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CAPITOLO PRIMO

1.6 L´approccio emergente nello studio delle Operazioni di Pace.

1.7.2 Oggettivismo e soggettivismo

Un´altra importante differenza nei due approcci teorici alle OP deriva dalla differente visione del funzionamento del mondo sociale. Le teorie del Problem-solving sono sostanzialmente sorrette dall´oggettivismo, il quale sostiene che i problemi ai quali le OP sono indirizzate, esistono esternamente rispetto alla percezione dell´agente che interviene per risolverli. Secondo questa visione, le OP rispondono a circostanze dalle quali esse sono estranee; e cercano di creare dall’alto le condizioni che conducono alla pace. In disaccordo con questa posizione, le teorie critiche cambiano la premessa filosofica da cui partono le posizioni oggettiviste sostenendo che i problemi a cui devono far fronte le OP sono “creati” piuttosto che “scoperti” e che le relazioni tra agente e obbiettivo sono molto più complesse e intrecciate rispetto a quanto sostiene l´assunto oggettivista.

Secondo Bellamy oggi è l´oggettivismo che fornisce la cornice dominante per le teorie delle OP. Per l´autore quest’approccio assume tre caratteristiche principali:

- Essendoci stato poco dibattito sul campo, molti approcci allo studio delle OP risultano implicitamente positivisti e presumono che esista una base di dati indipendenti dalla realtà a cui le OP devono far fronte.

- L´oggettivismo insiste che ci sia una relazione chiara e distinta tra l’agente/mediatore e l´obbiettivo.

- Secondo l´approccio Oggettivista lo scopo e la durata di questa relazione sono delimitati e fanno parte di un ben delimitato quadro di attività da compiere.

L´idea che lo scopo e la durata della relazione tra l’agente/mediatore e l´obbiettivo come un evento delimitato e discreto (cioè, avente un inizio ed una fine ben precisi), deriva dalla definizione

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di intervento data da R. J. Vincent.27 Tale definizione, con i suoi precisi limiti temporali e tematici posti agli studi e alla pratica delle OP, tende a dare priorità alle esperienze degli agenti/mediatori piuttosto che all´obbiettivo. Quest´approccio si è particolarmente notato nei documenti e negli studi relativi alle missioni nei Balcani, che sono stati catalogati seguendo un cronogramma basato sulle fasi dell´intervento e nel quale si dà molto peso alla visione percettiva dei Peacekeepers e poco a quella della componente locale. Una visione questa, che ha tenuto poco conto delle dinamiche locali capaci di far fallire o agevolare gli sforzi di risoluzione del conflitto, enfatizzando piuttosto gli aspetti esperienziali di diplomatici, militari, funzionari e operatori di pace.

L´oggettivismo contribuisce inoltre ad alimentare il mito che nell´era successiva alla Guerra Fredda il mondo risulti più instabile e pericoloso di quello precedente, dove un certo ordine poteva esser garantito dalle due super potenze, rispetto ai rischi di esplosione di guerre interne nelle varie parti del mondo. Per la verità si sa per esperienza che il numero di guerre è sostanzialmente diminuito dalla fine della guerra fredda. Basandosi sulla definizione del SIPRI per cui un “istanza di guerra” avviene quando si hanno 2000 morti in combattimento, Colin McInnes ha potuto affermare che le guerre interne sono attualmente in diminuzione dalla fine della Guerra Fredda. Mentre nel 1986 si contavano 25 conflitti di questo tipo, nel 1999 se ne contavano 15. Nelle operazioni dal ’89 in poi l´eccesso d’importanza dato alle sole conoscenze prodotte dai partecipanti (Peacekeepers) ha supportato il mito dell´esplosione delle violenze etniche. Solo in termini puramente numerici l´unico cambiamento verificatosi è avvenuto con la proliferazione delle OP e delle loro competenze. Molti dei fenomeni in situazioni di conflitto e instabilità cronica chiamati “nuove guerre” (signori della guerra, transnazionalismo, centralismo economico e politiche identitarie, terrorismo internazionale) erano presenti anche in conflitti precedenti il 1989 (Cambogia, Afghanistan, Angola).

