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3. L A RICERCA ESPRESSIVA DEGLI ANNI T RENTA TRA GIORNALISMO E LETTERATURA

3.2. La produzione breve degli anni Trenta

3.2.4. Donna come me

L'ultima raccolta, Donna come me, pubblicata per Mondadori nel 1940, consta anch'essa di tredici testi, tutti precedentemente pubblicati sul «Corriere della Sera», tra il 1937 e il 194096, periodo coincidente con la composizione anche di molti

racconti di Sangue, a dimostrazione che le stagioni non sono progressive, non ci sono cesure e pause nella sperimentazione, ma tutto questo materiale eterogeneo coesiste nello stesso momento artistico. Vi sono racconti d'invenzione, costituiti dalle sei «fantasie» di Donna come me, Cane come me, Città come me, Giorno come me, 94 Giorgio Luti è stato uno dei primi a sostenere la centralità di questa raccolta nel percorso

artistico dello scrittore: «Sono convinto che da questo libro sperimentale derivi il futuro bifrontismo del narratore, e cioè la definitiva maturazione della componente lirica che culminerà in Donna come me del 1940 (certo la prova più alta e convincente della prosa d'arte malapartiana), e al tempo stesso si consolidi la decisione di puntare al romanzo come necessario approdo di un modo di narrare che proprio in Sangue ha trovato la possibilità di esprimersi con una valenza drammatica che non era presente nei racconti di Sodoma e

Gomorra e di Fughe in prigione» (G. LUTI, Introduzione, in SAN, pp. 16- 17).

95 G. P

ANELLA, L'estetica dello choc, cit., p. 41.

96 Sono: Donna come me (28 luglio 1937); Quasi un delitto (con il titolo Quasi un sogno a

Pompei, 15 agosto 1937); L'albero vivo (11 ottobre 1938); La città incantata (19 novembre

1937); Cane come me (1 novembre 1938); Il mare ferito (30 gennaio 1940); Città come me (14 febbraio 1937); Tramonto sul lago (12 novembre 1938); Giorno come me (11 settembre 1938); Paesaggio con bicicletta (con il titolo La bicicletta, 29 gennaio 1938); Terra come me (con il titolo Carne di terra, 29 settembre 1938); Goethe e mio padre (16 ottobre 1938); Un

Terra come me, Santo come me, da Quasi un delitto e Il mare ferito; racconti autobiografici (Goethe e mio padre, La città incantata); descrittivi (Tramonto sul lago, L'albero vivo, Paesaggio con bicicletta). La quarta raccolta si pone come il punto di arrivo della componente lirica della prosa malapartiana, e risente dell'influenza del surrealismo francese nella particolare interpretazione che ne diede lo scrittore.

Risale alla metà degli anni Trenta l'interesse di Malaparte per il movimento artistico-letterario francese, che si manifestò con un primo articolo nel 1937 intitolato Il surrealismo e l'Italia97. In esso, lo scrittore afferma con convinzione che il

surrealismo francese si riduce, in fondo, a un «atteggiamento intellettualistico», ch'è «figlio, anch'esso, del tanto aborrito razionalismo», insomma che «è una tecnica, in quanto è uno stile». Egli fa notare che il surrealismo come “cosa” esiste in Italia e in Grecia da secoli, ed è l'atteggiamento del tutto naturale di questi popoli inclini all’immaginazione, «un'attività assolutamente disinteressata in quanto alla ragione e alla logica, nella coscienza di una realtà magicamente inventata, non ereditata per esperienza, tradizione, stile». Il surrealismo sarebbe dunque già esistente in Italia da secoli come arte non «intesa a meravigliare», ma a «creare nuovamente la realtà», a «interpretarla magicamente in opposizione alla logica e al realismo obiettivo98».

