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1. TEORIE DI RIFERIMENTO

1.2 SPAZIO E LUOGO

1.2.2 Lo Spatial Turn

È soltanto con la traduzione in inglese dei lavori di Lefebvre e Foucault che la loro rivoluzione copernicana dello spazio ha potuto finalmente contagiare studiosi e studiose di ambito anglosassone, dando il via a quel fenomeno comunemente chiamato spatial turn, o svolta spaziale. Il dibattito interdisciplinare sullo spazio che dalla geografia ha coinvolto le materie umanistiche, ma non solo in questa direzione, è iniziato nei primi anni novanta.

Al di là del grande impatto dei filosofi francesi, vi sono anche altri elementi che hanno contribuito allo sviluppo di questa ampia tendenza di studi e questi sono rintracciabili nel preciso contesto socioeconomico e culturale tra gli anni ottanta e novanta del Novecento. Rober Tally Jr. ha sottolineato, ad esempio, che senza dubbio il fenomeno della globalizzazione ha contribuito a una profonda riconfigurazione del concetto di spazio nel mondo globalizzato. I legami tra produttori e consumatori su grandi distanze in tutto il globo, distanze percorse e collegate da flussi di beni e

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capitale, e da internet – che ovviamente ha complicato il quadro di analisi insieme ad altre tecnologie con l’introduzione di un ulteriore spazio, il ‘cyberspazio’ – hanno profondamente modificato i comuni concetti di distanza e prossimità. Qualcuno aveva azzardato l’ipotesi di una fine dello spazio, dal momento che la globalizzazione avrebbe, da quel momento in poi, accorciato le distanze, ma in realtà questa, se possibile, ha semmai collocato proprio lo spazio al centro di ogni dibattito sulle nostre società contemporanee e future, in particolare riguardo alle città. Un esempio di analisi in questo senso è la nozione di ‘global city’ elaborata dalla sociologa Saskia Sassen per parlare di come le grandi città (in particolare Tokyo, Londra, New York), in quanto snodi del mercato globale siano più collegate tra loro a livello transnazionale, che con le rispettive realtà locali. Senza contare che alla globalizzazione andrebbe aggiunta la componente che deriva da un fenomeno in qualche modo affine: la migrazione. Lo spostamento di persone o di interi gruppi, a vari livelli (transnazionale ma anche all’interno dello stesso stato), nonostante non sia “iniziato” certamente con la globalizzazione, ha subito una notevole accelerazione con il suo intensificarsi: più flussi di merci e di capitale, ma anche più flussi di esseri umani. La sproporzione nel diritto di accesso a questi flussi e dei motivi di questo accesso – rifugiati, manodopera, turisti – ha tracciato nuove cartografie della discriminazione mondiale su base etnica, di classe e di genere, tuttora evidenti e lontane dal dirsi pacificate.

Inoltre, sempre nell’ottica di tracciare il contesto socio-storico di affermazione dello spatial turn, un altro elemento di influenza sulla riaffermazione della spazialità è stato il cambiamento climatico, una minaccia generale purtroppo in crescita (che piaccia o no ai suoi detrattori). Timori e domande sul come – il se è ormai fuori discussione – le nostre città reagiranno agli eventi catastrofici futuri percorrono in lungo e in largo allo stesso modo la fantascienza come le agende politiche ed economiche dei paesi (con svariati e non sempre positivi risultati). Le distopie contemporanee sono spesso ambientate in un paesaggio devastato da tsunami e grandi inondazioni dovuti allo scioglimento delle calotte polari28: è l’acqua il volto delle nuove minacce che dall’esterno sfidano la sopravvivenza

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umana, e la natura stessa sembra riaffermare la propria supremazia con mezzi ed effetti inquietanti che minano la presenza umana sulla Terra29.

