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La virtù come hexis

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 102-115)

III. L’acquisizione della virtù morale

2. La virtù come hexis

Osserviamo per prima cosa che il modo in cui acquisiamo le virtù viene esaminato in continuità con la distinzione compiuta in I 13 (1103a3-10), all’inizio cioè del II libro, con un collegamento esplicito. Ora, il fatto che il modo in cui le virtù si acquisiscono sia affrontato a questo punto della trattazione è del tutto in linea con il fine pratico che Aristotele si pone nella sua ricerca, dimostrato dall’affermazione che «non stiamo indagando per sapere che cos’è la virtù, ma per diventare

buoni» (II 2, 1003b27-28). È chiaro, però, che nell’indagare tale acquisizione, soprattutto in relazione alle virtù morali, inevitabilmente si giunge a conclusioni che riguardano la natura stessa delle virtù. Il prevalere dell’impostazione pratica, come nota Natali, non mette in ombra la questione generale di ciò che è la virtù, anzi «è utile soprattutto perché ci permette di scoprire alcune caratteristiche della virtù etica, che ci mettono sulla giusta strada per individuarne più facilmente la natura»49.

Tornando al testo, notiamo che alla distinzione della virtù corrispondono modi di acquisizione diversi: le virtù intellettuali derivano dall’insegnamento e necessitano, perciò, di tempo ed esperienza (elemento che approfondiremo nel prossimo capitolo); mentre le virtù morali nascono in noi tramite l’abitudine alla condotta virtuosa, da cui traggono anche il nome.

Dato che la virtù è di due tipi, intellettuale e morale, la virtù intellettuale (dianoetike) in genere nasce e si sviluppa a partire dall’insegnamento, ragione per cui ha bisogno di esperienza (empeiria) e di tempo; la virtù morale (ethike) deriva dall’abitudine (ethos), da cui ha tratto anche il nome, con una piccola modificazione del termine ethos. (EN II 1, 1103a15-19)

Lasciando per il momento in sospeso la questione delle virtù intellettuali, che affronteremo meglio nei prossimi paragrafi,

49 C. Natali, Il metodo e il trattato. Saggio sull’Etica Nicomachea, Edizioni di Storia

intendiamo soffermarci ora, in linea del resto con il discorso aristotelico, sul problema dell’acquisizione delle virtù etiche. A sostegno del fatto che la virtù morale si consegue tramite l’abitudine, vengono presentati diversi argomenti.

Il primo è che tali virtù non possono essere in noi per natura: se, infatti, così non fosse non ci sarebbe bisogno di alcuna formazione morale. Ma viene d’altronde affermato che le virtù non sono neanche contro natura, perché fa effettivamente parte della natura umana possedere una certa predisposizione ad accogliere tali virtù.

A partire da ciò è anche chiaro che nessuna virtù morale nasce in noi per natura, dato che nessun ente naturale si abitua ad essere diverso: per esempio una pietra che per natura si muove verso il basso non prenderà l’abitudine di muoversi verso l’alto, neanche se qualcuno voglia abituarla lanciandola in alto migliaia di volte, né il fuoco prenderà l’abitudine di muoversi verso il basso, e nessun’altra cosa che è per natura in un certo modo potrà venire abituata a essere diversa. Quindi le virtù non si generano né per natura né contro natura, ma è nella nostra natura accoglierle, e sono portate a perfezione in noi per mezzo dell’abitudine. (EN II 1, 1103a20-26)

È anche vero, del resto, che se le virtù si generassero in noi per natura sarebbero come i sensi: «prima noi ne possediamo la capacità, e poi ne esercitiamo le attività […] ce ne serviamo poiché li possediamo, non li possediamo perché ce ne serviamo» (EN II 1, 1103a26-29), ma

non è affatto così. Le virtù morali, infatti, vengono acquisite tramite esercizio, attraverso una ripetizione di azioni virtuose.

Invece acquistiamo la virtù perché le abbiamo esercitate in precedenza, come avviene anche nel caso delle altre arti. Quello che si deve fare quando si è appreso, facendolo, lo impariamo: per esempio, costruendo si diviene costruttori e suonando la cetra, citaristi; e allo stesso modo compiendo atti giusti si diventa giusti, temperanti con atti temperanti, coraggiosi con atti coraggiosi. (1103a30-1103b1)

Tale processo di formazione è descritto da Natali come un «complesso processo di addestramento, nel quale il soggetto, dapprima sotto la guida di altri, e poi da solo, si abitua a compiere azioni belle, fino a […] farle quindi in modo del tutto pieno e consapevole»50.