Elementi della poetica surrealista erano presenti già in Sangue (il sogno, le pulsioni irrazionali che sfociano in istinti violenti fino alla nevrosi e alla follia, elementi psicoanalitici come la perturbante morbosità sessuale di alcune scene, le ossessioni oniriche); in Donna come me, le «immagini di memorie autobiografiche e di ricordi d'infanzia» diventano «poesia, metafisica, inquietudine e coscienza99». Il

nucleo è sempre l'esperienza autobiografica, un egotismo che in Malaparte è l'unico modo per conoscere e interpretare il mondo che lo circonda, tutto ha un'eco dentro di lui, e lo scrittore ci restituisce le immagini specchiate della realtà, in un alone di incanto, in equilibrio perfetto tra le componenti della scrittura e della coscienza. A 97 C. M

ALAPARTE, Il surrealismo e l'Italia, in «Corriere della Sera», 12 ottobre 1937; ripreso con

aggiunte nell'articolo per «Prospettive» col medesimo titolo, e anche il numero della rivista aveva lo stesso titolo (n°1, Anno IV, 15 gennaio 1940). Per il rapporto tra Malaparte e il surrealismo si veda G. ANGELI, Malaparte e il surrealismo, in «La bourse des idées du monde». Malaparte e la Francia. Atti del convegno, cit., pp. 67-80.

partire dalla citazione iniziale dai Canti di Moldoror di Lautréamont100 e dalla dedica,

lo scrittore ci immette in un'atmosfera magica e impalpabile come quella dei sogni, dove il confine tra reale e irreale è sfumato, e tutto può trasfondersi in altro: «Fin dal primo giorno […] hai capito che io non sono soltanto un uomo: ma donna, cane, pietra, albero, fiume101». Le sei fantasie «come me» sono appunto la descrizione

visiva e percettiva delle «metamorfosi» dello scrittore. Nella descrizione della «donna come me» si sovrappongono continuamente analogie naturalistiche, un mosaico di elementi animati e inanimati a formare una creatura di sogno, sottolineato dai segni linguistici «come», «vorrei», dai verbi dell'area semantica che rimanda al “doppio” («sembrare», «assomigliare», «riconoscere»):

Vorrei che muovendosi, parlando, sorridendo apparisse come una forza gentile, giusta e incorruttibile, della natura, un elemento della grazia, della forza e della purezza che son nell'aria, nella luce, nelle piante, nelle pietre, nel paesaggio. Che assomigliasse agli animali, a certi animali, che avesse in sé l'innocenza e la nobiltà del cane, o del cavallo. Che certe volte, nella sua voce, suonasse dolcissima l'eco di un triste latrato. Che la sua testa, posata accanto a me sul guanciale, mi sembrasse talvolta, nell'incerta luce dell'alba, una testa di cane. Che sentendola respirare al mio fianco, o muoversi nella stanza buia, riconoscessi nel suo respiro l'ansito profondo di un cavallo, e i capelli le ondeggiassero sulle spalle come una criniera, e nel suo riso, nel suo pianto, risuonasse talvolta l'eco di un nitrito amoroso102.

Tali trasformazioni esprimono simbolicamente le parti più intime e segrete della psiche dello scrittore. In Cane come me le «identificazioni immaginarie» vengono a chiarirsi, secondo Grana, soprattutto come «metafore affettive103»: «Se non

fossi un uomo, e non fossi quell'uomo che io sono, vorrei essere un cane», ma non cane qualunque, egli vorrebbe assomigliare al suo Febo, «per tutto ciò che ha di più animale, e più in lui rivela un istinto lontanissimo da quello dell'uomo, una dignità, una libertà, una morale diverse104», che si esprime in una vita ricca di odori e di suoni,

non di immagini, così da non andare incontro al pericolo in cui incorrono gli uomini «d'esser traditi e ingannati da ciò ch'essi chiamano bellezza105». La descrizione di

100 Questa la citazione tratta dall'opera di uno dei maggiori esponenti del surrealismo: «C'est

un homme ou une pierre/ ou un arbre qui va commencer/ le quatrième chant».

