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1. TEORIE DI RIFERIMENTO

1.4 SULLA DIASPORA, IL CAMMINARE E IL NOMADISMO

1.4.2 Sul camminare

Oggi associamo culturalmente al camminare l’idea di esplorazione del milieu urbano, a partire dal quale siamo in grado di ricavare un’idea nuova e diversa del luogo in cui viviamo, a elaborare impressioni sia personali sia di respiro collettivo anche non inerenti allo spazio – che sia un paesino, un agglomerato urbano, o una metropoli – specifico in cui muoviamo, e a fare ipotesi sul tessuto sociale e culturale di un’epoca; oppure semplicemente a riflessioni che riguardano principalmente noi stessi. Il merito di questa ode spontanea e non dichiarata al camminare che condividiamo dall’epoca moderna è senz’altro merito dello spirito acuto di un camminatore d’eccezione come Walter Benjamin. Alla città di Parigi – per il critico, simbolo del passaggio alla metropoli moderna – Benjamin dedicò la famosa e incompiuta raccolta sui “passages”, a cui lavorò instancabilmente per circa tredici anni e che furono pubblicati per la prima volta solo nel 1982.

Com’è noto, Benjamin è stato il più attento osservatore e critico delle trasformazioni della società industriale di fine Ottocento che avrebbero portato alla nascita della città moderna, con lo sviluppo del consumismo e la nascita della massa, della moda e della modernizzazione, su cui avrebbe scritto molti appunti, osservazioni ed elaborazioni teoriche, una frammentazione che è forma e cifra di un pensiero che avrebbe anticipato tutto il Novecento. Qui vale la pena ricordare in particolare, il “camminatore” urbano per eccellenza, quel flâneur prestato a Benjamin dal poeta che tanto lo aveva influenzato, Charles Baudelaire. Anticipando di un secolo l’esperienza urbana delle metropoli con

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cui abbiamo fin troppa familiarità33, Benjamin associava il flâneur al senso di perdita del sé nel tessuto

urbano affollato, e allo stordimento cognitivo e sensoriale che ne deriva:

Chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebbrezza. A ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo della strada, di un lontano mucchio di foglie, del nome di una strada. (Benjamin 466)

Il critico inquadrava tale figura come squisitamente parigina: “[…] i parigini stessi hanno fatto di Parigi la terra promessa dei flâneurs, “paesaggio fatto di pura vita” come disse una volta Hofmannsthal. Paesaggio, ecco cosa diventa la città per il flâneur. O più esattamente: la città per lui si scinde nei suoi poli dialettici. Gli si apre come paesaggio e lo si racchiude come stanza” (466). E ancora: “La città è la realizzazione dell’antico sogno umano del labirinto. A questa realtà, senza saperlo, è dedito il flâneur” (466). Tale figura non acquisisce mai un profilo univoco e sembra contenere in sé molte caratteristiche tra loro a volte incompatibili: per Benjamin il flâneur è un acuto osservatore, o si lascia rapire dal panorama nel quale, comunque di propria volontà, sceglie di perdersi? È un poeta o un investigatore, o condivide lo spirito di entrambi? Quello che si può dire per certo è che negli appunti, Benjamin aveva dato un nuovo ruolo a uno dei gesti più spontanei e considerati innocui dell’essere umano e lo eleggeva, contemporaneamente, come la forma migliore per esplorare le città in cambiamento, e con esse le società e ancora di più, la storia dell’essere umano, insieme alle sue emozioni.

In relazione alle tematiche qui analizzate, soprattutto riguardo all’elemento dell’utopia, certamente la figura del flâneur non è sufficiente a esaurire il tipo di attività compiuta dai personaggi desolati degli spazi devastati del futuro, anzi: se quello decantato da Benjamin era il soggetto

33 Teju Cole con Open City (2011) sembra aver arricchito ancora questa tradizione. Le passeggiate del suo protagonista e

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designato della città-labirinto moderna, culla del capitalismo e della massa, si vedrà che in un panorama in cui la città è stata distrutta, il camminare è primariamente legato alla sopravvivenza e non certamente a un’esplorazione del tessuto urbano. Ma se il camminare avviene, perfino nelle distopie contemporanee, è perché se da un lato è legato al bisogno di sopravvivere, esso si palesa come spontanea forma dell’elaborazione umana rispetto alla posizione – geografica, sociale, politica – che essa occupa in un dato momento della sua storia; è un’attività che è stretta parente del pensiero, ed è certamente legato anche a una dimensione politica. Su questi aspetti altri studiosi e studiose hanno avanzato spunti notevoli.

