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2. L' INTERVENTISMO POLITICO CULTURALE DEGLI ANNI V ENTI

2.3. Malaparte al sacco di Prato

Il «romanzo picaresco68» Avventure di un capitano di sventura, pubblicato per

la prima volta nel 1927 dalla casa editrice anonima La Voce con la cura di Leo Longanesi69, ha per protagonista una banda di cenciaioli pratesi che, per dispetto ai

borghesi e ai potenti della città, rubano la sacra cintola della Madonna custodita nel Duomo di Prato, e venerata come «il palladio del popolo pratese70», dando origine a

una serie di situazioni avventurose e comiche. La storia è narrata dal capo della banda, Malaparte, cenciaiolo di Santa Trìnita. Partecipa alle scorribande anche uno strano e buffo personaggio, il cavaliere di Marsan, capitano del reggimento francese al servizio del Duca di Vendôme, durante l'assedio di Cremona del 1702, partito alla ricerca di rinforzi e perdutosi in Toscana e nel tempo: come scrive Malaparte, egli è rimasto «fuori dalla storia», per duecento anni. Dopo la rocambolesca impresa la banda si dà alla macchia nelle campagne intorno alla città, vagabondando e vivendo di piccoli saccheggi a cantine e fattorie, fino a quando, annoiati e stanchi di questo brigantaggio, decidono di riportare la cintola in Duomo, in un susseguirsi di botte, di urla, di confusione che culminano nel finale sul sagrato del Duomo, in una scena corale alla presenza di tutto il popolo: i pratesi assistono davanti ai loro occhi all'invecchiamento repentino e grottesco del cavaliere di Marsan.

Il racconto che, come scrive Grana, «è una sorta di istoria cavalleresca volta in cronaca popolare e casalinga, alla maniera del Pulci […] una commedia e favola

67 U. F

RACCHIA, Il Malaparte al sacco di Prato, in «L'Italia letteraria», 10 luglio 1927 (MAL II,

pp. 72-75).

68 Dal Memoriale 1946, in MAL II, p. 218. 69 C. M

ALAPARTE, Avventure di un capitano di sventura, Firenze, La Voce, 1927. Leo

Longanesi curò il libro in ogni sua parte, dall'impaginazione alla copertina; nel 1928 uscì la seconda edizione, sempre per la Casa editrice anonima La Voce a cura di Longanesi.

70 Dal Memoriale 1946, in MAL II, p. 76. In questo passaggio Malaparte offre una sinossi

dell'opera: «[...] io immagino di aver organizzato a Prato una banda di cenciaioli, di essermi messo alla loro testa, di aver rubato, nel Duomo di Prato, la sacra cintola della Madonna, venerata come il palladio del popolo pratese, per fare una beffa ai grassi borghesi della città, di essermi dato alla macchia con la mia banda di cenciaioli, e di aver finalmente riportato la sacra cintola in Duomo, approfittando di quell'occasione per riappacificarmi con i grassi e i codini di Prato. Quel mio libro è pieno di duelli, di zuffe, e di scene picaresche tutte, naturalmente, immaginarie, e svoltesi in un tempo immaginario, mitico, che è quello della

ariosa e beffarda71», incomincia con l'esposizione, da parte del cenciaiolo Malaparte,

del movente delle vicende: «M'ero messo in testa da qualche tempo di farla finita una buona volta con i cattivi uomini della mia città, e di punirli senza misericordia del disprezzo ch'essi avevano, e hanno, per le genti libere e di buona fede72». È

un'esigenza di giustizia alla base dell'intreccio del racconto, un tentativo di difesa della libertà e dell'onestà del popolo pratese contro coloro che egli apostrofa con gli epiteti dispregiativi e ironici di «barbogi», «grassimagri», «codini». Il mestiere del cenciaiolo ha sempre affascinato l'autore, che lo definisce il mestiere «più nobile, il più italiano e il più antico73», tanto che qui si cala egli stesso nei panni di uno di loro,

o meglio, del capo dei cenciaioli, vero e proprio alter ego dello scrittore. Questo immaginario cenciaiolo è allo stesso tempo un lavoratore dei più umili, dalle rozze abitudini, ma anche un uomo colto, dotato di una notevole cultura storica, ed è un abile e scaltro spadaccino (viene soprannominato lo “Sfonda”), come il reale Malaparte.

