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Sono trascorsi ormai quasi settant’anni dalla nascita delle Nazioni Unite e del suo

peacekeeping. Per quanto sul piano pratico le operazioni di pace dell’ ONU non hanno saputo

dimostrare la loro efficacia in ogni circostanza, mostrando in più casi limiti e debolezze, è pur vero che esse hanno fatto per così dire “scuola”. Con la pratica del PK, l’ONU ha potuto introdurre nel sistema internazionale una prassi basata sul concetto di responsabilità collettiva, che nel sistema internazionale precedente non era possibile concepire.

Bisogna quindi riconoscere all’ONU almeno due meriti: essersi conquistato un ruolo in primo piano come attore di pace nel mondo, da cui è dipeso lo sviluppo delle pratiche del PK che oggi conosciamo; è quello di rappresentare il primo governo mondiale della storia e punto di partenza di un processo solidaristico e cosmopolitico.

L’intervento nonviolento dei civili nei conflitti ha radici antiche che precedono anche quelle del’intervento di pace dell’ONU. È passato infatti più di un secolo da quando Gandhi, intervenendo senza armi in un conflitto, cominciò a concepire lʼidea di un Esercito di Pace. Il suo progetto si realizzò in India solo dopo la sua morte ma ispirò una serie di esperimenti in questo senso a livello Internazionale.

In conclusione ho voluto considerare i due tipi di intervento, quello dell’ ONU e quello civile, dal punto di vista pratico e teorico.

L’intervento istituzionale dell’ONU nella pratica.

Il mutamento subito dal PK dalla sua nascita è notevole, si è passati dalle operazioni tradizionali d’ interposizione a garanzia dei trattati di pace, alle missioni multidimensionali di ricostruzione nazionale di ultima generazione.

La complessità delle missioni multidimensionali ha richiesto un approccio diverso del quale emergono due fattori di grande interesse:

1) Il progressivo spostamento del PK dal modello westfaliano a quello post-westfaliano. Questo significa un PK più intrusivo negli affari interni di uno Stato grazie all’espansione del concetto di Responsibility To Protect e la riduzione del principio di sovranità Statale. 2) L’espansione della componente civile dovuta alla molteplicità di nuove mansioni di tipo non

militare (gestione dell’emergenza, polizia, funzionari, osservatori).

Per quanto controverso, il concetto di Responsibility to Protect ha saputo dare un nuovo slancio all’azione dell’ONU permettendole in questo modo di operare nei conflitti interni e negli

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Stati falliti o al collasso. Tuttavia dopo gli anni neri per il PK nei primi anni ’90, le missioni multidimensionali di ultima generazione hanno subito la tendenza ad essere più robuste militarmente.

L’espansione della componente civile è importante perché controbilancia la componente militare in numerose mansioni rendendo la presenza della missione meno “ingombrante” alla popolazione locale. Per contro, l’interazione tra le ONG e le strutture militari del PK è piuttosto complicata. Le ONG non vogliono rischiare la perdita della propria indipendenza e correre il rischio di essere strumentali alle politiche di “civilizzazione” dell’intervento militare umanitario (per renderlo più digeribile all’opinione pubblica).

In generale le operazioni dell´ONU sono in grado di fornire il quadro istituzionale più appropriato, pare abbiano degli effetti migliori rispetto agli interventi degli Stati nel prevenire i conflitti a bassa intensità, nel restauro delle istituzioni e nei processi di democratizzazione. Il PK dell’ONU risulta invece debole nei conflitti in cui sono coinvolti indirettamente gli Stati più forti, che possono bloccarne l’azione.

Quello che ne deriva per l’azione di pace delle ONG, è che da una parte esse hanno uno spazio d’azione maggiore nelle missioni multidimensionali, dall’altra soffrono una carenza di democraticità nelle operazioni ONU e una diffidenza verso le strutture militari. Secondo i quattro teorici dell’intervento civile di pace che abbiamo messo a confronto, sostengono seppur in modo dfferente che un’istituzionalizzazione dell’intervento civile nell’ambito dell’ONU sia pertanto auspicabile. L’Abate e Drago, fanno notare che questa collaborazione non possa prescindere da una riforma dell’ONU che vada nella direzione dei popoli e non solo degli Stati.

Già gli UN Volunteers sono stati stimolati dalle attività degli organismi nonviolenti, come le PBI e la Nonviolent Peaceforce, a compiere attività analoghe (ad es. lʼaccompagnamento nonviolento) in collaborazione con gli organismi di volontariato. Eʼ un piccolo passo verso quella congiunzione tra attività dellʼONU e del Movimento per la Pace che, secondo Drago e Schweitzer, costituisce lʼobiettivo più qualificante che il Movimento per la Pace ha in vista.

Rispetto alla teoria del PK dell’ONU.

Gli studi teorici in materia di operazioni di pace hanno seguito lo stesso andamento delle operazioni nel tempo. Alla proliferazione delle operazioni del ‘90 è seguita un’esplosione degli studi in materia. L’avvento delle operazioni di pace di nuova generazione ha dato stimolo alla letteratura su diversi filoni (peacebuilding, processi di transizione politica, governante, ecc), ma soprattutto ha il dibattito sull’approccio teorico allo studio della materia.

L’approccio teorico emergente di tipo “critico”, ha permesso a gli studi sul PK di progredire sul piano teorico, aprendo così una strada del tutto nuova. Quest’approccio è stato stimolato in parte

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dalla carenza teorica lamentata da diversi studiosi e dalla inadeguatezza delle teorie del tipo

problem-solving nel fornire una cornice teorica appropriata.