Nelle righe che seguono, il geografo Denis Cosgrove definisce lo spatial turn esplicitando la svolta epistemologica che ne sta alla base:

A widely acknowledged ‘spatial turn’ across arts and sciences corresponds to post- structuralist agnosticism about both naturalistic and universal explanations and about single-voiced historical narratives and to the concomitant recognition that position and context are centrally and inescapably implicated in all constructions of knowledge. (7)

In The Spatial Turn (2009), Barney Warf e Santa Arias scelgono di porre l’ambito della Geografia umana al centro di questa svolta intellettuale iniziata negli anni novanta. La geografia umana all’epoca aveva iniziato un processo di diffusione di idee verso altre discipline, con il risultato che oggi i geografi vengono letti anche da chi si occupa di studi umanistici e scienze sociali. Discipline e ambiti di ricerca che solitamente non si concentravano sullo spazio quale oggetto principale della propria indagine, come ad esempio gli studi letterari, i cultural studies e la sociologia, hanno iniziato a preferire una prospettiva più spiccatamente spaziale nelle proprie ricerche.

Il geografo americano Edward Soja è lo studioso principale associato a questo nuovo trend e i suoi testi – Postmodern Geographies: The Reassertion of Space in Critical Social Theory (1989), e Thirdspace: Journeys to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places (1996)30 – sono stati

rivelatori sotto molti aspetti, tanto da contribuire a farlo riconoscere, in generale, come uno dei teorici principali degli ultimi decenni. Il contributo del lavoro di Soja è stato quello di affermare che gli

29 La Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer (2014), è un notevole esempio di commistione di fantascienza con il

cosiddetto ‘New Weird’ (l’autore stesso è l’iniziatore del genere).

30 Un altro grande osservatore dello sviluppo della metropoli nel capitalismo globale, con un occhio alla storia e uno al

futuro che l’attende, è Mike Davis il quale, come Soja, ha dedicato proprio a Los Angeles il suo libro più noto: City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles pubblicato nel 1990.

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individui sono determinati dalle proprie esperienze dello spazio (assumendo qui una chiara distanza dal pensiero critico marxista più ortodosso), ma anche di riproporre in maniera efficace la lezione di Lefebvre sullo spazio triadico, arricchendolo di una prospettiva attenta al discorso della rappresentazione e dell’identità, elementi che gli derivavano dalla teoria postcoloniale (e Homi Bhabha ha in effetti influenzato il concetto di Terzospazio di Soja).

Soja descrive il cruciale riconoscimento che finalmente la categoria di spazio ha ricevuto, nonostante l’impressione negativa iniziale da parte di qualche scettico:

This spatial advocacy is not against historical interpretation, an anti-history, nor is it a substitution of spatial for historical determination, as some skeptics have seen it to be. [...] the Spatial Turn is fundamentally an attempt to develop a more creative and critically effective balancing of the spatial/geographical and the temporal/historical imaginations. (Soja Taking 12)

Soja sottolinea come lo spatial turn abbia un grande debito nei confronti del pensiero radicale della fine degli anni sessanta a Parigi, confermando quanto si è detto sugli iniziatori di tale svolta: Foucault e Lefebvre. L’importanza che Soja dà agli ultimi anni sessanta in Francia rende ancora più evidente le influenze reciproche tra Lefebvre, Foucault e de Certeau, sebbene quest’ultimo pubblicasse L’invention du quotidien più tardi, nel 1980.

Ad ogni modo, per Soja i primi due filosofi possono essere considerati i diretti responsabili del simultaneo intenso dibattito sullo spazio e la sua completa rivalutazione. Se ci soffermiamo sul dato temporale e spaziale di questo fenomeno, e se pensiamo anche ai movimenti culturali, artistici e filosofici come i Situazionisti e gli storici della scuola di Annales come Braudel, Soja fa un distinguo riconoscendo che, secondo lui, “only Lefebvre and Foucault specifically began a radical rethinking of the ontological, epistemological and theoretical relations between space and time” (18). Dunque, lo spatial turn è iniziato con loro e specialmente grazie alle traduzioni in inglese tra gli anni ottanta e novanta dei loro principali lavori. La parità ontologica di tempo e spazio veniva finalmente affermata

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e da allora ogni studio o disciplina che menziona ‘la svolta spaziale’ o si preoccupa di analizzare sotto un certo aspetto la spazialità, ribadisce il principio citando le famose parole di Michel Foucault:

La grande ossessione che ha assillato il XIX secolo, è stata, come è noto la storia: temi dello sviluppo o del blocco dello stesso, temi della crisi e del ciclo, temi dell’accumulazione del passato, grande sovraccarico di morti, il raffreddamento che minacciava il mondo. È nel secondo principio della termodinamica che il XIX secolo ha trovato gli elementi essenziali delle sue risorse mitologiche. Forse quella attuale potrebbe invece essere considerata l’epoca dello spazio. Viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. (Foucault 2001, 19)

Il filosofo francese non solo riconosce l’emergere dello spazio quale categoria caratterizzante il pensiero del Novecento, ma sembra indicarlo anche come membrana concettuale attraverso la quale il reale ora si esplicita, sottolineando la nuova urgenza, da parte nostra, di cogliere tale svolta a partire da categorie che diamo per scontate. Nel “viviamo nell’epoca del simultaneo” cogliamo anche l’acuta profezia di Foucault – il filosofo francese scrive quelle righe nel 1967 – sull’arrivo di internet che avrebbe di lì a poco tempo, riarticolato i comuni concetti di ‘vicino’ e ‘lontano’ in modi davvero radicali.

Secondo Soja (2009), il problema del pensiero dello spazio fino ad allora era stato un approccio che si concentrava esclusivamente sullo ‘spazio percepito’ (o pratiche spaziali) per dirla con Lefebvre, che significa, come abbiamo già visto, porzioni mappabili di spazio, ovvero la geografia materiale; oppure, in alternativa, ci si concentrava sulle rappresentazioni dello spazio, lo ‘spazio concepito’ (le rappresentazioni). Nel primo caso, l’impressione di avere delle griglie di riferimento che descrivessero lo spazio aveva scoraggiato una più profonda analisi delle forze causali che avevano prodotto quello stesso spazio, a proposito del quale ci si limitava solo all’osservazione e alla misurazione. Nel secondo caso, focalizzandosi troppo sulla componente dell’immaginario, del non esistente, si presentava il rischio di dimenticare lo spazio reale. A questo proposito il lavoro di

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Gaston Bachelard (1957) è stato ampiamente apprezzato, anche se la prospettiva rappresentazionale non era sufficiente per una considerazione più complessa dello spazio.

Per Soja, il maggio del 1968 a Parigi, nel suo momento di ribellione che avrebbe scardinato assunti considerati irremovibili, contribuì grandemente a determinare quello scarto. Per lui, la fondamentale premessa acquisita è che “the geographies we have produced (or were produced for us) can negatively affect our lives but […] we can act to change these unjust and oppressive geographies” (Soja Taking 20).

La risposta, tuttavia, non fu unanimemente positiva. Grazie a Soja scopriamo infatti che Foucault era stato perfino ignorato per le sue posizioni politiche, considerate non abbastanza radicali, e Lefebvre, pur considerato “one of the Twentieth century leading Marxist philosophers and urban thinkers, was set aside for promoting urban spatial causality, even urban revolution, too intensively” (20). Il rifiuto fu via via più deciso, soprattutto a partire dagli anni settanta da parte di teorici marxisti più “intransigenti” (tra i quali Soja annovera Harvey e Castells) che non potevano preferire una causalità spaziale su quella data dal conflitto di classe. Questo tipo di reazione avrebbe interrotto per due decenni un ulteriore sviluppo dello spatial turn. Si deve infatti a Soja stesso la riasserzione dei loro principi man mano che i suoi studi proseguirono, e a partire proprio da una prospettiva marxista che secondo lo studioso gli altri avevano dimenticato, o adottato in modo incompleto.

A partire proprio da Lefebvre, Soja in Postmodern Geographies (1989) connette la coppia dialettica “socio-spaziale” con l’altra filosofica di “storia e geografia”, notando quanto si continuasse a dare più risalto ad associazioni come “socio-storico” rispetto a “socio-spaziale” o “spazio- temporale”: la geografia e l’elemento spaziale venivano sempre omessi. Cosa fare dunque per una nuova considerazione critica e realmente attenta allo spazio?

The key argument, drawing heavily on Lefebvre, was that spatial processes shaped social form just as much as social processes shaped spatial form. It seemed so obvious to me that spatial relations of uneven development were just as important in theory and political practice as social relations of class (Postmodern 21).