Tra queste vi è Rebecca Solnit, felice erede di Benjmian – ma non solo – la quale ha avuto l’accortezza di esplorare e indagare in varie sfumature il camminare, non solo come atto fisico o intellettuale, ma anche come gesto più ampiamente culturale e legato all’impegno politico. Il contenitore di questa massiccia trattazione è il suo resoconto Wanderlust, pubblicato per la prima volta nel 2000. Nel testo la studiosa si dedica a una trattazione elaborata del camminare con incursioni nella propria vita personale e nella storia, realizzando anche un ibrido letterario che è saggio, autobiografismo, e un trattato che talvolta si rivela elogio sui generis dedicato a uno dei gesti più sottovalutati del genere umano. Secondo l’autrice, il camminare condivide molto più di quanto crediamo con il pensiero:

Moving on foot seems to make it easier to move in time; the mind wanders from plans to recollections to observations. The rhythm of walking generates a kind of rhythm of thinking, and the passage through a landscape echoes or stimulates the passage through a series of thoughts. (Solnit 2002, pos. kindle 224 di 7292)

Il passaggio attraverso un determinate paesaggio stimola e fa eco al passaggio da un pensiero all’altro, come se camminare e pensare fossero le due versioni dello stesso impulso alla dispersione o al collegamento, tra luoghi e tra idee o ricordi:

This creates an odd consonance between internal and external passage, one that suggests that the mind is also a landscape of sorts and that walking is one way to

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traverse it. […] And so one aspect of the history of walking is the history of thinking made concrete – for the motions of the mind cannot be traced, but those of the feet can. (pos. kindle 230 di 7292)

La consonanza tra cammino fisico e cammino del pensiero è evidente anche dal fatto che la mente stessa costituisce una sorta di paesaggio e che camminare è un modo per percorrerlo, così che la storia del camminare per Solnit, è la storia del pensare divenuta concreta. Fondamentale però, è l’insita istanza politica che ha acquisito l’atto del camminare per l’autrice stessa, ispirata dall’attivismo non violento di Henry David Thoreau, autore di un saggio dal titolo inequivocabile: “Walking”, che ha ispirato molte generazioni di ecologisti per il suo richiamo a un ritorno alla natura per riscoprirne il profondo legame con gli esseri umani, i quali vengono incitati da Thoreau a prenderne le difese e a conviverci rinunciando a sfruttarne le risorse in maniera rapace e senza scrupoli. Il gesto del camminare in Thoreau è legato espicitamente a un rifiuto della città e alla ricerca della wilderness, un contatto con la natura da riscoprire. Con parole che sembrano uscire dalla bocca di un personaggio (cfr. par. 5.6) del romanzo di Margaret Atwood34, Thoreau scriveva: “Hope and the future for me are

not in lawns and cultivated fields, not in towns and cities, but in the impervious and quaking swamps. […] I derive more of my subsistence from the swamps which surround my native town than from the cultivated gardens in the village” (online).

Ne testo di Thoreau – che con i termini ‘hope’ e ‘future’ acquisisce un inaspettato valore utopico – poesia della natura e critica della società, qust’ultima rappresentata dall’immagine della città e dalle terre lavorate dall’essere umano, coincidono e il camminare è primariamente legato a questo tipo di presa di coscienza. Lo è anche per Solnit ovviamente, ispirata dal testo di Thoreau nella propria dissidenza politica, proseguendo in tal senso la tradizione trascendentalista molto presente nella cultura americana. Inoltre, tale gesto non è affatto solitario, anzi ci porta per sua natura a

34 Come Thoreau, ecologisti, pacifisti e vegetariani anche se, con quello che probabilmente sarebbe un grande disappunto

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imbatterci in altri soggetti dal momento che “Of course walking, as any reader of Thoreau’s essay ‘Walking’ knows, inevitably leads into other subjects. Walking is a subject that is always straying” (pos. kindle 280 di 7292). Tale curiosa attenzione da parte di Solnit al soggetto che cammina in quanto ‘straying’, che implica sia una scelta volontaria o semivolontaria sia l’eventualità di essersi perduti – da mettere certamente in relazione non solo con la tradizione del trascendentalismo americano, si è detto, ma anche con il mito della frontiera, anche questo squisitamente americano – è particolarmente in assonanza con l’attenzione allo sradicamento della diaspora e col soggetto nomade di Rosi Braidotti che vedremo nella prossima sezione intitolata Sul nomadismo. Come spero di mostrare, sono concetti che si allineano nei testi che andrò ad analizzare. Infatti, tali differenti formule che hanno a che fare con il soggetto che si muove da un luogo all’altro, combinando il rifiuto della fissità identitaria e spaziale a un’evoluzione della propria coscienza e a un’istanza politica, mostreranno il loro grande valore euristico nel momento in cui mi addentrerò nell’analisi di personaggi che incarnano un impulso utopico e che fanno proprio quello ‘straying’ di cui parla Solnit, ma che nei testi possiede una consapevolezza maggiore in senso critico-politico perché è la forma in cui si materializza il rifiuto dello status quo.

