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1. TEORIE DI RIFERIMENTO

1.4 SULLA DIASPORA, IL CAMMINARE E IL NOMADISMO

1.4.1 Diaspora

I personaggi dei romanzi presi in esame vivono in gruppi in un paesaggio aperto e caotico, fuori dalle comunità chiuse di origine, in seguito alla deliberata scelta di uscirne (On Such a Full Sea) oppure perché spinti da un evento catastrofico che li ha forzatamente messi in cammino (MaddAddam,

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Station Eleven). In entrambi i casi, le persone vivono sparpagliate in un ‘fuori’ a loro sconosciuto e lottano per sopravvivere cercando un nuovo senso di appartenenza per ristabilire un senso di unità e solidarietà tra i sopravvissuti e le sopravvissute.

L’orizzonte generale di speranza e desiderio degli scenari nei quali i personaggi si trovano dispersi, richiama la nozione tradizionale di diaspora. Sebbene non centrale nella mia ricerca – in effetti solo la nozione di diaspora è presa in considerazione – il campo di studi della teoria postcoloniale è stato molto utile per affrontare tale elemento di indagine, soprattutto per sottolinearne l’associazione che ne viene fatta con una dimensione identitaria del soggetto ibrido e instabile.

Innanzitutto, per quanto riguarda le origini del termine, possiamo fare riferimento a Kevin Kenny (2013), il quale afferma che la parola diaspora deriva dal verbo greco diaspeirein: “dia” (attraverso) e “speirein” (sparpagliare o seminare): la diaspora riguarda uno stato di disseminazione e dispersione di un popolo e non è completamente volontario, ma simile a uno spostamento o dislocazione forzate, come nel caso di certe migrazioni, le persecuzioni, o l’esilio (pos. kindle 181 di 2176).

La nozione di dispersione della parola diaspora, ricorda Kenny, è anche usata come sinonimo di decomposizione e distruzione, in riferimento a un processo, non come attributo a un gruppo di persone o un luogo (pos. kindle 186 di 2176). Questo secondo significato acquisisce una certa rilevanza se pensiamo che il panorama dominante dei testi del corpus è quello postapocalittico in cui domina la devastazione: se vogliamo, può essere considerata una sorta di rima secondaria allo status dei personaggi che sono in effetti dei sopravvissuti.

Tradizionalmente la parola diaspora è usata per riferirsi alla diaspora ebraica i cui riferimenti principali iniziano con la cattività babilonese nel 586 a.C., sebbene sempre Kenny sottolinei quanto la migrazione coinvolse massicciamente il popolo ebraico molto prima di quell’evento specifico. Il significato teologico era preciso: il popolo ebraico veniva punito da Dio perché gli avevano disobbedito e, in quanto peccatori, erano condannati all’esilio e alla sofferenza. Solo pentendosi potevano essere perdonati e conseguentemente premiati, ricevendo il permesso di tornare nella terra

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di Israele (vi è un elemento escatologico: tornare a una condizione spirituale è rappresentato spazialmente con l’immagine del ritorno).

Un uso più generale del termine, non strettamente limitato alla diaspora ebraica, è iniziato a diffondersi in modo massiccio dopo i processi di decolonizzazione nella seconda metà del ventesimo secolo, con le dispersioni globali di popoli che lasciavano le ex colonie e iniziavano il viaggio di ritorno verso la propria patria, un fenomeno a cui oggi si aggiungono i flussi globali di chi lascia il proprio paese per trovare luoghi più sicuri in cui vivere. Dopo la decolonizzazione, la parola ‘diaspora’ si carica dunque di nuovi significati: per coglierne alcuni farò riferimento alla preziosa ricognizione di Miguel Mellino (2005) il quale sottolinea, mutuando dal teorico postcoloniale Paul Gilroy, e in modo particolarmente significativo in questa sede, quanto il termine abbia conosciuto negli ultimi anni un certo successo legato proprio all’emergere della categoria della spazialità:

Più in generale, il termine diaspora – come altri concetti chiave emergenti quali ibrido, creolo o meticcio – si è consolidato nella vita politica e intellettuale contemporanea come parte di un nuovo lessico delle scienze umane, improntato sulla potenza costitutiva dello spazio e della spazialità, della distanza, del viaggio e della mobilità anziché sulla stanzialità, fissità e radicamento di ogni forma di vita. (Mellino 152)

Mellino sottolinea come per Gilroy, il concetto di diaspora sia utile per superare l’essenzialismo delle identità culturali dei neri in Gran Bretagna, riuscendo a fornire una formula più adatta alla loro dimensione “contingente e transnazionale” (151), ma in realtà nell’ambito dei black studies, della teoria postcoloniale e dei cultural studies, la nozione di diaspora, presa in carico da alcune delle maggiori voci di questi ambiti – oltre a Gilroy vi troviamo ad esempio Stuart Hall, Homi K. Bhabha, James Clifford e Arjun Appadurai – è stata utilizzata per contrastare in generale tutte le identità nazionali prodotte dagli Stati-nazione e i loro stereotipi. Per Gilroy usare la nozione di diaspora ha una funzione specifica data proprio dalla sua logica interna: “[…] my aim here is to present and defend another more modest conception of connectedness which is governed by the concept of