Ora, tale carattere abituale della virtù fa sorgere una questione di non poca importanza, relativamente all’affermazione che «ogni virtù si genera e si distrugge a partire e per mezzo delle stesse cose» (EN II 1, 1103b7-8). Vi sono, cioè, due direzioni che l’abitudine può prendere, ovvero è possibile che si sviluppi sia l’abitudine ad agire correttamente, sia quella ad agire in modo scorretto, come mostra l’esempio dell’arte di suonare la cetra, a partire dall’esercizio della quale si possono formare sia buoni citaristi che cattivi.

E questo vale anche per i costruttori, e per tutti gli altri, infatti diverranno buoni costruttori a partire dal ben costruire, e cattivi dal costruire male. Se non fosse così, non si avrebbe bisogno per nulla di un maestro, ma tutti si genererebbero o buoni o cattivi. Di conseguenza, si ha la stessa cosa anche nel caso delle virtù, infatti è compiendo le azioni proprie delle transazioni che si hanno con le altre persone, che alcuni di noi diventano giusti e altri ingiusti, ed è agendo nei casi di pericolo, cioè abituandoci a provare paura o coraggio, che alcuni di noi diventano coraggiosi, altri vigliacchi. (EN II 1, 1103b10-17)

Risulta certamente più chiara ora l’esigenza fondamentale che una buona formazione etica, svolta attraverso «la pratica consuetudinaria delle azioni giuste»51, abbia inizio fin dalla giovane età. Affinché, infatti, si formi il carattere virtuoso occorre che i desideri e le passioni siano condizionati nella giusta direzione: «non è quindi una differenza da poco, se fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro, è importantissima, anzi, è tutto» (EN II 1, 1103b23-25).

Bisogna però riflettere sul fatto che se l’uomo impara ad essere virtuoso tramite l’abitudine a compiere ripetutamente azioni virtuose, ne consegue che all’inizio del proprio percorso formativo non sappia cosa sia la virtù.

È utile in questo senso far riferimento alle considerazioni di Myles Burnyeat su questo punto52, a parere del quale l’abitudine pratica attraverso cui si produce la virtù possiede evidentemente un potere cognitivo. Agli occhi di Aristotele, in altre parole, il ripetuto esercizio non è privo di componenti razionali, motivo per cui tramite tale addestramento il soggetto morale non solo impara a essere virtuoso, ma anche cosa ciò significhi.

In tal senso è da considerare un altro aspetto importante che Aristotele sottolinea nel II libro, che è il rapporto fra una tale formazione e il piacere: la virtù morale, infatti, è strettamente connessa alle esperienze del piacere e del dolore, esperienze che influenzano le azioni e soprattutto le passioni, e a queste conseguono.

Se il piacere e il dolore sono in linea con la virtù, il bene sarà identificato e sarà percepito come piacevole, qualora invece non vi sia tale corrispondenza la ricerca del piacere nei ‘mali’ porta al vizio. Può succedere ad esempio, che un individuo non educato alla virtù compia azioni turpi in vista di un certo piacere scorretto, e dall’altra si trovi a evitare di compierne di buone per il timore di un certo dolore, che invece un uomo virtuoso non rifuggirebbe (EN II 2, 1104b9-11).

L’importanza, perciò, che il piacere e il dolore rivestono nella formazione del carattere, fa sì che anzitutto queste esperienze debbano

52 M. F. Burnyeat, Aristotle on Learning to Be Good, in Amélie Oksenberg Rorty (a

cura di), Essays on Aristotle’s Ethics, University of California press, Los Angeles, 1980, pp 69-92.

essere indirizzate e guidate da una formazione precoce attraverso l’abitudine:

Per questo si deve essere abituati in un certo modo fin da giovani, come dice Platone, in modo da godere e rammaricarsi per le cose cui è doveroso provare questi sentimenti, infatti l’educazione perfetta è di questo tipo (EN II 2, 1104b11-13).

La tendenza a cercare il piacere e rifuggire il dolore è, del resto, innata nell’uomo, per cui la formazione alla virtù non si deve porre in opposizione al piacere in sé ma svilupparne la corretta identificazione, affinché i desideri risultino corretti e volti al bene. Come osserva anche Natali, «la persona umana equilibrata deve pervenire ad uno sviluppo corretto della sua capacità di provare emozioni e passioni»53.

Inoltre, fin dall’infanzia il piacere si genera e si sviluppa insieme a tutti noi: per questo è difficile disfarsi di questa passione, che è strettamente mescolata con la vita. E anche le azioni, chi più chi meno, le giudichiamo con il metro del piacere e del dolore. Per questo è necessario che tutta la nostra trattazione riguardi tali cose dato che non è di poco conto per le nostre azioni il fatto di provare piacere e dolore in modo giusto ed errato. (EN II 2, 1105a1- 7)

Il ruolo dell’abitudine nell’acquisizione della virtù viene discusso nel capitolo 3 del II libro. In questa sede Aristotele,

rispondendo a un’obiezione di tipo sofistico che nega tale ruolo, mette in evidenza importanti caratteristiche dell’azione virtuosa, fondamentali per comprendere poi la relazione tra virtù morale e saggezza.

