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La scelta e la phronesis

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 58-74)

II. Virtù morale e scelta

2. La scelta e la phronesis

Dal momento che la virtù è essenzialmente scelta, ed è proprio la scelta ad essere oggetto di lode o di biasimo, la ricerca aristotelica procede nel III libro ad un’indagine sulla struttura di questa nell’azione morale.

Va sottolineato preliminarmente che la scelta (proairesis) è «un che di volontario» (EN III 4, 1111b7), per cui prima di dedicarci

all’indagine su cosa essa sia è opportuno soffermarsi sulla questione della sua natura volontaria o involontaria, e quindi della responsabilità dell’azione morale.

La distinzione tra volontarietà e involontarietà ha luogo più approfonditamente nel III libro dell’Etica Nicomachea, in cui vengono definite volontarie tutte le azioni in cui il principio dell’azione si trova in noi, ovvero quelle azioni che dipendono da noi (eph’emin), mentre vengono definite involontarie le azioni compiute per costrizione (bia), cioè senza alcun concorso dell’agente, o per ignoranza (agnoia), che, come vedremo più specificamente, è ignoranza delle circostanze.

Distinguere il volontario (hekousion) dall’involontario (akousion) è certo necessario, per coloro che esaminano il campo delle virtù, ed è utile anche ai legislatori, per quanto riguarda i premi e le punizioni. Si pensa che siano involontarie le azioni compiute per forza o per ignoranza. (EN III 1, 1109b33- 1110a1)

L’involontarietà dell’azione compiuta per costrizione sta nel fatto che il suo principio (arche) è esterno all’agente, per cui chi agisce non contribuisce in nulla al principio dell’azione.

Gli esempi di azioni di questo tipo cui viene fatto ricorso sono due, e riguardano uno la situazione in cui ci si trovi a essere trasportati dal vento (1110a3), l’altro quella in cui qualcuno si impadronisca di un altro più debole (1110a4). In tali casi ci troviamo a compiere qualcosa

che non è affatto voluta da noi: è chiaro, infatti, che il principio di tali azioni non è in noi. Detto questo sulle azioni involontarie, Aristotele precisa che non vi è una regola generale per stabilire il margine di volontarietà nelle azioni che vengono compiute “per paura di mali peggiori” o a causa di “qualcosa di bello” (1110a6). Tali azioni sono perciò descritte come azioni ‘miste’, anche se «somigliano di più a quelle volontarie» (1110a12).

Per quanto riguarda il primo caso, cioè per le azioni compiute per paura di mali peggiori, vediamo portata ad esempio la situazione in cui per salvare dalla morte i propri genitori o i propri figli ci si trovi a compiere azioni turpi. È chiaro che tali azioni non verrebbero mai compiute di per sé, ma dal momento che tale azioni trovano tuttavia il principio nell’agente, esse sono da ritenersi comunque frutto di una scelta, e quindi da valutarsi prevalentemente come volontarie.

È dubbio se siano volontarie o involontarie le azioni che vengono compiute per paura di mali peggiori, o a causa di qualcosa di bello - come, per esempio, nel caso in cui un tiranno che si sia impadronito dei nostri genitori e dei nostri figli ci comandi di compiere qualcosa di turpe, e se noi lo compiremo quelli si salveranno, mentre saranno messi a morte se non lo compiremo. Qualcosa di simile accade anche nei casi in cui si gettano fuori bordo oggetti pesanti durante le tempeste; in generale, nessuno fa questo volontariamente, ma tutte le persone ragionevoli lo fanno, per la salvezza propria e degli altri. Ora, azioni del genere sono miste, ma somigliano di più a quelle volontarie. Infatti nel momento in cui vengono compiute sono frutto di

una scelta, e il fine dell’azione dipende dalle circostanze. (EN III 1, 1110a4- 12)

Sorge a questo punto il problema della relazione tra l’involontarietà dell’azione e le valutazione delle circostanze. L’esame di tale relazione risulterà, in seguito, un elemento utile per determinare la volontarietà o l’involontarietà di questo genere di azioni, nelle quali è l’osservazione e l’analisi delle circostanze a determinarne la responsabilità morale, ed è nuovamente alle circostanze che si deve guardare anche quando si riflette sulla la volontarietà delle azioni particolari.