I cenciaioli vengono descritti come i rappresentanti e i difensori del popolo pratese, una sorta di corporazione dal forte senso identitario e cameratesco, temuta e rispettata grazie a un uso della violenza fisica esercitata al modo per così dire “antico”, cioè con le sole nude mani. Gente libera e onesta, gran lavoratori e buoni padri di famiglia, orgogliosi e pacifisti, ma pronti a difendersi violentemente contro le ingiustizie e le offese, i cenciaioli sono allo stesso tempo amanti della taverna e del bere, del gioco e del fare a botte coi «gabellotti» e «le guardie del piscio» (cioè i funzionari e i carabinieri), appoggiati in ciò dal popolo minuto, che li «stimava buontemponi generosi e maneschi, i soli che sapessero far paura ai nemici della povera gente74». Nel seguente brano, tratto dalle prime pagine del romanzo, il

narratore descrive la vita abituale dei cenciaioli: 71 G. G

RANA, Curzio Malaparte, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 35. Anche Martellini

sottolinea le influenze del Pulci: «Ci si ritrova quasi d'incanto, con questa commedia popolaresca, in un mondo rustico e burlesco dietro la cronaca avventurosa di un 'epica cavalleresca come se Malaparte avesse di proposito voluto ripercorrere le orme di un Pulci o di un Ariosto per creare un Morgante-Orlando tutto paesano, temerario e scanzonato, capace di gesta comiche e picaresche» (L. MARTELLINI, Invito alla lettura di Curzio Malaparte,

Milano, Mursia, 1977, p. 85).

72 AVV, p. 11. 73 Ivi, p. 12. 74 Ivi, p. 15.

Prima di andare come al solito a fare il fiasco, al gioco della briscola o dello scopone, si tirava al bersaglio con certi coltellini di Scarpèria, dal manico fatto a coda di pesce, che ronzavano nell'aria come quadrella; poi si faceva a correre, a saltare, a lanciar pietre, ad alzare pesi, o si giocava a braccio di ferro, a scosciagalletto, a saltacavallo, e a quel gioco pratese che è detto della bella insalatina […] Quando eravamo stanchi di fare i matti, si andava tutti in una fiaschetteria, appena fuori della Porta Santa Trìnita, a giocare a scopone con i gabellotti. Spesso la partita finiva a scapaccioni, ed era allora una gran festa di cazzotti che andavano tutti al segno senza pagar la gabella. Correvano i barrocciai, le donne con la treccia di paglia in mano, i ragazzi, i cani, i venditori di ceci e di baccalà, i lupinari, gli stradini, ed era tutto un vocìo, un dar spintoni, un chiamarsi, uno strillar di paura, un bestemmiare, un abbaiare, e un picchiar sodo che metteva allegria. […] Ma qualche volta, quando le guardie del piscio non facevano in tempo ad arrivare in ritardo, a cose fatte, tutto il sobborgo prendeva parte al vespro, in odio alle guardie e alla gabella; le teste e i vetri rotti, allora, non si contavano, e c'era sempre chi approfittava della confusione per far entrare di nascosto in città botti d'olio e di vino e corbelli di salami75.

Questa lunga citazione costituisce un buon punto di partenza per cogliere quasi tutti i temi sviluppati nel romanzo e allo stesso tempo è una pagina in cui si mostra la capacità dell'autore di raffigurare scene di vita popolare e quotidiana, ricreando attraverso lo stile e il linguaggio, la vivacità, la spontaneità e l'allegro trambusto delle contrade cittadine. Il gioco, la taverna, il bere76, che caratterizzano la

vita dei cenciaioli, sono topoi della tradizione comico-realistica, che nella Toscana del Duecento ebbe la sua patria eletta, nutrendo e alimentando vari generi letterari come il romanzo, la poesia dialettale moderna, la satira. Un carattere fortemente toscano, anzi proprio pratese, che si rivela qui nella scelta dei nomi dei personaggi, nei proverbi, nelle abitudini, nei luoghi, nelle tradizioni e nella lingua.

La lingua di Malaparte è infatti ricca di espressività e di vivacità popolare, con l'uso abbondante di dialettismi, sia toscani che pratesi, come «sizza» e «quadrella», che è anche termine del linguaggio letterario, spie di un'assidua 75 Ivi, pp. 13-15.

