dall'Inghilterra. Maccari e compagni non rifiutavano tuttavia l'idea di modernità tout court, anzi, credevano che la sola modernità plausibile per l'Italia fosse quella costruita nel solco dalla tradizione, non vissuta come un limite, bensì come un passato da cui attingere gli elementi vivi per il presente.

Malaparte e il movimento di «Strapaese» polemizzarono con aggressività nei de printemps, 1927, pp. 90-102.

61 M. BONTEMPELLI, Giustificazione, «900», 1°, 1926, in L. TROISIO, op. cit., p. 281.

62 «Quanto maggior peso e solidità dava alla sua materia, tanto più teneva a suggerirci che il

suo amore più inteso era per qualche altra cosa attorno o al di sopra di essa. Con più diligenza e perfezione la sua mano serviva le tre dimensioni, più la sua mente vibrava nell'Altra. Più sentivasi fedele e geloso della Natura, meglio gli riusciva isolarla avviluppandola d'un pensiero fisso alla sopranatura» (M. BONTEMPELLI, Analogie, «900», 4°,

confronti di Bontempelli e della sua corrente chiamata «Stracittà», e la disputa occupò tutta la fine degli anni Venti; essa fu animata soprattutto dallo scrittore pratese e dai selvaggi di Maccari, per tentare, forse, anche di smuovere un panorama letterario ed artistico tutt'altro che vivace, effetto dell'instaurazione della dittatura e del soffocamento delle libertà, oltre che della fascistizzazione del campo culturale. Malaparte, contrariamente a quanto alcuni hanno sostenuto, non fu mai “stracittadino” e di conseguenza non passò da uno schieramento all'altro: leggendo i suoi scritti dell'epoca risulta chiara l'adesione convinta al modello culturale strapaesano64. Nei suoi articoli di intervento nella polemica egli non perde mai

l'occasione di distinguere e dividere il campo, certo semplificando, ma con il pregio di riuscire a creare sempre delle immagini estremamente esemplificative del suo pensiero: i «milanesi di Grenoble65», come Malaparte apostrofa i novecentisti di

Bontempelli, sono gli “italiani civili66”, urbani, moderni e filoeuropei, che hanno

acquisito modi e cultura internazionali, e che abitano «Stracittà», in contrapposizione agli “italiani di Strapaese”, che difendono lo spirito e i costumi italiani, gente onesta, autentica, mai affettata e retorica. Da una parte, dunque, l'esaltazione della città come luogo della modernità e del “nuovo tempo”, in cui abitano anche la retorica, l'artificio e l'ampollosità intellettuale, l'industrializzazione, i modi democratici; dall'altra parte, il luogo della tradizione paesana e rurale, dell'Italia popolana, violenta e passionale, rozza ma sincera, onesta, religiosa e saggia: il luogo degli italiani «antichi».

64 Quasi tutti i testi che parlano dello scrittore affermano che egli fondò «900» e «Stracittà» e

passò all'opposto schieramento di «Strapaese»; invece, dopo aver letto attentamente le sue pagine di questi anni, non possiamo che essere d'accordo con Giuseppe Pardini, il quale scrive: «Malaparte non condivise mai – questo è bene sottolinearlo, perché talvolta la critica frettolosa tende a collocare il pratese indifferentemente in entrambi i fronti – la prospettiva stracittadina (di cui era sostanza l'impostazione novecentista di Bontempelli), e in nessuna delle tante pagine da lui scritte ci sono tracce di accettazione di quella linea e di quelle tematiche. Al contrario, tutti gli scritti letterari malapartiani della fine degli anni Venti andranno proprio nella direzione stilistica strapaesana, sì che – alla fine – gli unici lavori strapaesani importanti (se vogliamo fare eccezione per il racconto Vita di Pisto, di Romano Bilenchi) risulteranno solo quelli dello scrittore pratese» (G. PARDINI, Curzio Malaparte. Biografia politica, cit., p. 211).

65 C. M

ALAPARTE, Milanesi di Grenoble e italiani di Strapaese, «Fiera Letteraria», 12 giugno

1927, in MAL II, pp. 69-70.

66 C. M