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diaspora and its logic of unit and differentiation” (Gilroy 120). Unità e differenza, intrinseche nell’accezione di diaspora auspicata da Gilroy, ci permettono di superare il binarismo, perfino quello tra essenzialismo e pluralismo:

The worth of the diaspora concept is in its attempt to specify differentiation and identity in a way which enables one to think about the issue of racial commonality outside of constricting binary frameworks – especially those that counterpose essentialism and pluralism. (120)

In tale prospettiva, la risposta alle identità nazionali e alla loro azione stereotipizzante, non può non essere necessariamente improntata all’ibridismo e alla sincreticità:

Nelle sottoculture giovanili urbane, ad esempio, esiste da tempo un dialogo costante tra le espressioni culturali delle diverse comunità nere e quelle dei giovani bianchi che ha dato vita nei ghetti delle grandi città a numerosi movimenti urbani antagonisti di chiara composizione multirazziale. Espressioni culturali ibride e sincretiche che, dimostrando la complessità dei rapporti storici tra i neri britannici e la classe operaia britannica, sovvertono i discorsi egemonici del nuovo razzismo e nazionalismo culturale svelandone la precarietà e l’incapacità di sopprimere un intero processo storico. (Mellino 169)

Inoltre, elaborando concetti che come vedremo saranno utili nell’analisi dei soggetti utopici ‘diasporici’ dei romanzi qui analizzati, Mellino afferma come il concetto di diaspora è fondamentale per comprendere le società del nuovo millennio, sempre più caratterizzate da “transnazionalismo e sradicamento” (170) e nelle quali l’identità si fonda su “un’appartenenza fondata sulla memoria e sulle dinamiche sociali del ricordo” (170): dunque emergono il criterio fondamentale dello sradicamento, che come vedremo accomuna tutti i personaggi utopici dei romanzi, e quello della coesione sociale basata non sull’appartenenza territoriale ma sulla memoria e il ricordo, come ad esempio vedremo spiccatamente in Station Eleven (cfr. Cap. 4). Inoltre, prosegue Mellino, “il concetto di diaspora rappresenta il perno centrale di ciò che [Gilroy] chiama una nuova ‘ecologia

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sociale dell’identità culturale’, di un nuovo modo di sentire, concepire e rappresentare le appartenenze” (170), per cui “è il presente che riordina e dà senso al passato e non viceversa: nessuna essenza (struttura profonda) può plasmare o determinare il divenire, la storia stessa dissolve ogni pretesa di continuità o finalità teleologica” (171).

La nozione di diaspora così intesa nella teoria postcoloniale, basata in primis sullo sradicamento fisico, culturale e psicologico, sulla ‘sospensione’ dolorosa e sofferta del soggetto tra madre patria e nuovo paese ospite, sul rifiuto di un’identità stabilita e basata sull’appartenenza territoriale, è estremamente utile ai fini del discorso che intendo formulare per i romanzi, dal momento che vi aderiscono i personaggi rappresentati nel loro stare tra, o essere in sospeso, non riconoscendosi in un’identità monolitica quale propria, né in un luogo come il proprio definitivo di appartenenza, semmai essi scelgono di rimanere in movimento, o di proseguire il proprio transito spesso incerto, ma custodendo sempre un impulso utopico.

Nei romanzi sarà evidente come la diaspora di tali personaggi coincida con quel livello discreto di cui parla Moylan, e come tale livello lavori proprio in contrasto con lo spazio distopico, che coincide con il livello iconico, quest’ultimo finalizzato a racchiudere, segregare e isolare i soggetti favorendo l’esclusione sociale e fomentando nuovi fanatismi.

Inoltre, i due elementi principali della diaspora sono due emozioni fondamentali: la nostalgia per la patria d’origine e un forte sentimento nutrito da questa, ovvero la speranza che proietta le persone nel desiderio del ritorno alla propria terra. L’aspetto interessante è constatare come queste due emozioni siano proprie anche dell’utopia, come abbiamo visto, grazie alle lezioni fondamentali di Bloch e Sargent: innanzitutto per l’elemento del sogno e della speranza al cuore dell’utopismo, ma anche per la fondamentale nozione di nostalgia, simile a quella intesa da Baccolini in riferimento alle distopie femministe: ovvero non il passivo senso di desiderio per un generico ritorno al passato, ma una proiezione più complessa che può essere acritica e originare una nostalgia regressiva, oppure critica e progressiva, sempre a partire dal presente (Baccolini, “Journeying”; “Finding”).

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Il carattere dispersivo della diaspora ci permette di riflettere su un modo più elementare e ormai ampiamente condiviso, privo della drammaticità dell’emigrazione forzata, di muoverci nel panorama che abitiamo o nel quale ci troviamo, un gesto naturale e culturale insieme: il camminare. Il prossimo paragrafo è dedicato a tale gesto squisitamente umano, utile anch’esso ad esplorare i vari livelli di significato e valore del movimento che si riscontra nei romanzi analizzati.