76 Se i motivi del bere e del gioco sono abbondantemente declinati e presi a costume di vita

del cenciaiolo, quelli dell'amore per il denaro e per la donna trovano poco o nullo spazio: il mondo dei cenciaioli è un mondo di uomini, in cui il lavoro onesto e dignitoso è una componente fondamentale della costruzione della propria identità sociale e la stessa immagine della città di Prato è costruita intorno al mito della città operosa e operaia: «Come tutti i giovani pratesi, che se vogliono guadagnarsi la pubblica stima ed essere introdotti nelle famiglie per bene debbono, presa una laurea, imparare un mestiere (a Prato, dove si lavora da otto secoli, un uomo senz'arte né parte è visto peggio di un ladro), anch'io lavoravo, seduto a gambe larghe dalla mattina alla sera fra balle di cenci e i fiaschi di vino» (AVV, p.

frequentazione della tradizione medievale; con parole del linguaggio basso, colloquiale, materiale e concreto, in una prosa infarcita di battute e di dialoghi comici e ironici, di proverbi e modi di dire, di paradossi e iperboli senza farsi mancare qualche doppio senso osceno. Il richiamo alle feste religiose e ai giochi locali (la rificolona, l'insalatina), la denominazione di luoghi alla pratese, la costruzione di allegre scene corali attraverso l'enumerazione, che crea quell'effetto di trambusto vario e confuso della piazza, spesso in climax, tutto questo ci proietta nel bel mezzo di un popolo sgargiante e orgoglioso, che scende in piazza appena sente fare a botte e prende parte alla vita della città. Un bell'esempio di effetto comico e di estro popolare è l'elenco dei modi di bere dei cenciaioli: «I fiaschi andavano a ruba, com'è giusto che avvenga, passando di mano in mano e di bocca in bocca, vuotati a garganella, a vànvera, a zampillo, a spruzzo, a fontanina e a puppavetro77». In questo

romanzo le scazzottate e le zuffe sono numerosissime, al punto che si rivelò davvero calzante la definizione dell'opera come la «sagra delle legnate78» nella recensione de

«L'Ambrosiano». Le parole ed espressioni sinonimiche, tratte dal linguaggio gergale e colloquiale, sono talmente numerose e varie da poter costituire un vero e proprio repertorio dell'arte del “menare le mani”: scapaccioni, botte, cazzotti, sventole, picchiar sodo, baruffe, vespro, fare a pugni, legnate, bastonate, lattone, ripassata, a furia di zuppe in capo, arrotondarsi la testa l'un l'altro, manate, caramboli, pagare (per “fare a pugni”), piattonate, sorbe, schioppi.

Ma su questo prevalente linguaggio basso e volgare si aprono a volte dei periodi quasi lirici, soprattutto nelle descrizioni delle campagne e delle colline che circondano Prato:

Il vino dolce e chiaro ci metteva addosso la malinconia; e a notte fatta, tornando a piedi per la pineta di Galceti o per la Madonna del Soccorso, andavamo a capo basso, mogi mogi, come soldati di ventura scampati a una rotta: ma ognuno di noi seguiva una sua fantasia, e i nostri cuori erano come orti d'autunno dove i grappoli d'uva matura pendevano dai pergolati attorno al pozzo, i giaggioli fiorivano lungo i filari delle viti, e Amorrorisca ragionava con Celso della bellezza dei giovani pratesi79.

77 Ivi, p. 32.

78 A.L., Un romanzo d'ambiente pratese di Curzio Malaparte. La sagra delle legnate,

«L'Ambrosiano», 1927, in MAL II, pp. 83-84.

79 AVV, pp. 17-18. Si noti il riferimento al Dialogo delle bellezze delle donne di Agnolo

Lo stile e il linguaggio dell'opera sono senza dubbio le componenti in cui si rivelano maggiormente l'abilità letteraria dell'autore. Numerosissimi sono gli esempi di rovesciamenti e paradossi: Malaparte inizia una frase secondo una logica razionale e comune e poi arriva una chiusa che sovverte l'ordine delle cose, ne rivela aspetti inconsueti e bizzarri, spiazzando il lettore e generando l'effetto comico: «e si rincantucciò in fondo alla stanza a farsi guardare in bocca da un fiasco di Carmignano80»; «da via delle Conce sbucarono a un tratto, e ci vennero incontro con

le mazze levate, due leoni vestiti da “guardie del piscio”81»; «quando non facevano in

tempo ad arrivare in ritardo82»; «una tale confusione che ne nacque un po' d'ordine83».

