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1. TEORIE DI RIFERIMENTO

1.2 SPAZIO E LUOGO

1.2.3 Esclusione spaziale e distopia: le gated communities

Secondo lo studioso Giovanni Barbieri (2015), il quale confronta vari studi sociologici cercando una definizione omogenea che metta d’accordo i vari orientamenti, le gated communities per essere tali dovrebbero soddisfare quattro requisiti:

1. Sono complessi residenziali, caratterizzati da cancelli, guardie private e videosorveglianza all’ingresso, oltre che da mura o recinzioni perimetrali, che restringono il pubblico accesso; 2. forniscono beni e servizi che sono usati e finanziati collettivamente – dalla manutenzione del verde, alla raccolta dei rifiuti, fino ai negozi, alle strutture scolastiche, sportive e ricreative; 3. includono accordi legali che vincolano i residenti a un comune codice di condotta formato da una serie di obblighi e divieti: dal parcheggiare solo in determinate aree, all’inviare

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all’Associazione dei proprietari una lista degli ospiti che si intende invitare a un party, al non esporre bandiere o simboli politici, fino al non decorare l’abitazione con determinati addobbi. In questo modo si tenta di salvaguardare il valore degli immobili e anche, in molti casi, di costruire una comunità dagli stili di vita omogenei; 4. Prevedono, infine, forme di micro-governo (Barbieri 2015, 97).

Soddisfacendo tali elementi, possiamo allora considerare esaustiva e completa la definizione di ‘comunità recintate’ fornita da Atkinson e Blandy (2005) citati dallo stesso Barbieri: “complessi abitativi racchiusi da mura o recintati, ad accesso pubblico ristretto, e caratterizzati da accordi legali che vincolano i residenti a un comune codice di condotta e, di solito, a responsabilità collettive di gestione” (Atkinson Blandy 2005, p. 178). Per chi si occupa di studi utopici, questa definizione risuonerà particolarmente famigliare: l’elemento della chiusura spaziale è stato ricorrente, come si è visto (cfr. cap 1), sin dalle prime utopie della tradizione di More in poi, per le quali la separazione fisica dal resto dello spazio esistente, era il requisito determinante per poter stabilire la società ideale, che si richiedeva completamente avulsa dal resto delle società note: un’interruzione nella loro storia e nella loro geografia. Non stupisce e, anzi, sembra molto opportuno che lo studioso Evan McKenzie abbia parlato proprio di ‘privatopia’ (1996) per indicare l’elemento ideale-utopico che i privati cittadini e cittadine cercano di raggiungere attraverso la scelta di sovvenzionare comunità residenziali nelle quali rinchiudersi per proteggere se stessi e se stesse, insieme ovviamente al proprio status, economico e sociale.

Come puntualizza Barbieri (2015) nella propria ricostruzione del fenomeno, le origini della comunità recintata non sono univoche né date per scontate dagli studiosi e dalle studiose: per alcuni infatti come Sarah Blandy (2006), i principali precedenti possono essere considerati i castelli e le città medievali, per Samer Bagaeen e Ola Uduku (2010) invece, le comunità chiuse hanno avuto inizio dai primi insediamenti fortificati in America Latina. Altri ancora (McKenzie 1994; Webster 2001) individuano invece nella cosiddetta “città-giardino” formulata da Ebenezer Howard alla fine dell’Ottocento, il modello principale. Howard elaborò tale modello nel tentativo di conciliare gli

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aspetti positivi della città (più lavoro e servizi) e della campagna (vita più salubre), eliminando quelli negativi (inquinamento e sovrappopolamento per la prima, scarsità di lavoro e di mezzi nella seconda). Secondo Jameson (2005), la città-giardino di Howard a fine Ottocento rappresenta il potere seduttivo ancora saldamente esercitato dalla secessione utopica iniziata secoli prima da More. Infine, una parte di studiosi sostiene che lo sviluppo delle comunità chiuse sia da riconoscere nel diffondersi dei CIDs – Common Interest Developments – dagli anni sessanta del Novecento.

Per Barbieri però, sulla scia di Sassen, la specificità delle comunità recintate è da rintracciare nel fenomeno della globalizzazione con la crisi delle istituzioni nazionali:

Come, infatti, rileva Saskia Sassen (2010), le comunità recintate iniziano a proliferare proprio a partire dagli anni che segnano la nascita del processo della globalizzazione; esse, inoltre, rappresentano nuove forme di assemblaggio di territorio, autorità e diritti che sorgono dalla decomposizione delle tradizionali strutture istituzionali nazionali; sono interne allo stato nazione e a specifiche aree urbane, ma possono assumere anche connotazioni tipicamente transfrontaliere: se prevalentemente abitate dalle élite globali, entrano a far parte delle geografie della centralità che connettono i centri di potere del mondo e attraversano la vecchia divisione Nord-Sud.