101 DCM, p. 9. 102 Ivi, p. 14. 103 G. G

RANA, Curzio Malaparte, cit., pp. 54-55.

104 DCM, p. 51. 105 Ivi, p. 52.

Febo è una delle rare pagine nelle quali la partecipazione emotiva dello scrittore è viva, palpabile, pura, mentre descrive il loro incontro a Lipari, e il rapporto tra i due:

Così, a poco a poco, io l'ebbi non solo come compagno, ma giudice. Egli era il custode della mia dignità, il mio dorufòrema. […] E anche oggi, forse più di allora, sento che Febo mi assomiglia, che egli altro non è se non il riflesso della mia coscienza, della mia vita segreta. Il ritratto, insomma, di me stesso, di tutto ciò che v'è di più profondo, di più intimo in me, di più istintivo. Il mio spettro, direi. Ormai io riconosco in lui i miei moti più misteriosi, i miei istanti più incerti, i miei dubbi, i miei spaventi, le mie speranze. Mia è questa sua dignità di fronte agli uomini, mio questo suo orgoglioso coraggio di fronte alla vita, questo suo disprezzo per i facili sentimenti umani. Mia è la sua coscienza morale. Ma più assai di me egli è sensibile agli oscuri presagi, alle voci della natura106.

In altri testi è più evidente il carattere onirico e magico della rappresentazione, come in Quasi un delitto (che originariamente si intitolava Quasi un sogno a Pompei) in cui l'autore narra un episodio al confine tra realtà e fantasia: durante una gita a Pompei con degli amici, si smarrisce insieme a una giovane ragazza, Luisa; a un tratto la realtà perde consistenza, non è più sicuro di ciò che vede e sente («mi pareva di aver corso, mi pareva d'esserci fermati107»), gli sembra

camminando che il piede battendo sul lastrico non faccia rumore, come nell'erba. La ragazza scompare all'improvviso, la sua presenza diventa «il ricordo di una voce, più che una voce108», «un'immagine, un ricordo109», «un'eco di lei», che come nei sogni

«quando le persone e gli oggetti ci sembrano vicini allo sguardo, ma subito si allontanano se allunghiamo la mano, mutandosi in varie forme non appena tentiamo di afferrarli», scompare e riappare, diventando «una vaga forma, una nebbia, un po' d'aria che crepitava fra le dita come una foglia secca110». Si ferma per un momento

sull'immagine di quel che dapprima gli appare come una carogna di cane per rivelarsi un momento dopo il corpo di una bambina disteso in un mucchio d'immondizia, non si comprende se morta o addormentata, composta con cura e sorridente, e infine tutto 106 Ivi, pp. 55-56.

107 Ivi, p. 23.

108 Ivi, p. 24 (corsivi nel testo). 109 Ivi, p. 25.

svanisce con la luce di una lanterna e la voce di qualcuno che li chiama per nome. Ciò che emerge in modo significativo da queste prose – senza dubbio molti di questi testi sono tra quelli che più si avvicinano alla prosa d'arte – è la raffinatezza stilistica dello scrittore, che non è però fine a stessa: egli lavora sul linguaggio per disgregare e scomporre la lingua al fine di rendere rappresentabile la vaghezza dei sogni, e trasfigurare la concretezza e la materialità della realtà in leggerezza e impalpabilità111. Ci riesce attraverso l'uso insistente delle analogie, della sinestesia,

delle personificazioni simboliche, dell'uso di espressioni metonimiche («il biancheggiare delle case», «il verde splendore delle vigne», «riflesso giallo del sole»). Il mondo umano, animale, vegetale, inanimato si scambiano continuamente posto e si trasfondono l'uno nell'altro: ne Il mare ferito, il mare di Lipari assume mille trasformazioni diverse, ora ha caratteri antropomorfi, «bussa» alla porta e lo scrittore conversa con lui; ora diventa armadio, ora bottiglia, ora arancia, pescatore112,

fino ad arrivare a corteggiare la donna del pescatore Valastro che, impugnato il coltello e in preda alla collera, lo insegue per ucciderlo, ferendolo.