Lo stesso titolo dell'opera è spiegato attraverso un rovesciamento di prospettiva: «in quanto al capitano di sventura, chiamatemi pure così, che mi sta bene. Io sarò la disgrazia dei cattivi pratesi84». Il rovesciamento del senso comune e convenzionale

attraverso l'ironia è uno degli strumenti stilistici più usati dallo scrittore, anzi si può dire che esso è assunto come paradigma gnoseologico, in quanto attraverso di esso viene svelata l'ipocrisia e l'inconsistenza del punto di vista “ufficiale”, dominante.

Il popolo è accomunato dall'odio verso tutti coloro che lo tengono in soggezione: le «guardie del piscio», rappresentanti del potere centrale schierati a difesa dell'ordine liberal-statale; i «pratesi grassi», cioè i ricchi borghesi, i liberali, i «barbogi»; i «grassimagri», i preti, la gerarchia ecclesiastica, contro cui i cenciaioli e tutto il popolo di Prato nutrono un sentimento di ironico disprezzo. Questo anticlericalismo ha la sua scena madre nell'assalto dei cenciaioli al convento di Galceti, nel corso della loro latitanza, rappresentata comicamente come l'assalto di un esercito a una fortezza, con un tripudio di legnate e di colpi in cui i frati non sono da meno dei cenciaioli. La comicità dei gesti e delle battute e il momentaneo disordine dei ruoli, ci riporta alla tradizione comica e burlesca toscana, esplicitamente richiamata («a vederlo da lontano sembra il convento di Morgante, d'Alabastro e di Passamonte, e non a torto i galantuomini pratesi pensano al Pulci, quando la

80 Ivi, p. 43. 81 Ivi, p. 44. 82 Ivi, p. 14. 83 Ivi, p. 62.

domenica vanno a far merenda in pineta85»).

Se il romanzo nel suo insieme presenta un forte carattere anticlericale, non è però contro la religione, intesa come un dato culturale della tradizione italiana, soprattutto nella forma della devozione popolare, che mescola religione e superstizione, sacro e profano, e che avvicina il mondo celeste alla terra tanto da rivolgersi ai santi e alle madonne come persone di casa. Il cattolicesimo rappresenta il terreno culturale comune a tutto il popolo, dagli strati più umili fino a quelli più alti. Davanti alla sacra reliquia della cintola della Madonna i pratesi sono tutti uguali, tutti si riconoscono in quel simbolo e lo venerano come un oggetto in grado di difendere la città. In virtù di questo potere misterioso di intermediazione tra l'umano e il divino, la famosa reliquia è sempre stata oggetto di furti da parte dei pistoiesi, i cenciaioli decidono perciò di appropriarsi di questo simbolo, e allo stesso tempo, per beffa e per sfida all'autorità, scatenando una “guerra” tra guardie e borghesi da una parte, e popolo minuto dall'altra, schierato in appoggio ai cenciaioli per solidarietà di classe. Si allude ironicamente a una sorta di guerra sociale tra i difensori dei poveri e quelli dei ricchi: «vespro», «popolo scalzo», rimandano alle rappresentazioni concettuali e figurative propri del populismo e del socialismo. Tutto il sobborgo partecipa alle sommosse, che poi finiscono regolarmente con la ritirata di tutti nel «pacifico sonno del principe di Condé86». Un paragone esagerato per qualche pugno

tra compaesani, ma tutto il romanzo è pieno di queste iperboli e di paradossi che proiettano sulle avventure dei cenciaioli una luce di eroica comicità, una presa in giro nella scia della tradizione letteraria toscana cinque-seicentesca.

Tra i temi centrali del romanzo vi sono quelli della giustizia e della libertà, pilastri morali della condotta dei cenciaioli: «Se la libertà non s'intende come un beneficio e un privilegio del popolo a danno delle spie, dei barbogi e dei grassimagri, come si deve intendere? Meglio una giustizia senza libertà, che una libertà senza giustizia87». Vi è una esplicita idiosincrasia tra il concetto di giustizia e quello di

85 Ivi, pp. 52-53.

86 Luigi II di Borbone- Condé (1621-1681), quarto Principe di Condé, condottiero francese di

grande talento militare. Si narra che la notte prima della battaglia di Rocroi dormì profondamente, affaticato ma anche tranquillo perché per il giorno della battaglia aveva disposto tutto.

legalità: lo Stato e i suoi rappresentanti sono visti come ingiusti, oppressori, la legge è intesa come uno strumento dei liberali, dei borghesi, dei politici, per opprimere e sfruttare il popolo, che ha il diritto di vendicarsi attraverso l'esercizio della violenza, nucleo a cui ruotano le avventure di tutto il romanzo. Siamo, però, al livello di una forza non organizzata politicamente, al rango di sommossa, di uno sfogo violento ma momentaneo. La spontaneità e la volubilità di questi “vespri”, privi di guide politiche in grado di gestire le rivendicazioni sociali, ci riporta a un tempo preindustriale.