Qualcuno però potrebbe domandarsi in che senso diciamo che si deve diventare giusti compiendo le azioni giuste e temperanti compiendo quelle temperanti: infatti se la gente compie le azioni giuste e quelle temperanti, è già giusta e temperante, proprio come è già in possesso della grammatica e delle musica, se compie atti grammaticalmente e musicalmente corretti. ( EN II 3, 1105a17-22)

La replica aristotelica divide anzitutto la questione in due parti: la prima riguarda l’insegnabilità delle arti, la seconda riguarda quella della virtù. A proposito delle arti, l’argomento è che produrre correttamente non è determinato necessariamente dal possesso e dalla conoscenza di tali arti, ma può essere accidentale.

O forse le cose non stanno così nemmeno nel caso delle arti? Infatti può accadere che si compia qualche atto grammaticalmente corretto per caso, oppure perché qualcuno ci ha guidato. Allora uno sarà grammatico solo quando compie un atto grammaticale in modo grammaticale: cioè, lo fa sulla base dell’arte grammatica che porta in sé. (EN II 3, 1105a22-25)

In secondo luogo Aristotele osserva che vi è una differenza tra lo statuto ontologico fra la virtù e l’arte. Mentre «i prodotti dell’arte trovano il loro bene in sé, e quindi basta che si generino dotati di una

certa qualità» (1105a26-28), le azioni, invece, non trovano la propria correttezza esclusivamente nella loro qualità: per rendere l’azione virtuosa occorre che siano presenti tre condizioni.

Prima di tutto se [colui che agisce] agisce consapevolmente, poi se ha compiuto una scelta e l’atto virtuoso è stato scelto per sé stesso, in terzo luogo se agisce con una disposizione salda e insieme immutabile. Queste condizioni non vengono aggiunte nel caso del possesso delle altre arti, tranne il sapere; ma riguardo alle virtù il sapere conta poco o nulla, mentre le altre condizioni hanno non poca influenza, anzi, possono tutto; e sono proprio esse, quelle che si sviluppano a partire dal compiere spesso atti giusti e temperanti. (EN II 3, 1105a31-1105b5)

La prima condizione dell’azione virtuosa è, dunque, che chi agisce sappia ciò che fa. Colui che compie un’azione che si definisce virtuosa, ne deve conoscere in prima persona sia il fine, sia le circostanze: non agisce, cioè, sulla scorta di disposizioni esterne, come le leggi della città o le istruzioni di un maestro.

Il secondo aspetto riguarda la scelta che, come abbiamo osservato precedentemente, è ciò che «permette di giudicare i caratteri ancora più delle azioni»54, in quanto mette in luce le intenzioni dell’agente insieme al suo modo di deliberare. Aristotele sottolinea inoltre che l’azione virtuosa deve essere scelta per se stessa, ovvero non

54 Cfr. EN III 4, 1111b5-6. della descrizione della scelta e delle sue caratteristiche si

ci devono essere altri fini ad essa. Per comprendere appieno tali aspetti occorrerà però aspettare l’esame della saggezza sviluppato all’interno del VI libro, che permetterà di ripensare in modo completo alle condizioni dell’azione virtuosa55.

L’ultima condizione che determina l’azione virtuosa è il possesso dell’hexis, ovvero di una disposizione salda e immutabile. Tale caratteristica viene enucleata attraverso l’esame di ciò che si genera nell’anima: «Di seguito bisogna indagare cosa sia la virtù. Dato che tre sono le cose che si generano nell’anima, passioni (pathe), capacità (dynameis), stati abituali (hexeis), la virtù verrà a essere una di queste tre cose» (EN II 4, 1105b19-21).

Per spiegare cosa siano le passioni vengono fatti gli esempi dell’ira, la paura, la gioia o la pietà: esse sono, dunque, i modi di reagire dell’anima alle percezioni esterne, ai quali seguono piacere e dolore.

Sono invece capacità le tendenze naturali «in base alle quali siamo capaci di provare quelle passioni, per esempio ciò in base a cui siamo in grado di adirarci, addolorarci o avere pietà» (1105b23-25).

Per quanto riguarda gli stati abituali, essi sono descritti come «quelle cose in base alle quali ci atteggiamo bene o male riguardo alle passioni» (1105b25-26). L’esempio a cui in questo caso si fa riferimento è l’ira: l’atteggiamento scorretto consiste nell’adirarsi

troppo violentemente e spesso, o in modo troppo pacato e raro; mentre quello corretto è dato dal giusto mezzo.

