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I caratteri dell’intervento civile nonviolento secondo Christine Schweitzer

R EFERENZE BIBLIOGRAFICHE AL CAPITOLO

4) il lavoro di advocacy 44 a livello politico e istituzionale.

2.7 Contributi teorici e progettuali del peacekeeping delle ONG

2.7.3 I caratteri dell’intervento civile nonviolento secondo Christine Schweitzer

Oltre alla teorizzazione esposta nello studio di fattibilità delle NVPF compiuto di recente, Christine Schweitzer ha proposto un’ulteriore teorizzazione dell’intervento civile nonviolento, riferendosi ad esso con l’espressione peacekeeping civile e definendolo come segue: la prevenzione,

da parte di personale civile non armato dispiegato sul campo, della violenza diretta attraverso il controllo e l’influenzamento del comportamento dei potenziali perpetratori (Schweizer 2010, 9 in

Oberloser 2008-2009, 213).

Questo tipo di azione è di solito condotto da soggetti terzi rispetto al conflitto, ma la definizione non esclude la possibilità, realizzatasi ad esempio nel caso dello Shanti Sena, che delle organizzazioni locali si attivino per svolgere delle funzioni analoghe. Per la Schweitzer il

peacekeeping civile deve rispettare il criterio dell’imparzialità rispetto all’oggetto del conflitto e

agli obiettivi perseguiti dalle parti. Tuttavia la studiosa prende atto della presenza di gruppi che consapevolmente si identificano con un solo contendente, in quanto ritengono che ci sia una sproporzione eccessiva nella distribuzione del potere tra le parti in conflitto (La Schweitzer porta come esempio di questo atteggiamento l’operato in Palestina dell’lnternational Solidarity

Movement ).

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• Le missioni governative o intergovernative di verifica e monitoraggio composte da civili non armati (es. Kosovo Verification Mission);

• I progetti condotti dai peace teams (es. PBI);

• Il peacekeeping civile su grande scala condotto da ONG (es. Nonviolent Peaceforce) • La protezione umanitaria da parte di grandi agenzie umanitarie e di sviluppo.

La Schweitzer conduce poi un’analisi più approfondita sul lavoro delle ONG che si occupano di peacekeeping civile su grande scala e di accompagnamento protettivo. Rispetto al campo d’azione delle ONG, l’autrice indica non solo funzione di pressione sulle strutture statali o intergovernative ma anche una capacità di protezione diretta delle popolazioni civili (Schweitzer, 2010, pag. 55 in Ibidem).

I compiti dell’intervento vengono svolti in più fasi. In ciascuna delle tre fasi l’operatività assume forme diverse. Nella tabella che segue se ne offre una visione complessiva:

Tabella 6: Compiti del peacekeeping civile nelle fasi di prevenzione, reazione, ricostruzione (Oberosler 2008-2009, 214, rielaborazione dati Schweitzer, 2001, 2008, 2010 )

La Schweitzer (2010, 12) è molto scettica sulla capacità del peacekeeping civile di prevenire lo scoppio di una guerra attraverso l’interposizione fisica tra le parti. Le azioni di questo tipo che lei ritiene siano state fallimentari sono: le proposte di costituzione di Eserciti di Pace, e le marce della pace nelle zone di guerra (in particolare quella di Mir Sada) 68

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Questo compito sembra essere dunque demandato al peacekeeping militare. L’autrice auspica tuttavia che l’ONU si serva delle ONG di peacekeeping civile nei contesti bellici, utilizzandoli come partner implementatori (Schweitzer, 2010, pag. 63). Esse dovrebbero essere privilegiate rispetto all’invio di forze militari nelle fasi di prevenzione del conflitto e di ricostruzione proprio perché la loro presenza sarebbe percepita dalle strutture di potere locali come meno invasiva e minacciosa rispetto a quella militare (Schweitzer, 2010, pag. 11).

Il peacekeeping civile delle ONG può contare sulle seguenti qualità (Schweitzer, 2008, pagg. 159, 161):

• Il legame di fiducia costruito con la comunità locale che crea consenso presenza dei

peacekeepers civili. Il fatto di non portare armi aiuta a livello simbolico la costruzione della

relazione;

• Il ruolo deterrente della presenza civile internazionale costringe le parti in lotta a tenere conto della propria immagine a livello internazionale.

Sul versante dei punti di debolezza il peacekeeping civile incontra due limiti strutturali:

• Lo Stato in cui si svolge la missione deve accettare la presenza civile internazionale permettendo l’ingresso del team sul suo territorio;

• Le parti in lotta devono essere interessate a mantenere una rispettabilità internazionale (la deterrenza non funziona in presenza di profittatori di guerra, i cosiddetti war spoilers). 2.7.4 lʼintervento civile di pace secondo Alberto L’Abate

Lo schema e la teorizzazione di LʼAbate sono ripresi nel recente testo “Per un futuro senza guerre” (2008). Lʼautore presenta una tabella in cui vengono incrociate due variabili: i livelli del conflitto (su piccola scala e su grande scala) e il tipo di intervento (interno o esterno).