Le teorie “critiche” invece dimostrano una maggiore comprensione del sistema internazionale e dell´ordine prevalente delle cose, si sforzano quindi di riflettere sugli interessi che questo ordine persegue.

In definitiva quest’approccio è di grande importanza anche per il gl’ interventi civili di pace che hanno la caratteristica di basare la propria azione sulla critica profonda delle strutture politico- economiche che generano la violenza e la guerra.

Le qualità che condividono l’approccio “critico” e i tratti che le caratteristiche del’intervento civile, rispecchiano le tre questioni fondamentali esposte da Bellamy (cfr. p. 67):

- Il proposito: entrambe abbracciano il concetto di sicurezza umana che permette un approccio normativo adeguato

- La natura della società mondiale: anche la filosofia dell’intervento civile di pace abbraccia la visione che il mondo sociale e i problemi verso i quali gli interventi di pace sono indirizzati, vengono costruiti dalle volontà politiche degli attori principali.

- Relazione teoria/pratica: gli interventi civili di pace legano le proprie convinzioni teoriche di base all’azione pratica (questo è uno dei motivi che le spinge a rifiutare la collaborazione con i militari).

La prospettiva teorica dell’intervento civile di pace

Ad oggi, dopo 100 anni dall’idea di Gandhi, dopo alcuni decenni di esperienze collettive, che hanno rappresentato grandi sforzi del Movimento per la Pace mondiale, non è prevedibile una convergenza teorica su questo tipo di intervento.

Lo studio di fattibilità delle NVPF, che ne ha diretto l’azione sul campo, dimostra la scelta alla base dell’intervento, di voler adottare una nonviolenza pragmatica, che si allontana dall’eredità gandhiana. In questo senso la NVPF ha creato uno strappo con il passato, ponendo di fatto l’intervento nonviolento in una posizione che non esclude a priori una possibile collaborazione con il CIMIC , quindi la possibilità di un inglobamento dell’intervento civile nelle operazioni militari.

Inoltre manca ancora una esperienza significativa (in termini di numero di partecipanti), che sia stata programmata e monitorata nella sua progettazione, nel suo sviluppo sul campo e nei suoi risultati. Oltre allo studio di fattibilità, di tipo professionale, della Nonviolent Peaceforce, non è seguito uno studio professionale sulle modalità di azione e sui risultati ottenuti e ottenibili da questo tipo di interventi.

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Il problema del riconoscimento rappresenta la spina sul fianco del Movimento per la Pace. Al giorno d’oggi gl’interventi di pace necessitano di un approccio che non si colloca all´interno di uno stato, società o centro di potere in particolare, ma piuttosto che promuova mezzi costruttivi per gestire i conflitti sul piano locale e globale nell´interesse di tutta l´umanità.

Se il diritto internazionale fosse più robusto delle attuali dichiarazioni di principio e se l’ONU fosse più sviluppato e riformato, le loro autorità politiche potrebbero dare un forte sostegno a questo tipo di intervento e renderlo molto più incisivo. Quindi in questo senso gl’ interventi civili di pace possono anticipare la possibile costituzione di una forza di PK civile, composta da operatori indipendenti delle ONG, che agisca svincolata dal sistema di controllo stato-centrico così da rendere più democratiche le operazioni di pace dell’ONU.

Oltre al problema del riconoscimento le ONG devono compiere quel salto professionale in grado di avvicinarle ai livello degli organismi come l’ONU, l’OSCE o la UE. Il limite delle ONG è purtroppo quello legato alle risorse, che molto spesso risultano insufficienti per un’adeguata preparazione. Un altro punto debole delle ONG è il poco coordinamento e un basso livello di inclusione nei partenariati regionali.

Dal 1957, anno della fondazione delle Shanti Sena, gli interventi civili di pace hanno compiuto un percorso comunque significativo se si pensa che il mondo è stato congelato tra due blocchi contrapposti e indebolito dalla paura nucleare sino al 1989. Realtà come World Peace

Brigade, Witness for Peace, PBI e la neonata Nonviolence Peace Force (solo per citarne alcune)

hanno saputo interpretare praticamente i principi del pacifismo e della nonviolenza creando gruppi di operatori e volontari impegnati in interventi di pace in ogni parte del mondo. D'altronde anche realtà più piccole, unendosi hanno dimostrato la capacità di operare nei conflitti. Per questo si ricordino le grandi esperienze fatte nei Balcani dal coordinamento internazionale del Movimento per la Pace (ambasciate di pace, marce simboliche, negoziati informali, assistenza umanitaria) oppure le iniziative collettive in Palestina (le varie azioni di interposizione, Gaza freedom march).

Sul piano politico la determinazione a non perdere l’autonomia e l’indipendenza è sempre molto forte da parte delle ONG perché ciò significa non rischiare di essere assorbite dalle logiche politiche dominanti. Perciò il Movimento per la Pace deve essere in grado di porsi di fronte alla comunità internazionale come un attore di pace valido e politicamente non schierato e non solamente come attività strumentale alternativa o parallela a quella di altri attori di pace. Per fare questo, esse devono dimostrare di essere sufficientemente mature e preparate a cogliere la sfida della pace, per cui è necessario un maggiore sviluppo degli studi teorici in grado di diriggere al meglio l’approccio pratico sul campo.

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