Per determinare quale tra questi tre generi sia quello della virtù viene svolta una dimostrazione per esclusione. La prima ipotesi scartata è che la virtù sia da considerarsi una passione: ciò è dimostrato con evidenza dal fatto che, mentre le virtù sono oggetto di lode e biasimo, delle passioni non si giudica il valore.

Ora, né la virtù né i vizi sono passioni, perché non siamo detti eccellenti e ignobili secondo le passioni, ma sulla base delle virtù e dei vizi, e perché non veniamo lodati né biasimati secondo le nostre passioni (infatti non si loda chi ha paura o si adira, né si biasima colui che semplicemente si adira, ma si biasima chi lo fa in un certo modo), ma siamo lodati e biasimati sulla base delle virtù e dei vizi. (EN II 4, 1105b29-1106a1)

Le passioni, inoltre, non sono scelte, mentre una delle caratteristiche della virtù, come abbiamo visto, è proprio la presenza di una scelta.

Successivamente Aristotele dimostra che la virtù non è nemmeno una capacità: ciò risulta chiaro dal fatto che le capacità sono innate, ossia appartengono all’uomo per natura; le virtù al contrario devono essere acquisite, sebbene sia naturale la predisposizione ad accoglierle. La conclusione è che la virtù è uno stato abituale (hexis).

L’hexis, definita come una salda e immutabile disposizione virtuosa, è descritta da Natali come una condizione in cui l’uomo si

trova «a provare passioni sempre uguali per oggetti simili, e, di conseguenza, ad agire in un modo coerente»56. Essa è la buona disposizione che l’uomo acquisisce tramite l’abitudine a compiere ripetutamente azioni virtuose, e dal momento che, una volta acquisito un determinato stato abituale, il carattere non è più soggetto a mutamento, tale disposizione si può anche definire come una sorta di ‘seconda natura’.

A partire da ciò risulta ancora più importante che vi sia una formazione etica precoce, in assenza della quale l’uomo potrebbe sviluppare una hexis volta al vizio, anch’essa salda e immutabile: «come non è possibile per chi ha lasciato cadere una pietra riprenderla di nuovo, eppure dipendeva da lui raccoglierla e scagliarla» (EN III 7, 1114a17-19).

Ora, una disposizione buona e corretta si può dire acquisita quando il soggetto ha imparato a tenersi stabilmente lontano dagli eccessi e dai difetti, il che equivale a dire che per ottenere una disposizione virtuosa occorre seguire ripetutamente la regola del giusto mezzo.

Per prima cosa, allora, si deve considerare quanto segue: che per natura le realtà di quel tipo sono distrutte dell’eccesso e dal difetto (infatti ci si deve servire di ciò che è evidente come testimonianza per ciò che è oscuro); […] Infatti chi fugge ogni cosa, ne ha paura, e non sopporta niente, diviene

vigliacco, chi in generale non teme nulla e affronta ogni cosa diviene temerario, e allo stesso modo chi indulge a ogni piacere e non rinuncia a niente, diviene intemperante, chi invece li sfugge tutti, come la gente selvatica, diviene in qualche modo insensibile. Quindi la temperanza e il coraggio sono distrutti dall’eccesso e dal difetto, ma preservati dalla medietà. (EN II 2, 1104a10-26)

Del resto «la virtù verrà a essere ciò che tende (stochastike) al giusto mezzo» (EN II 5, 1106b15-16), come abbiamo già osservato precedentemente, quando abbiamo esaminato come per essere virtuosi occorre preservare la medietà, allontanarsi cioè dall’eccesso e dal difetto, nelle passioni così come nelle azioni, mantenendosi nel miglior punto medio possibile57.

L’argomentazione conduce ad una definizione conclusiva di arete in EN II 6, che riprende e unifica tutte le principali caratteristiche discusse precedentemente.

Quindi la virtù è uno stato abituale (hexis) che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio, medietà tra due mali, l’uno secondo l’eccesso e l’altro secondo il difetto. (EN II 6, 1106b36-1107a3)

Natali, a proposito di tale definizione, afferma che la virtù «consiste in un certo carattere dell’agente, derivante da un appropriato

processo educativo, culminante in uno stato di armonia interiore […]. L’azione eccellente, infatti, è tale non solo per l’oggetto, il cosa si fa, ma anche per il modo in cui si agisce»58.

Vedremo meglio ora come l’equilibrio tra ragione e passioni sia raggiunto in prima istanza grazie alla saggezza: l’uomo saggio, infatti, agisce senza conflitti interni.

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 102-115)