CAPITOLO PRIMO
1.8 Misure della efficacia del peacekeeping ONU
Nella letteratura il dibattito sulle misure di valutazione delle Operazioni di Peacekeeping ha avuto una prima spinta durante gli anni ´90 con significative pubblicazioni sul tema, compiute da autori come Diehl (1993), Johansen (1994) Fetherstonte. Ad oggi il dibattito è ancora in corso e non si trova ancora accordo tra le posizioni degli analisti. Daniel Drukman e Paul Stern (1997, 151-65) hanno curato un articolo nel quale interrogano questi stessi autori (Diehl, Fetherston, Johansen, Durch e Ratner) su una serie di quesiti riguardanti la concettualizzazione, gli indicatori e i metodi di ricerca della valutazione delle operazioni di Peacekeeping. Il dibattito sviluppato attorno a tali quesiti mette in evidenza le diverse posizioni degli autori riguardo criteri da adottare, metodologia ed epistemologia.36
La sfida analitica maggiore per chi studia l´effettività del Peacekeeping è quella di mettere a punto una base su cui valutare il successo. Sia l´approccio qualitativo che quello quantitativo si devono confrontare con la domanda: “successo comparato a cosa”?
Inoltre si evidenzia il fatto che attori differenti hanno differenti criteri di valutazione del successo (ad es. il personale militare, i diplomatici e le ONG). Benché le differenze di valutazione siano sia concettuali che metodologiche e gli esperti siano in disaccordo sull´importanza dello sviluppo degli indicatori piuttosto che sulla riformulazione del concetto di Peacekeeping, la maggior parte di loro sostiene l´importanza dello sviluppo dello studio sia concettuale che analitico. In conclusione, sebbene solo alcuni di questi autori siano favorevoli a sviluppare criteri comparativi universali per tutte le Operazioni, tutti concordano sul fatto che esistono diversi criteri di successo che dipendono dagli obbiettivi dell´operazione. Il problema è quindi quello di comparare tutte le operazioni tenendo conto delle specificità uniche ad ogni operazione. Ciò pone la domanda di quanto sia possibile sviluppare una teoria generale del Peacekeeping senza tenere conto dei fattori specifici che rendono ogni missione unica.
(Come già menzionato nel paragrafo 1.5 pp. 20-1) Un primo lavoro di analisi quantitativa sull´effetto delle operazioni di PK sulla tenuta della pace dopo il conflitto è di Michael Doyle e Nicholas Sambanis (2000). Successivamente a questo primo lavoro, Doyle e Sambanis (2006a) hanno condotto uno studio altamente comprensivo sull´effetto delle OPK nella durata della pace dopo la guerra civile. Combinando lo studio di casi e le analisi statistiche su 119 conflitti interni tra il 1945 e il 1999 (dove c´è stato l´intervento l´Onu), gli autori investigano gli effetti dei quattro tipi di Operazione di pace (basate sul mandato) sulle misure di successo del Peace-building. I quattro
36 L´articolo riporta le risposte degli autori parte da un approccio valutativo maggiormente positivista (Diehl), e si
muove verso la posizione contrastante, quella costruttivista (Fetherston), seguendo poi le posizioni che si pongono come ponte tra questi due approcci (Johansen).
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tipi di operazione sono: missioni osservative, missioni tradizionali, missioni multidimensionali, missioni di peace-enforcement.37
L´affermazione centrale per gli autori è che il successo o l´insuccesso degli sforzi per superare le guerre civili e restaurare una “pace sostenibile” sono influenzati da tre fattori chiave che caratterizzano l´ambiente post conflitto. I tre fattori sono:
1. Il livello di ostilità delle parti (misurata in termini di costi umani – morti e sfollati – del tipo di guerra, del numero delle fazioni);
2. La misura delle rimanenti capacità locali dopo la guerra (misurata per esempio nel GDP o nei consumi energetici);
3. L´ammontare dell´assistenza internazionale (misurata in termini di assistenza economica o dal tipo di mandato e numero di truppe impegnate di cui l´operazione Onu dispone). Assieme, questi tre fattori costituiscono la logica interdipendente del “triangolo del
peacebuilding”: più il livello di ostilità è alto, maggiore è la distruzione delle capacità locali e di
conseguenza maggiore è la necessità di assistenza internazionale (Doyle e Sambanis 2006a, 4).