Se, per la studiosa, al camminare è legata un’istanza politica di attraversamento, di messa in discussione e di disobbedienza à la Thoreau, non si può non riconoscere un collegamento, con le debite differenze, con il filosofo già incontrato Michel de Certeau, altrettanto convinto che il camminare abbia un riverbero politico-sociale come pratica di riappropriazione, non solo di scoperta dell’urbano: come si vedrà nelle distopie contemporanee vi è questo elemento del camminare che è un reclamare lo spazio vissuto in un senso non troppo distante da quello inteso dal filosofo francese (si veda in particolare il caso del Museum of Civilization, cfr. Cap 4).

Tuttavia, tale istanza che coniuga un gesto tra i più naturali per l’essere umano come quello del camminare, a un intento di tipo pienamente politico di rifiuto dello status quo e della messa in discussione dello spazio – e delle categorie in esso iscritte –viene presa in carico dalla studiosa femminista bell hooks, che potremmo considerare la ‘filosofa del margine’. Attraverso la sua nozione

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di “politics of location” (“Choosing” 203), hooks afferma la necessità di fuoriuscire dal proprio spazio per crearne uno che sia di “radical openness” (203), uno spazio aperto da cui sia possibile innescare una contronarrazione a quella dominante, una riscrittura:

As a radical standpoint, perspective, position, ‘the politics of location’ necessarily calls those of us who would participate in the formation of counter-hegemonic cultural practice to identify the spaces where we begin the process of re-vision. (203)

Per il soggetto oppresso, col quale hooks stessa si identifica in quanto donna e afroamericana, la contestazione è possibile solo a partire da un dislocamento, dal mettere in dubbio la propria posizione assumendone un’altra, dunque abbracciando la mobilità, ridefinendo persino cosa intendiamo con ‘casa’, un concetto che culturalmente (almeno in larga parte dell’Occidente) è estremamente codificato come stabile e fisso:

I had to leave that space I called home to move beyond boundaries, yet I needed also to return there. We sing a song in the black church tradition that says, “I’m going up the rough side of the mountain on my way home.” Indeed, the very meaning of ‘home’ changes with experience of decolonization, of radicalization. At times, home is nowhere. At times, one knows only extreme estrangement and alienation. Then home is no longer just one place. It is locations. (205)

Nel discorso di hooks, la spazialità riguarda la cultura e soprattutto il livello della lingua – “language is also a place of struggle” (204) – ma vedremo come nei romanzi qui analizzati essa sia incarnata dal testo oltre il livello metaforico. Nelle distopie critiche che analizzerò infatti è presente questa stessa istanza di mobilità quale necessaria forma di rifiuto di un ordine egemonico esistente, dunque come un atto fortemente politico nel modo inteso da hooks, incarnata dai personaggi che si muovono o che rimangono in cammino. Sono personaggi – spesso femminili – che decidono di lasciare lo spazio

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distopico, uno spazio che opprime, reclude, sfrutta e uccide e di opporvi uno stato nomadico, che inizia con il gesto più semplice: quello del camminare oltre i cancelli o le mura della propria comunità.

Alla spazialità – stavolta meno metaforica, nonostante continui a coincidere anche con la cultura – hanno dedicato la loro opera i filosofi Gilles Deleuze e Felix Guattari in Mille Piani (2003).35

Qui troviamo la nota distinzione tra spazio striato e spazio liscio, dove il primo è lo spazio organizzato, disciplinato, misurato, mentre il secondo è quello che sfugge, ostinatamente refrattario e che continuamente ambisce a non subire imposizioni di calcolo o struttura (secondo Deleuze e Guattari il mare è lo spazio liscio per eccellenza che subisce costantemente il tentativo di essere mappato, organizzato, misurato, cartografato). Tale distinzione tra spazio liscio e spazio striato può essere paragonata al contrasto tra spazio distopico, disumanizzante e finalizzato al controllo, e spazio del soggetto utopico che liscia lo spazio striato, deviando, fuoriuscendone e riappropriandosi di uno spazio d’azione personale e creativo proprio dai margini. Spazio liscio e striato infatti, non vivono di per sé come isolati o puri: lo spazio striato viene sempre in parte lisciato da uno spazio liscio, e viceversa.

Per i due filosofi sembra che lo spazio liscio abbia un ruolo particolare, legato a un’altra componente che si rivelerà fondamentale per la mia analisi: quella di nomadismo, che ispira tra l’altro a Braidotti il concetto di ‘soggetto nomade’. A questi dedico il seguente paragrafo che conclude la sezione teorica della presente ricerca.