I cenciaioli in più punti del romanzo lasciano trasparire il loro odio per i tiranni e l'amore per la libertà, come si può notare dal dialogo seguente, nel momento del primo incontro con il cavaliere di Marsan, che chiede notizie del re Luigi XIV, ignorando l'anno e il tempo in cui si trova, e apprende che è morto da ben due secoli:

- Siamo tutti, intervenne il Boghe, della scuola del Mazzoni, triumviro di Toscana nel quarantanove, che per darci coraggio andava dicendo che i re sono invenzioni di chi n'ha paura, e che i tiranni non son mai nati.

- O che moiono tutti da piccini, concluse il Dado.[...]

- Se accetti un consiglio, disse il Pìmpero al Cavaliere di Marsan, io ti giuro che al posto tuo non me la piglierei tanto. O quando mai s'è visto un signore come te piangere perché ha perso un luigi?

- Se giochi a scopone, e vinci, intervenne il Catriosso, con cinque scudi te li rifai. - Ne avesse perduto uno solo: ma questo è il quattordicesimo luigi che perde! Osservo il Baìna88.

Grazie alla veste comica del dialogo e dell'intera opera, Malaparte può infilare nel testo il riferimento a Giuseppe Mazzoni, pratese, strenuo difensore degli ideali democratici e repubblicani. Il gioco di parole tra “Luigi XIV-re” e “luigi- moneta” ridicolizza il Re Sole, e denigra la figura del tiranno, sotto cui non si può non cogliere un'allusione alla situazione politica contemporanea. Proprio in questi anni (Malaparte scrive il romanzo nel 1926, anno delle leggi fascistissime) Mussolini sta trasformando l'Italia in una dittatura totalitaria, in uno stato poliziesco e liberticida, e se stesso in un tiranno chiuso e distante, onnipresente89.

Il personaggio del Cavaliere di Marsan, vero protagonista dell'opera, di cui Malaparte racconta la storia, incarna il secondo dei due poli della dialettica Italia- 88 Ivi, p. 22.

89 Non solo, a Mussolini sembrano riferirsi anche i passaggi di disprezzo per i romagnoli: il

Europa (il primo è ovviamente Malaparte, rappresentante dei cenciaioli e del popolo pratese e italiano). Il francese è protagonista di un fatto eccezionale: egli è vivo da più di duecento anni, e non sa ciò che è accaduto in questo lungo periodo, non sa nulla della morte del suo re Luigi XIV né della Rivoluzione francese. All'incredulità del Cavaliere di Marsan subentra lo stupore dei cenciaioli, che si chiedono come sia possibile che il soldato francese sia stato ignorato così a lungo dalla morte: egli racconta allora che si trovava in Italia, al servizio del maresciallo di Villeroi nella battaglia di Cremona del 170290, e che era stato mandato in giro per l'Italia in cerca di

soldati di ventura disposti a mettersi al servizio della Francia ma, arrivato in Toscana, si era reso conto di essere giunto in un felicissimo paese che da qualche secolo viveva «per conto proprio, fuori delle necessità e degli obblighi della storia d'Europa91», in un altro clima storico e politico. La verità, afferma Malaparte,

è che l'Italia è rimasta sempre fuori dell'uscio, da qualche secolo a questa parte, ed è vissuta, grazie a Dio, per conto proprio: la storia dell'Europa moderna non è affar nostro, e quella d'Italia è stata per troppo tempo cotta in forno a Parigi e a Vienna, perché ci possa stare a cuore92.

Sono richiamate abbastanza chiaramente le idee espresse nei saggi politici, come il «dramma della modernità», il «barbarismo», il Risorgimento “tradito”: dopo la Riforma, la storia italiana era rimasta fuori da quella universale, cioè europea, fuori dai “grandi fatti”, isolata in un tempo quasi mitico («Ignorare i fatti, non è forse ignorare il tempo?» scrive il narratore), poiché indeterminato, fantastico, sospeso, mentre si deduce facilmente che siamo all'inizio del Novecento. In questo tempo si è smarrito il Cavaliere di Marsan, e Malaparte afferma come questo sia stato «in ogni tempo, il rischio a cui si sono messi gli stranieri innamorati di questa nostra