Allora è sulla base delle circostanze che si deve dire se un’azione è volontaria o involontaria: nel caso citato l’agente agisce volontariamente, infatti in azioni del genere il principio del movimento delle parti strumentali del corpo è in lui: dipende da lui il compiere, o no, le azioni il principio delle quali è in lui. Quindi queste cose sono volontarie, anche se, forse, in assoluto, sono involontarie: nessuno mai sceglierebbe di compiere alcuna di queste per sé stessa. (EN III 1, 1110a14-19)

Per quanto riguarda, invece, le azioni scelte a causa di un bene, è chiaro che esse non sono involontarie, e questo perché il fine non è mai costrittivo, e soprattutto il bene non può esserlo dal momento che «tutti fanno tutto in vista del piacevole e del bene. E chi agisce per forza e

controvoglia lo fa con dolore, mentre chi agisce a causa del piacevole e del bello lo fa con piacere» (EN III 1, 1110b12-14).

L’attenzione di Aristotele per le circostanze di un’azione è ulteriormente confermata dalla sua trattazione del secondo genere di azioni involontarie, cioè quelle compiute per ignoranza. L’ignoranza a cui si fa riferimento in tale contesto è causa dell’involontarietà delle azioni proprio in relazione alle circostanze in cui l’azione ha luogo.

Il fatto che l’ignoranza sia relativa alle circostanze dell’azione e non ai fini in vista di cui questa viene compiuta, è essenziale per definire la differenza tra questo genere di ignoranza e quello implicato nella teoria intellettualistica socratica. Allo scopo di chiarire tale differenza Aristotele dedica un intero capitolo del III libro, che è il caso di anticipare qui.

Ora, volendo prendere in esame questa critica, ricordiamo che secondo Socrate il comportamento etico dipende direttamente dalla conoscenza razionale del bene: un uomo che possiede la conoscenza del bene agirà necessariamente in vista di questo, dunque nessuno che conosca il bene può mai scegliere il male. Nel Gorgia, per esempio, troviamo Socrate che, discutendo con Polo sulla natura della retorica, fa notare al suo interlocutore che coloro che compiono azioni senza intelletto «non fanno ciò che vogliono» ma solo «ciò che sembra loro».

POLO Io no!

SOCR. E allora, confutandomi, non dovrai dimostrare che i retori hanno intelletto e che la retorica è un’arte, non un’adulazione? Ma se mi lascerai inconfutato, allora retori e tiranni, che fanno nelle città tutto quello che sembra loro, con tale potere non possederanno alcun bene, se è vero che il potere, come tu dici, è un bene, mentre fare senza intelletto quello che sembra, come tu stesso convieni, è un male. O no?

POLO Sì.

SOCR. Come è allora possibile che i retori e tiranni abbiano un gran potere nelle città, se Socrate non è prima convinto da Polo ch’essi fanno davvero quello che vogliono?

POLO Ma quest’uomo…!

SOCR. Io sostengo ch’essi non fanno quello che vogliono, e tu confutami. POLO Ma non hai convenuto un momento fa ch’essi fanno ciò che sembra loro meglio?

SOCR. Anche ora ne convengo.

POLO Non fanno allora quello che vogliono? SOCR. Lo nego.

(Platone, Gorgia, 466d5-467b7)

La volontà dipende, quindi, dalla conoscenza del bene, fine in vista di cui si compiono le azioni. Più avanti leggiamo, inoltre, che «Tutto quello che facciamo per uno scopo non lo vogliamo per sé, ma, appunto, per lo scopo cui tende» (468c1).

Ciò però implica che se un uomo agisce per il male non lo fa volontariamente, ma perché non ne possiede una conoscenza veritiera: egli ha agito secondo ciò che a lui sembra bene.

L’errore morale per Socrate non è paradossalmente da biasimare, perché involontario è colui che agisce in tale modo semplicemente ignora cosa sia veramente il bene, in altre parole fa il male senza volerlo, non possedendo una conoscenza razionale.