Tab. Il tipo di interventi (interni ed esterni) e quelli da privilegiare (L´Abate 2008, 115 )

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spesso non viene nemmeno chiamato di interposizione, che comporta comunque lʼintromissione di un terzo in un conflitto tra due contendenti, per aiutarli a cercare una soluzione nonviolenta dei conflitti” (L’Abate 2008, 116). I campi di applicazione di questo intervento individuati da L’Abate sono la psicoterapia di famiglia, la mediazione familiare, la conciliazione dei giudici di pace, lʼarbitrato.

Per intervento esterno in conflitti a piccola scala l’autore intende “unʼinterposizione tra gli individui oppressi e gli Stati oppressori” volta a “difendere i diritti umani dei singoli nei confronti degli Stati che non li rispettano” (Ibidem). Come esempi vengono riportate le attività di PBI, quelle di Amnesty International e le azioni a supporto dellʼaiuto umanitario svolte da ONG come il Gulf

Peace Team o da gruppi nonviolenti durante Mir Sada.

Lʼintervento interno in conflitti a grande scala è collocato storicamente nelle esperienze di interposizione non armata da parte di ONG e movimenti pacifisti e nonviolenti locali. LʼAbate ricorda in particolare le interposizioni spontanee avvenute durante i conflitti in Algeria nel 1961, in Cina nel 1968 e nel 1988, nelle Filippine (1986), a Sarajevo (novembre 1992).

Lʼintervento esterno in conflitti violenti è identificato da LʼAbate come lʼazione in un situazione di conflitto ad alta intensità da parte di gruppi esterni al contesto e preparati alle tecniche dell’azione nonviolenta. Qui vengono ricordate le varie azioni condotte da Gulf Peace Team, Volontari per la Pace in Medio Oriente, Witness for Peace in Guatemala, i Beati i Costruttori di Pace con la prima marcia a Sarajevo (LʼAbate, 2008, 120-1).

Per L’abate la sfida del movimento nonviolento e pacifista sta nel collegamento tra gli ultimi due interventi, cioè tra quello interno in conflitti a grande scala e quello esterno in conflitti violenti. LʼAbate infatti conclude che per quanto lʼinterposizione nonviolenta compiuta dai gruppi locali è quella più efficace, anche le azioni di gruppi estranei, ma ben preparati alla nonviolenza è di grande aiuto nella ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti. L’obbiettivo è dunque quello di unire lʼintervento esterno con lʼintervento interno che, a livello organizzativo significa un maggiore coordinamento tra i gruppi locali con quelli esterni (LʼAbate, 2008, 120-1).

LʼAbate sostiene la necessità di partire con almeno 1000-2000 persone in un progetto europeo (2008a, pag. 60) nonostante questo numero sia molto inferiore rispetto a quello dei partecipanti alle interposizioni nonviolente spontanee; e poi insiste sulla necessità che le istituzioni raggiungano questa soglia con i loro finanziamenti; ma, in questo non è in linea con quanto sostiene Weber, infatti pensa che anche un piccolo gruppo possa portare contributi utili alla pacificazione; per questo lui ha promosso e costituito personalmente Ambasciate di Pace con poche persone, rischiando di fare azioni solo simboliche. Va notato come lʼespressione a grande scala venga riferita al conflitto e non al gruppo che interviene. Infatti LʼAbate, riferendosi ai gruppi nonviolenti

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e ONG locali, sottolinea che “anche la presenza di persone significativamente legate ai gruppi

combattenti può non necessitare grandi numeri per essere efficace” (LʼAbate, 2008, 121).

Infine la prospettiva di collaborazione con altre istituzioni (ONU o organismi sopranazionali) è condivisa da LʼAbate ma solo in parte, in quanto questʼultimo ritiene che gli sforzi di convincimento delle istituzioni (lʼONU in primis) non potranno avere risultati nel breve periodo, almeno fintanto che “non avremo delle Nazioni Unite più democratiche” (LʼAbate, 2008, pag. 120).

Sul problema se il personale che partecipa a questi interventi debba essere solo professionista o solo volontario, egli sostiene che per impedire lʼassorbimento nella rigidità delle istituzioni di questo tipo di intervento, occorre sempre una componente volontaria (LʼAbate, 2008, pagg. 59-62). Unʼultima nota, riguarda la prevenzione dei conflitti. Se i gruppi locali e internazionali fossero più collegati, ci sarebbe anche maggiore spazio per agire in funzione di una prevenzione del conflitto, attività che LʼAbate considera molto più facile e molto più fruttuosa dellʼintervento a conflitto già iniziato (LʼAbate, 2008, pag. 122).