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Soja ricorda che venne considerato da altri colleghi marxisti di essere un feticista dello spazio e continua con il proprio assunto fondamentale: “Socialization and spatialization were intricately intertwined, interdependent and often in conflict. Neither the spatial nor the social should be privileged over the other, especially in the historical-geographical materialism being so insightfully created by David Harvey and a few others” (21).

A dimostrare l’influenza che soprattutto Lefebvre ha esercitato sul lavoro di Soja, quest’ultimo in Postmodern Geographies parla del concetto di ‘trialettica’, ovvero dell’esistenza di Primo spazio, Secondo spazio e Terzo spazio sviluppati poi nei suoi studi successivi Thirdspace (1996) e Postmetropolis (2000). Quella socio-spaziale è la dialettica chiave per investigare il modo in cui i processi sociali formano e spiegano le geografie ma anche per vedere “how geographies shape and explain social processes and social action” (Soja 2009, 22). Soja ha avuto l’indubbio merito di favorire e stabilire la trialettica “spazialità-storicità-socialità” che, combinata all’altra importante premessa della causalità spaziale urbana, è riuscita a riaffermare una volta ancora e con l’attenzione che meritava, le lezioni di Lefebvre e Foucault, contribuendo a una riflessione più complessa e attenta delle dinamiche che avvengono nei luoghi e come quei luoghi vi contribuiscano o al contrario, possano attenuarle. Un pensiero critico dello spazio va necessariamente accompagnato da una pratica critica, ed entrambi sono fondamentali per sovvertire la distorsione dello storicismo.

Come sottolineano con grande lucidità Warf e Arias nelle parole che seguono, che potremmo considerare significative per quanto riguarda lo spatial turn, ma la cui importanza è centrale anche nell’analisi dei testi qui presi in esame, “geography matters, not for the simplistic and overly used reason that everything happens in space, but because where things happen is critical to knowing how and why they happen” (1). I due studiosi articolano il punto teorico centrale dello spatial turn con ulteriori passaggi rispetto a quelli elaborati da Soja che abbiamo appena visto. Warf e Arias sottolineano infatti che in passato mentre lo spazio veniva marginalizzato, il tempo era considerato il soggetto centrale ed era stato sottoposto a un processo di linearizzazione: esso corrispondeva a una linea orientata verso il progresso dove il passato era sinonimo di barbarismo e il futuro l’indubbio

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miglioramento di ogni stadio precedente della storia umana. Una visione che, come i due autori affermano, “portrayed the past as the progressive, inexorable ascent from savagery to civilization, simplicity to complexity, primitiveness to civilization, and darkness to light” (Warf and Arias 2). Inoltre, parafrasando Edward Said (1978), Warf e Arias evidenziano che “orientalist thought structured the Western geographical imagination such that distance from Europe became equated with increasingly more primitive stages of development” (3). La distanza geografica è assimilata dunque a una distanza temporale-evolutiva, incorporando e perpetrando stereotipi ben precisi.

Inoltre, se Soja aveva individuato come momento e luogo di inizio dello spatial turn le teorie di Lefebvre e Foucault tra anni sessanta e settanta e la loro divulgazione a Parigi, Warf e Arias aggiungono un precedente importante ricordando la Scuola di Chicago negli anni venti: è stato qui e allora che i sociologi reintrodussero lo spazio nella conversazione, specialmente seguendo l’analisi urbana di fenomeni legati alle minoranze e focalizzandosi sul tessuto etnico multiforme dei quartieri. Oltre a ricordare questo ulteriore tassello nel quadro che rintraccia le origini della svolta spaziale, anche i due studiosi concordano con Soja nel riconoscere il ruolo di svolta incarnato dai filosofi francesi, specialmente perché si iniziò a pensare allo spazio in relazione al progressivo sviluppo del capitalismo.

Un elemento su cui i due studiosi invece sono in disaccordo con Soja è il giudizio su Harvey, nei confronti del quale Warf e Arias sono meno critici e anzi gli riconoscono il pregio di aver legato la teoria sociale alla componente spaziale. Grazie alla prima, lo spazio è stato reinquadrato come categoria critica: da spazio dato a spazio come prodotto e, come tale, partecipe attivo nella costruzione della vita sociale. Inoltre, ad Harvey i due studiosi riconoscono il pregio di aver combinato in questa delicata conversazione il problema della nostra agency spaziale e, aspetto fondamentale per la prospettiva che auspico di adottare efficacemente in questa ricerca, lo ha collegato al discorso sull’utopia.