Riferendosi implicitamente alla concezione socratica da una parte e a quella sofistica dall’altro, Aristotele, nel capitolo 6 del III libro, le critica entrambe, infatti, se da un lato la concezione socratica solleva gli uomini dalla responsabilità dell’azione, dall’altro quella sofistica relativizza fin troppo il concetto di bene.

Abbiamo detto che il volere riguarda il fine, ma ad alcuni esso pare che riguardi il bene, ad altri il bene apparente; per coloro che dicono che l’oggetto del volere è il bene, questa posizione comporta la conseguenza che non sia oggetto del volere ciò che vuole colui che non sceglie correttamente, infatti se sarà voluto, sarà anche bene, ma, se il caso è quello che abbiamo detto, la cosa scelta era il male; invece, coloro che ritengono che l’oggetto del volere sia il bene apparente, vengono a dire che non vi è un oggetto naturale del volere, ma che per ciascuno è bene ciò che a lui sembra tale: a persone diverse appaiono bene cose diverse, e, se si dà il caso, contrarie. (EN III 6, 1113a13-23)

Aristotele riflette seriamente sull’idea sofistica del bene apparente, in base alla quale per ciascuno il bene è ciò che a lui appare tale, ma osserva che la concezione sofistica non configura la possibilità che ci sia un bene secondo verità e che, quindi, stia all’uomo capire se

In ogni caso, infatti, sia che si tratti di un bene apparente sia di un vero bene, la scelta dell’uno o dell’altro è da attribuirsi all’intenzione dell’agente. Essa, quindi, non è involontaria né in un caso, né nell’altro.

Di conseguenza, però, se queste conclusioni non ci soddisfano, allora non bisogna forse dire che, in assoluto e secondo verità, oggetto del volere è il bene, ma che per ciascuno è il bene apparente; che per l’uomo eccellente è il bene secondo verità, mentre per l’uomo dappoco è ciò che capita, proprio come capita anche per i corpi: per quelli in buone condizioni di salute sono salutari le cose veramente tali, per quelli malati cose diverse, e lo stesso vale per ciò che è amaro, dolce, caldo, pesante e per tutto il resto? Infatti l’uomo eccellente giudica ogni cosa in modo corretto, e a lui appare evidente la verità in ogni singolo caso. Per ogni stato abituale si danno cose belle e piacevoli sue proprie, e certo l’uomo eccellente si distingue soprattutto per il fatto di vedere il vero nei singoli casi, ed essere come un canone e un’unità di misura. La massa, invece, pare che cada in inganno a causa del piacere, che, infatti, si mostra essere un bene, anche se non lo è. Quanto meno la gente sceglie il piacere ritenendolo bene, e fugge il dolore ritenendolo male. (EN III 6, 1113a24-1113b2)

Contro Socrate poi Aristotele osserva che se si giudicano nobili le azioni scelte per il bene, non si può semplicemente imputare quelle vergognose all’ignoranza del bene: è importante invece riconoscere che, tranne nei casi dovuti a ignoranza (delle circostanze) e costrizione, il fine delle nostre azioni, è voluto consapevolmente, ovvero noi siamo padroni e responsabili delle nostre azioni e responsabili, in egual misura, sia delle azioni buone sia di quelle cattive. È quindi proprio la

capacità di scegliere per il bene che determina la virtù (arete) della persona, o in altre parole un’indole si distingue da un'altra («eccellente» o «dappoco») in base alle scelte che la persona fa.

È difficile capire in che cosa un tessitore o un costruttore saranno avvantaggiati nelle loro arti per il fatto di conoscere il bene in sé, o in che modo colui che ha contemplato l’idea stessa di bene potrà diventare migliore come medico, o come stratega. (EN I 4, 1097a8-10)

Esaminato questo punto, torniamo ora all’esame del resto del III libro. Osserviamo che nel capitolo 2 vengono specificate alcune diverse misure nella valutazione della responsabilità nelle azioni compiute per ignoranza.

In particolare si sottolinea il fatto che «tutto ciò che si fa per ignoranza non è volontario» (1110b18) ma l’involontarietà vera e propria in tali azioni è data solo qualora nell’agente vi sia un effettivo dolore e pentimento per ciò che ha fatto.