Figura 1: Il Triangolo del Peacebuilding (Reed Erin 2008, paper 22, p. 4)
Tab…: Indici di Doyle e Sambanis (2006)
37 I quattro tipi di mandato a cui fanno riferimento Doyle e Sambanis si basano sulla classificazione concettuale dei
ruoli dell´Onu di Boutros Boutros-Ghali (1992) riadattata; i datagli sulla classificazione dei mandati è discussa in Doyle and Sambanis (2006a, p. 11-18).
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A conclusione dello studio gli autori riscontrano un positivo e significativo effetto del PK nel restaurare la Pace misurato nei primi due anni successivi alla fine del conflitto. In particolare Doyle e Sambanis (2006a, 111) sostengono che le operazioni di Peacekeeping tradizionali, caratterizzate da truppe poco armate e un mandato debole non hanno grande effetto sulla durata della pace e che possono addirittura avere effetti negativi. Per contro le operazioni multidimensionale e di peacenforcement sono quelle che sostanzialmente hanno maggiori effetti positivi. In generale le operazioni dell´ONU sembrano avere gli effetti migliori nel prevenire i conflitti a bassa intensità, nel restauro delle istituzioni e nella democratizzazione (Doyle e Sambanis 2006a, 110).
Conclusioni simili sono state sostenute anche da studi successivi condotti da Fortna (2004, 2008) dove si sostiene che il rischio del ripetersi dei combattimenti diminuisce “da 75 a 85% quando è presente una missione di PK” (Fortna 2008, 125 in ). Tuttavia è interessante notare che Fortna (2004, 238) trova che le missioni tradizionali e quelle osservative sono state quelle di maggior successo. Inoltre Fortna (2004) evidenzia anche come il PK abbia una rimarchevole efficacia nel periodo post Guerra Fredda rispetto a quello precedente che, a suo avviso, non ha avuto un significante effetto di mantenimento duraturo della pace. Analogamente Sambanis (2008), analizzando gli effetti di breve e di lungo termine delle Op. di PK dell´Onu afferma che “attualmente l´Onu ha migliorato notevolmente la sua capacità di conduzione delle PKO” e in generale afferma che l´effetto del PK è più forte nei primi anni ma, solamente nel lungo termine un miglioramento delle condizioni economiche e di ricostruzione istituzionale è in grado di garantire una pace duratura.
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Tuttavia recenti sviluppi metodologici hanno riscontrato la presenza di alcune ombre nei risultati degli studi di Doyle e Sambanis (2000). King e Zeng (2007) sostengo che i risultati di questi autori dipendo sostanzialmente dal modello che essi adottano e che non sono supportati da evidenze empiriche. L´osservazione che viene fatta allo studio di Doyle e Sambanis riguarda l´approccio metodologico utilizzato che tiene conto solamente dei casi dove l´Onu è intervenuta e quindi se l´Onu interviene solo nei conflitti più semplici il tasso di successo delle operazioni risulta sovrastimato.
Queste osservazioni sono state riprese anche da Gilligan e Sergenti (2008), Gli autori utilizzano un approccio metodologico che tiene conto non solamente dei casi in cui l´Onu interviene ma anche dei casi in cui l´Onu non interviene. Ai loro occhi questa metodologia risulta maggiormente innovativa rispetto ad altri studi e ricerche che hanno voluto mostrare che le missioni di PK Onu possono prolungare il periodo di pace post-conflittuale. Gli autori concludono che l´intervento Onu porta ad un miglioramento delle condizioni di pace quando interviene nella fase post-conflitto ma questo non avviene quando l´intervento è dispiegato a guerra ancora in corso.
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