Questo stile sarà sviluppato nei romanzi degli anni Quaranta, quando la sovrapposizione continua di piani sensoriali diversi, le personificazioni, l'allegoria, le analogie, saranno espressione metaforica di quella sua particolare visione del mondo «barocca», in cui apparenza e realtà si mescolano di continuo, gli opposti convivono, e incerti sono i confini tra reale e irreale, ormai anche dal punto di vista morale, nella confusione e nella brutalità della guerra.

111 Scrive in alcuni appunti degli anni Trenta: «La nostra lingua manca di finezza. La finezza

non è propria del nostro genio. Ci manca la capacità dell'astratto, il potere di astrarre. Le nostre immagini son tutte legate al mondo fisico, e queste la lingua italiana esprime, poiché è una lingua fisica, antiastratta, materiale, corporea. I rapporti tra le idee è quasi impossibile tradurli in italiano. I contorni delle idee, le loro parentele [...], i misteri delle cose. Per la lingua italiana non v'è mistero. Tutto è sensibile, corporeo. Impossibile esprimere il pensato, l'immaginato, il sogno» (MAL IV, p. 254).

112 «Talvolta il mare prendeva gli aspetti più strani, si travestiva in mille modi: ora m'appariva

come una scatola di madreperla, e dentro v'eran conchiglie rosee, ossi di seppia, granchiolini neri, murene inanellate d'oro, dal becco d'uccello rapace, e lunghi capelli d'alga; […] Ora prendeva la forma di un armadio, e tutta la notte udivo sbattere gli sportelli nel gran vento; o di una bottiglia, e dentro v'erano manoscritti con racconti di naufragi, piccoli velieri, o un vino rosso dove il sole batteva lietamente; o di un'arancia, e ad aprirla ne uscivano spicchi di lune sanguigne, albe verdi, tramonti infuocati, e soli che rotolavano stridendo sulla sabbia del lido. Certe volte prendeva l'aspetto di un pescatore, di quelli aspri e barbuti che vivon nudi sugli scogli dell'isolotto di Vulcano, tra le bocche delle fumarole, sotto l'incessante pioggia di zolfo» (DCM, pp. 61-62).

3.2.5.«Visione di luoghi» e 'visione prospettica'

All'interno della categoria che Baglivo ha definito “bozzetti”, ho preferito distinguere un gruppo particolare di testi, che vorrei comprendere nella definizione di «visione di luoghi113», mutuandola da un articolo di Gargiulo, il quale, nel tentativo di

dare una definizione di questa particolare “letteratura di viaggio”, fiorita nelle terze pagine dei giornali – speciale declinazione della prosa d'arte –, ne accentuava con quell'espressione la caratteristica fondamentale, cioè l'essere il viaggio prima di tutto un'esperienza individuale, «una situazione biografica di eccezionale rilievo114».

Questa locuzione ha il pregio di inglobare anche esperienze di luoghi che non rientrano nell'atto fisico del “viaggiare”, che rimandano all'«evento stesso dei luoghi», al rapporto col luogo di colui che scrive, al viaggiare anche attraverso la sola immaginazione, e al luogo come «paesaggio interiore», come «sentimento» del luogo. Farnetti distingue, partendo dall'annotazione di Gargiulo, all'interno della massa di scritti odeporici novecenteschi, quelli che vanno oltre i caratteri tradizionali del genere, che sono sorretti «da uno specifico coefficiente di tensione conoscitiva», il quale riscatta l'esperienza personale in una dimensione di riflessione culturale condivisa e collettiva, toccando lo spessore simbolico del tema:

quel che essi giungono a fissare, nel corso o a conclusione del loro vario argomentare, è l'interpretazione di un luogo geografico preciso (una città, un Paese, un mare, un'isola), una sorta di principio primo catalizzante e ordinatore di tutta la materia (dalle forme di governo agli aspetti del clima e dell'immaginario) inerente a quel luogo, sebbene tale non fosse, all'origine, l'intento dell'operatore. […] esse mirano piuttosto alla discussione di una tesi, allo sviluppo di un'idea, alla verifica di un metodo o all'illustrazione di un'ipotesi, e tutto ciò a partire dalle prospettive disciplinari più differenti, variabili dalla storia delle arti, della letteratura o della musica alle scienze esatte e naturali, dalla filosofia teoretica all'antropologia culturale allo studio del folklore, della magia, del mito e d'altro ancora115.

Per Farnetti, dunque, tra i reportages del Novecento, ve ne sono un gruppo 113 A. G

ARGIULO, A proposito di letteratura di viaggi, «Gazzetta del popolo», 29 dicembre 1936,

in E. FALQUI, Nostra terza pagina, Roma, Canesi, 1964, p. 370.

114 M. F

ARNETTI, Reportages. Letteratura di viaggio del Nocevento italiano, Milano, Guerini

che definisce «d'eccezione», i quali, pur restando legati all'istanza documentaria e descrittiva del genere, coniugano ad essa istanze gnoseologiche e simboliche che ne riscattano l'occasionalità, e conferiscono eccezionale valore letterario. In due occasioni, a mio avviso, troviamo riscontro alle definizioni di Farnetti: per L'inglese in Paradiso e per il reportage etiopico. Nel primo, gli articoli vengono fusi in una unica trattazione continua, incentrata sull'«arte di diventare inglesi», che presuppone la soluzione del «mistero» della natura inglese, connessa con la sua insularità. Il reportage africano rientra ancora di più, nella definizione di Farnetti, e nella poetica della «visione di luoghi»: le corrispondenze sull'Eritrea e sull'Etiopia del 1939, da pochi anni entrate a far parte dell'Impero italiano, rappresentano una svolta nella concezione dell'uomo e della natura, e un passo avanti nello stile di Curzio Malaparte. Del contenuto di questo reportage tratteremo più avanti.

Questa è, secondo il mio parere, anche la prospettiva dalla quale bisogna osservare una parte della produzione di viaggio malapartiana degli anni Trenta- Quaranta: si tratta di resoconti di viaggio, scritti, per così dire, quasi on the road, o scritti anche distanza di anni dal viaggio nei luoghi che li hanno ispirati, fatti di impressioni, riflessioni, ricordi, fantasie, sentimenti, legati ai luoghi vissuti o anche solo immaginati, che vanno in molti casi oltre il descrittivismo e il documentarismo tradizionali della letteratura di viaggio, oltre il paradigma delle “cose viste”, per arrivare alla ricerca del «mistero del luogo», a indagarne significati e motivazioni, a cercarne il «segreto» negli abitanti e nei luoghi.

Possiamo notare, attraverso una lettura globale e continua dell'intero ed eterogeneo corpus degli scritti giornalistici, una dimensione letteraria che permette di trascendere l'occasione per proiettarsi verso istanze di più profonda riflessione: da un lato, alcuni elzeviri vengono pubblicati in raccolte; dall'altro, presto sentì l'esigenza (alla quale contribuirono anche molti altri fattori) di proseguire la ricerca letteraria ed espressiva nel genere del romanzo, e soprattutto in un romanzo come Kaputt, nel quale l'esperienza del «viaggio» è alla base della struttura narrativa, e acquista un particolare valore e significato legato all'esperienza bellica.