Harvey nel suo importante Spaces of Hope (2000) ha coniato la nozione di ‘dialectical utopianism’, con la quale cerca di affrontare il dilemma di come mantenere integra una certa porzione

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di utopia, all’interno del sistema socioeconomico del tardo capitalismo che esprime ampiamente il proprio potere attraverso il modo in cui le città e l’urbano sono concepiti, costruiti e sviluppati. Inoltre, come dirò in occasione dell’analisi del primo romanzo, Harvey sembra mantenere come necessario per l’utopia un certo margine di chiusura spaziale. Affronterò questo spunto e l’utopismo dialettico di Harvey nel primo capitolo di analisi dedicato al romanzo On Such a Full Sea, per il quale farò proprio riferimento a Spaces of Hope anche in altre sue parti.

A sottolineare ed espandere le premesse dello spatial turn è stato anche il sociologo inglese Anthony Giddens, il quale nel 1984 con la sua teoria della strutturazione, affermava come la struttura, il livello più generale della società, e l’agency, il livello dell’individuo, non sono più in una relazione dualistica, ma in una relazione osmotica. Per Giddens, pensiero e comportamento “do not simply mirror the world; they constitute it as the outcomes to action. Social structures and relations are thus reproduced and hence simultaneously changed by the people who make them; individuals are both produced by and producers of history and geography” (Warf and Arias, 4). Gli individui sono soggetti allo spazio e, contemporaneamente, soggetti dello spazio: tale principio si rivela particolarmente significativo se associato all’impulso utopico, grazie al quale i rapporti in cui il soggetto è coinvolto da parte dallo spazio, si presentano come uno status quo che può essere ribaltato nel momento in cui l’individuo riacquisisce agency, ovvero prende coscienza di sé e delle proprie capacità di azione in relazione a un contesto che lo limita o, peggio, opprime.

Una postura critica incentrata sui modi e i termini della nostra esperienza urbana, anticipata sopra con la figura di David Harvey, è anche dispiegata nei lavori più recenti di altri pensatori come lo scrittore di fantascienza Samuel Delany in Times Square Red, Times Square Blue (1999). In modi diversi, anche Delany ha fatto propria una fondamentale preoccupazione sul destino che attende la nostra libertà di circolazione, ma anche il modo in cui accediamo a determinati servizi e in generale, a come possiamo utilizzare da cittadini e cittadine il suolo pubblico, oltre che venire inclusi come parte attiva dei progetti urbanistici delle nostre città. Inoltre, cosa forse ancora più fondamentale di altre per la tenuta democratica, è cruciale mantenere nelle città quella componente di eterogeneità

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sociale e di arbitrarietà dell’incontro e delle esperienze. Delany sottolinea ad esempio l’importanza che il contatto ha per la vitalità della vita in città, un contatto che oggi viene scoraggiato, anzi: siamo educati a temerlo (177). Sotteso alla sua posizione critica traspare la convinzione che una certa componente di imprevedibilità andrebbe tutelata, come a dire che gli incroci delle strade sono prima di tutto incroci sociali e che dovremmo rimettere al centro le relazioni. Tali componenti di eterogeneità e imprevidibilità, come sostiene anche Doreen Massey in più punti del suo studio più noto – For Space (2005) – sono essenziali affinché ogni contesto urbano rimanga vitale e affinché uno spazio soprattutto politico (dunque di contestazione) sia ancora possibile. Se non perseguiamo tale sforzo, sembrano avvisarci Delany e Massey, l’alternativa sarà una griglia distopica di movimenti prestabiliti, costantemente monitorati, controllati, limitati, in una tendenza sempre più pervicace all’isolamento e all’esclusione sociale, con conseguenti forme di ghettizzazione.

A proposito di queste ultime, dedicherò il prossimo breve paragrafo alla formula spaziale delle ‘gated communities’, molto presenti nei romanzi analizzati e che come vedremo incarnano una declinazione fortemente distopica della disuguaglianza sociale.