Le prime comunità recintate si sono sviluppate negli Stati Uniti sin dalla fine dell’Ottocento ma come afferma Barbieri, si sono poi diffuse in America Latina e anche in Europa con esperimenti recenti anche in Italia, in Lombardia ad esempio. I motivi che spingono ad accedervi possono essere diversi, ma in generale le persone che lo fanno sono attratte dalla priorità che queste comunità rionoscono alla privacy e alla “tranquillità”. L’attenzione posta su quest’ultima sembra affermare, quasi infantilmente per contrasto, il carattere disforico e detestabile dell’ambiente urbano tradizionale, con l’eterogeneità e l’arbitrarietà degli incontri e degli stili di vita che le è propria e che, dal flâneur benjaminiano in poi, ne costituisce il fascino e una ricchezza sociale. L’uniformità cercata nelle comunità recintate ha in effetti proprio il vantaggio, per coloro che scelgono di farne parte, di tenere

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fuori quella varietà umana e socioculturale che offre l’ambiente urbano. Proprio per evitarla, la comunità chiusa si servirà sempre più facilmente dell’ossessivo ricorso a dispositivi di controllo di vario genere per garantire la sicurezza per sé e i propri beni. A fronte della crescente urbanizzazione delle popolazioni del pianeta che in futuro aumenterà esponenzialmente (Brenner 2014), determinate categorie di persone si sentono sempre più spinte a legittimare questo loro bisogno di sentirsi “al riparo”, specialmente in relazione a una certa idea di identità di gruppo in cui riconoscersi, non solo con riguardo esclusivo alla proprietà. Dunque, possiamo affermare che il fine ultimo di questo tipo di scelte abitative, anche in relazione all’ossessività con cui si ripropongono nei testi distopico- fantascientifici, è questa ricerca dell’omogeneità. Non è un caso dunque che la fantascienza abbia riarticolato questa tendenza come fortemente negativa, in quanto rinforza le disuguaglianze e asseconda un pensiero di tipo elitaristico ed esclusivo che considera appunto la diversità come un problema sociale, mentre l’omogeneità – sociale, economica ed etnica – è valorizzata e difesa, con possibili rapide derive nella legittimazione di un pensiero “purista”, razzista.

Studi come quello di Barbieri dunque confermano che il desiderio di una segregazione spaziale, che nasce come difesa dall’esterno ma che finisce per essere un’autoreclusione anche se privilegiata, non è un’esagerazione di ordine finzionale (dai libri al cinema, alle serie tv), ma coincide con una tendenza che si sta verificando nei paesi in cui la disuguaglianza sociale è altissima31.

Gli studiosi e le studiose che sostengono il diritto alla vita urbana – indicativamente, ma non solo, da Lefebvre a Sassen, per includere anche scrittori come Delany – coloro cioè che vorrebbero tutelare un’esperienza democratica e partecipata delle città, svolgono un ruolo fondamentale nella difesa della causa utopica anche senza un vero e proprio “pedigree” di provenienza disciplinare dagli studi utopici.

31 Un esempio di questa distopia dell’esclusione ed eliminazione del diverso è La zona (2007), del regista messicano

Rodrigo Plá. Tra gli studiosi che si concentrano sulla produzione cinematografica distopica dell’America Latina, si veda Mariano Paz che ha dedicato varie pubblicazioni al tema.

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L’analisi dei romanzi mostrerà che le loro speranze, anche lì presenti, sono messe a repentaglio da interessi di vario genere e di varia provenienza che provocano la scomparsa, quasi totale, della città dal romanzo. Cercherò di problematizzare tale assenza nei prossimi capitoli di analisi, ma intanto si può senz’altro anticipare che il chiaro collegamento tra un futuro distopico e l’assenza della vita delle città ci parla di un’urgenza in realtà sempre più presente e concreta: quella di iniziare una conversazione rinnovata sulla nostra vita in comune, a partire proprio dalle città.

Qualcuno ha iniziato a porre tali questioni partendo dalle città rappresentate nei libri di narrativa, eleggendo l’ordine letterario quale lente preferita di osservazione: sono nate così di recente discipline inedite che continuano a sottolineare questa grande riscoperta dello spazio anche nella fiction, come la Geografia letteraria, la Cartografia letteraria e la Geocritica, delle quali fornirò una generale panoramica nella sezione che segue.