La crescita del numero e delle complessità delle missioni non può pertanto essere principalmente attribuito ad un cambiamento oggettivo nelle aree di conflitto, come lo si è voluto mostrare. Piuttosto è stato l´approccio oggettivista nelle OP che ha portato al dominio dell´idea che la chiave del cambiamento risieda “fuori” di chi interviene, mentre invece altri approcci suggeriscono che il principale cambiamento sia da ricercare “all´interno” degli stessi Stati che intervengono. La proliferazione e la crescita delle OP è stata una conseguenza del cambiamento nella percezione che le OP hanno avuto di se stesse e del proprio ruolo nella politica mondiale, piuttosto che dell´esplosione di nuovi tipi di violenza negli scenari di guerra. Come risultato, l`oggetto delle OP viene deciso dall´agente interveniente e non dal destinatario. Un chiaro esempio

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R.J. Vincent, Nonintervention and International Order, Princeton: Princeton University Press, 1974. p.13 in Bellamy 2004,. 27, op. cit.

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di ciò è stato quello della guerra in Bosnia, la quale non è stata causata da un crollo della Democrazia, semplicemente perché la Bosnia nei decenni precedenti non era governata democraticamente. Tuttavia anche se in quel contesto la pace non era direttamente connessa alla democrazia, le missioni di Peacebuilding, (sulle quali l´ONU, l`UE e l´OSCE hanno investito grandi risorse) si sono focalizzate particolarmente sulla democratizzazione. Le ragioni della centralità dell´aspetto democratico nelle operazioni di PB in Bosnia sono legate all´importanza che gli Stati esterni hanno dato a quell´aspetto piuttosto che ad altri aspetti direttamente connessi con i problemi della Bosnia.

Guardando principalmente ai problemi del mondo come prodotti esterni al sistema entro il quale agiscono, le teorie oggettiviste insistono sull’idea che i confini delle OP sono limitati e tecnicamente individuabili. Questo fissare un limite spaziale impone che non sia possibili verificare questioni più ampie, come l´effetto delle OP nel lungo termine e come le Agenzie Internazionali contribuiscano ad alimentare economie di guerra o economie umanitarie.

Partendo dall´assunto oggettivista che sia possibile una divisione tra l´agente e l´obbiettivo, questo può aver tre effetti su come viene teorizzato il PK:

- Le OP sono “reazioni” a problemi già esistenti.

- È implicito che questi problemi siano palesati alla società.

- Definendo l´intervento come “spazialmente e temporalmente limitato”, esso viene spostato fuori dalle relazioni storiche e strutturali.

Per l´approccio soggettivista invece il mondo sociale è costituito dalle interazioni tra gli individui, che creano un insieme di norme e regole che governano le azioni appropriate. Da ciò deriva che è impossibile tracciare la linea di divisione tra l´agente e l´obbiettivo, come anche i confini temporali nei quali le azioni vengono circoscritte. Da una prospettiva critica quindi, non vale l´idea che le OP rappresentino un´azione “delimitata”, e che gli Stati intervenenti non siano direttamente o indirettamente coinvolti nei conflitti dove operano.

Nella chiave di lettura critica è la realpolitik neo-colonialista degli Stati e delle istituzioni finanziarie che, con la propria visione globalizzante, protrae la povertà e indebolisce gli Stati, creando le premesse strutturali per il protrarsi della violenza. Intervenendo in Paesi con problemi di sviluppo o instabilità politica, tramite la promozione della crescita economica e della democrazia, succede spesso che i veri beneficiari siano principalmente le élite locali e gli stessi donatori esterni. Questo tipo di relazione crea poche basi per una reale riduzione dell´insicurezza umana per la gran parte della popolazione mondiale. Guardando le crisi umanitarie e politiche come fenomeni esogeni agli attori che intervengono e insistendo sull’idea che l´intervento è temporalmente limitato, le

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teorie di tipo oggettivista costituiscono un forte limite alla comprensione delle dinamiche strutturali dei conflitti contemporanei e delle responsabilità globali dei paesi più sviluppati. Per contro l´approccio di tipo critico, assumendo che il mondo sia socialmente costruito piuttosto che “dato”, sostiene che la natura dei problemi e la ricerca di una loro soluzione vanno misurati con gli attori piuttosto che con gli obbiettivi.