Infatti chi compie una qualsiasi azione per ignoranza e non si sente affatto disgustato per la sua azione, sebbene non abbia agito volontariamente – infatti non sapeva quello che faceva – non ha agito nemmeno involontariamente, dato che non se ne addolora. Quindi tra chi agisce per ignoranza, colui che lo fa con pentimento ci pare agire involontariamente, colui che non prova pentimento, dato che è diverso dal precedente, lo si chiamerà ‘uno che agisce non volontariamente’. (EN III 2, 1110b19-23)

Di tal genere sono le azioni attribuite ad alcuni personaggi delle tragedie. Come osserva anche Natali, ciò viene stabilito nella Poetica, in particolare nel capitolo 13 (1452b30 e ss.), in cui si afferma che i protagonisti di una tragedia, al fine di suscitare nel pubblico paura e pietà, devono essere descritti come persone intermedie tra vizio e virtù, che a causa di un errore inconsapevole, vedono la loro vita ribaltarsi e passare da una condizione di buona sorte a una di sorte avversa.

Non resta che un tipo d’uomo intermedio: quello che, non distinguendosi per virtù e giustizia, cade nella sfortuna non per vizio o malvagità, ma per un qualche errore, come tra quelli che ebbero grande fama e fortuna, Edipo, Tieste e altri uomini illustri appartenenti a tali famiglie. (Poet. 13, 1453a7-12)

Ora è importante specificare che tale errore, che consiste nel danneggiare qualcuno senza saperlo (come accade, per esempio, a Edipo che uccide un uomo senza sapere che si tratta del proprio padre), deve essere seguito dal pentimento, altrimenti la cattiva sorte del personaggio risulterebbe in un certo senso una giusta punizione, il che non produrrebbe certamente nel pubblico né pietà né paura ma soddisfazione. Oltre all’attenzione per le circostanze esterne in cui ha luogo l’azione e le condizioni di queste nelle loro singolarità, Aristotele prende in esame il problema della volontarietà della scelta in relazione alla facoltà dell’anima.

Nel capitolo 3 viene specificato, a tale proposito, che rientrano nella sfera del volontario anche le azioni compiute per impulso della sola anima desiderante, come l’agire degli animali e dei bambini piccoli. «Infatti non dice bene di certo chi afferma che gli atti compiuti a causa dell’impetuosità o del desiderio sono involontari.

Per prima cosa, infatti, più nessuno degli altri animali agirebbe volontariamente, e nemmeno i fanciulli» (EN III 3, 1111a24-26). È assurdo, infatti, pensare il contrario, e in ciò si percepisce ancora un’implicita polemica antisocratica, dal momento che le condizioni basilari della volontarietà, che sono il principio nell’agente e la conoscenza dei dati della situazione, sono soddisfatte, e pur tuttavia si compiono azioni ingiuste.

Dopo aver definito le differenze tra il volontario e l’involontario Aristotele dà inizio all’indagine sulla scelta a partire dal capitolo 4 del III libro. In tale sede viene specificato innanzitutto che la scelta «pare essere strettamente connessa con la virtù, e permette di giudicare i caratteri ancora più delle azioni» (EN III 4, 1111b5-6), motivo per cui la scelta è volontaria, ma non è identica al volontario. Il campo del volontario è, infatti, più ampio di quello della scelta, ossia non tutto ciò che è volontario è oggetto di scelta «È evidente, allora, che la scelta è un che di volontario, ma non è identica al volontario, perché esso ha maggiore estensione» (1111b6-8). Riprendendo, infatti, il riferimento alle azioni compiute dai fanciulli o dagli animali, Aristotele porta, ad

esempio, il fatto che sebbene di tali azioni si parli come di azioni volontarie, esse non sono certo frutto di una scelta.

La differenza sostanziale tra gli atti volontari compiuti per impulso o desiderio, e gli atti volontari compiuti secondo una scelta (proairesis), consiste nella presenza in questi ultimi di una qualche misura di razionalità che li determini.

La scelta ha luogo, dunque, quando la volontà si accompagna all’elemento razionale, e perciò è chiaramente diversa sia dal desiderio che dall’impulso.