“visione di luoghi”, è quella che vorrei definire “visione prospettica” dell'autore, cioè il peculiare sguardo dello scrittore: le cose viste non appaiono per quello che sono nella loro realtà oggettiva e “nuda”, ma sono guardate in “prospettiva”, vale a dire cariche del loro passato culturale, storico, mitico, artistico, letterario, o anche da ricordi ed esperienze personali dell'autore. Pur generate quindi da un'esperienza diretta, da cose vissute, sono in realtà rielaborate dallo scrittore, trasfigurate letterariamente sotto l'impulso di suggestioni speculative e di riflessioni personali, per diventare “qualcosa di più” che meri resoconti cronachistici. Mentre guarda Londra dal battello sul Tamigi, a partire dall'osservazione che il «quartiere che si stende sulla riva destra fra il ponte dei Frati Neri e il London Bridge è sacro alle arti, alle lettere e ai costumi del secolo di Elisabetta», scatta una visione che mescola alla geografia dei palazzi e delle architetture presenti una geografia letteraria e fantastica: «là si davano, nell'Hope Theatre, i combattimenti d'orsi, là v'era la Taverna del Falcone, là il Teatro della Rosa; laggiù […] vivono i luoghi e le memorie di Shakespeare, di Beaumont, di Jhon Fletcher, di Massinger, di Greene116». La Scozia è

vista attraverso le immagini letterarie di Walter Scott e di Shakespeare, soprattutto del Macbeth117.

Ogni elemento del reale richiama sempre 'altro', e lo scrittore ricostruisce nella pagina la sottile trama delle corrispondenze tra gli oggetti. È come se a partire dal dato reale, che spesso è frutto di una testimonianza diretta, lo scrittore costruisse tutta una impalcatura letteraria e simbolica che da un lato appare come immediata, dall'altra si carica di valenze e suggestioni che vanno oltre la testimonianza stessa, scatenando una sorta di "scatto" cognitivo ed emozionale che attraverso l'incontro tra realtà immediata e rappresentazione mediata, carica la stessa realtà di significati 116 C. M

ALAPARTE, Sotto i ponti del Tamigi, «Corriere della Sera», 22 gennaio 1933; in FIP, p.

206.

117 Shakespeare è una presenza costante lungo tutto il viaggio in Gran Bretagna, soprattutto

in Scozia, dove sembra che abbia addirittura plasmato il carattere del Paese: «Non ti puoi avvicinare a Birnam senza che l'ambiguo Shakespeare non ti venga incontro alla svolta della strada, proprio all'imbocco del ponte di Dunkel, non t'afferri per la mano e non ti forzi ad attraversare a guado il fiume, la notte e il lucido delirio di Lady Macbeth. […] Non si può entrare in Scozia senza ricordarsi che questo è il paese dove il sonno è stato ucciso, dove il sonno è sepolto». Lady Macbeth, continuamente evocata, diventa immagine simbolica del mistero e del destino oscuro di questa terra grigia e malinconica percossa dai venti, e dei suoi abitanti, suggellata da una vera e propria allucinazione fantastica (C. MALAPARTE, Alte

ulteriori, inediti, nascosti, sorprendenti. Conseguenza di ciò è ancora una volta la scrittura 'doppia' di Malaparte: la realtà racchiude così altre realtà, le cose spesso sono simboli di altre cose, si svela la nascosta trama di corrispondenze; l'effetto è quello di un raddoppiamento della prospettiva del “visto” e “vissuto”, della creazione di accostamenti e di corrispondenze anche antinomiche.

Quando Malaparte riprese la collaborazione con il «Corriere della Sera», nel giugno del 1934, non era solo la sua condizione di uomo ad essere cambiata, il confino fu senza dubbio un'esperienza decisiva per la sua autocoscienza di scrittore118: durante il soggiorno a Lipari e a Ischia Malaparte scoprì il profondo Sud

italiano, il misterioso, arcaico, antimoderno, mondo meridionale. In una lettera a Meoni da Ischia, dove era stato trasferito da pochi mesi, scrive:

Mi sono rimesso a studiare il greco […] Vorrei un po' scoprire che cosa siano davvero