Infatti la scelta non si trova anche negli animali irrazionali, ma impulso e desiderio sì. Chi non si sa dominare agisce per desiderio, ma non secondo una scelta, mentre chi si domina agisce per scelta, ma non per desiderio. E il desiderio si oppone alla scelta, ma non si oppongono desiderio e desiderio. E il desiderio riguarda il piacere e il dolore, mentre la scelta non riguarda né piacere né dolore. Ancor meno la scelta è impulso, infatti le cose compiute per impulso non sembrano affatto essere frutto di una scelta. (EN III 4, 1111b12-19)

Aristotele insiste in questo capitolo soprattutto nel distinguere la scelta da ciò con cui essa viene erroneamente identificata, come «desiderio, impulso, volere, o una qualche forma di opinione» (1111b10-12).

Si sottolinea, infatti, che la scelta non è da sovrapporsi alla volontà poiché, sebbene esse siano «della stessa specie» (1111b21),

l’ambito della volontà è più ampio di quello della scelta. Si può volere, infatti, qualcosa di impossibile, che non può essere realizzato (1111b22), oppure qualcosa che non dipende affatto da noi (1111b23), ma non si può scegliere nessuna di queste cose: la scelta, infatti, ha luogo solo in situazioni reali, e, in quanto qualcosa di volontario, essa dipende da noi.

Vediamo delinearsi qui, in relazione al volere, un’importante specificità della scelta: essa, oltre a quanto già detto, non si identifica con il volere per il fatto che il volere è relativo in particolar modo al fine, mentre la scelta ha a che vedere con cosa deve essere fatto per arrivare al fine.

Inoltre il volere è soprattutto relativo al fine, mentre la scelta è di ciò che porta al fine; per esempio: vogliamo essere sani, e scegliamo le cose per mezzo delle quali saremo sani; vogliamo essere felici, e questo possiamo dirlo, ma non è corretto dire: ‘Scegliamo di essere felici’; in generale infatti sembra che la scelta riguardi quello che dipende da noi. (EN III 4, 1111b26- 30)

È importante anche chiarire ciò che differenzia la scelta dall’opinione. Il punto principale di tale distinzione sta non tanto nell’ampiezza dell’ambito, quanto nella diversità del campo d’azione: la scelta verte, infatti, su ciò che è bene o male, mentre l’opinione sul vero o sul falso.

Infatti noi diventiamo persone buone o cattive attraverso lo scegliere i beni e i mali, e non per il fatto di avere certe opinioni. E scegliamo di cogliere, di sfuggire o di fare qualcosa di simile, invece abbiamo l’opinione che x è la tal cosa, o che è utile al tale, o come, ma non abbiamo affatto l’opinione di coglierla o sfuggirla. Inoltre la scelta è lodata per avere per oggetto ciò che si deve, piuttosto che per essere elaborata correttamente, mentre l’opinione è lodata per essere vera. (EN III 4, 1112a1-6)

Dopo aver chiarito ciò che la scelta non è, occorre indagare ora in cosa essa consista. Aristotele afferma, dunque, che la scelta è il risultato di un ragionamento, che seleziona qual è il modo di agire, e una prova di questa tesi sarebbe che «anche il nome (proairesis) sembra indicare quello che viene scelto invece di altre cose (pro heteron haireton)» (EN III 4, 1112a16-17).

Tale ragionamento si svolge attraverso una valutazione non solo del fine che si intende perseguire ma anche delle possibilità di raggiungerlo in base alle circostanze in cui ci si trova. Questa è la funzione della deliberazione (bouleusis), che costituisce un aspetto centrale dell’etica aristotelica, poiché sebbene la scelta sia orientata ai fini, essi non sono oggetto della deliberazione, la quale consiste in una valutazione di ciò che può portare ad essi, ossia di come si debba agire.

Deliberiamo non sui fini, ma su ciò che porta al fine. Infatti un medico non delibera se guarire, né un retore se persuadere, né un politico se fare buone leggi, né alcuno dei rimanenti sul fine, ma, posto il fine, indagano come lo si

indagano quali siano i più rapidi e belli, se invece si compie in un solo modo, come avverrà attraverso quello, e quello attraverso cosa, finché non giungono alla causa prossima, che è l’ultima nell’ordine della scoperta. ( EN III 5,

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 58-74)