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Il carcere, tradizionale luogo di forte disagio sociale, vive oggi un momento particolarmente difficile. L’arrivo della popolazione immigrata, e in continua crescita, ha creato problemi ed esigenze del tutto nuove. In tal senso, all’interno degli Istituti penitenziari si è pensato all’introduzione di mediatori culturali per intervenire su tale disagio e cercare, in qualche modo, di attutirlo, visto che in tale contesto conflitti e contraddizioni sociali si enfatizzano piuttosto che risolversi. La mediazione culturale in carcere non è istituita da nessuna legge: non esiste attualmente una previsione che imponga il ricorso ai mediatori, o che regoli tanto meno lo svolgimento e le caratteristiche di tali interventi. L’unica previsione che riguarda la mediazione in carcere è istituita dal recente Regolamento penitenziario introdotto con D.P.R. 230/2000 che, per la prima volta, inserisce la figura del mediatore. Infatti, è stato introdotto al secondo comma dell’art. 35 il principio secondo cui “deve essere favorito l’intervento di

operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato” (in armonia con quanto prevede la legge 40 del ’98). Questo, come completamento del primo comma dove viene specificato che “nell’esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti dei cittadini

stranieri, si deve tener conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali”.

In assenza, quindi, di una norma che introduca obbligatoriamente la figura del mediatore negli Istituti, con competenze ben precise così come avviene per gli altri operatori che vi lavorano, anche gli interventi che concretamente si realizzano molto spesso soffrono di una certa nebulosità, e la loro efficacia è esclusivamente misurabile in base alle capacità di chi li progetta. L’inserimento di tale figura professionale nel contesto carcerario presenta pertanto caratteristiche e problemi specifici. É fuor di dubbio, tuttavia, che per chi opera nel carcere la mediazione è vista non solo come pratica plausibile, ma come concreta ipotesi di intervento su una situazione divenuta ormai esasperante e non facilmente risolvibile.

Anche in carcere, secondo Alain Goussout: “Il problema è quello di trovare le strategie operative che tengano conto dei vincoli imposti dal carcere e di

sviluppare e formare una serie di competenze nuove in grado di rispondere a bisogni e a modalità inedite di manifestare il disagio”316. In tale contesto, i mediatori sono chiamati non solo a tradurre i codici degli utenti in carcere, ma anche ad attutire quei ‘disagi’ provenienti dalla condizione di svantaggio in cui i detenuti immigrati si vengono a trovare. Molti di essi si trovano in carcere perché clandestini, perché privi di documenti, o in attesa del permesso di soggiorno. “In effetti, – afferma Salvatore Palidda – se è vero che un immigrato clandestino che non abbia commesso alcun reato non può essere rinchiuso in carcere, è però vero che quando non viene espulso, o non può essere espulso, accumula inevitabilmente infrazioni che diventano anche di carattere penale”317. Non favorire i processi di regolarizzazione, o renderli eccessivamente macchinosi, porta ad un’irregolarità assai dilagante in cui può ricadere anche chi era già inserito nel tessuto sociale. La nuova legge sull’immigrazione Bossi-Fini in alcuni suoi punti, con l’inasprimento delle norme circa l’ingresso e il soggiorno, acutizza il fenomeno degli irregolari e dei clandestini.

E ancora, moltissimi hanno commesso reati che rientrano nell’area della microcriminalità, per la quale sono previste pene medio basse; altri sono in attesa di giudizio, ma, data la lungaggine dei procedimenti penali rischiano di rimanere rinchiusi più del dovuto318. In alcuni casi, poi, la giustizia si dimentica di loro, forse perché non cittadini, forse perché non-persone, come li definisce Dal Lago319. Molti, infatti, non si possono permettere un legale di fiducia, ragion per cui hanno diritto ad una difesa d’ufficio. Questo aspetto non è irrilevante, dato che una semplice difesa tecnica non pone le stesse garanzie di una di fiducia, e nella struttura del processo penale è superfluo sottolineare che una buona difesa, a volte, può condizionare gli esiti del processo. Inoltre, è statisticamente dimostrato

316 Alain Goussot, Carcere, mediazione, immigrazione: problematiche emerse in seguito ai

Seminari, in “Mediazione Carcere Immigrazione”, Documentazione e materiali di riflessione dei seminari regionali svoltisi a Bologna 2/12/97 e il 1/6/98, Bologna, Lo Scarabeo, 1998.

317 Salvatore Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti, Fondazione Cariplo-ISMU, Milano, 2001.

318 Secondo Massimo Pavarini sulla base di molte ricerche empiriche è possibile affermare che: “la severità dei castighi legali spesso è in ragione inversa al grado di immunizzazione posseduto dal condannato, per cui a parità di gravità di reati giudicati, si è puniti più severamente tanto più ci si trova verso il basso nella scala sociale” e, tale è comunque oggi in Italia, la posizione dell’immigrato (Massimo Patarini, Il carcere razzista?, in “Sicurezza e Territorio”, 1994, n. 12, p. 10).

319 Cfr. Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999.

che, di fatto, tranne rare eccezioni, gli stranieri non riescono a godere delle misure alternative al carcere. Questo perché spesso l’applicazione di una misura alternativa presuppone un inserimento nel territorio (una casa, un lavoro, familiari di riferimento ecc.) che è proprio ciò che ad un immigrato spesso manca, soprattutto quando arriva nel nostro paese come clandestino.

Se il sistema è impreparato a gestire il nuovo assetto sociale originato dall’intensità del fenomeno migratorio, la trasformazione di cui necessita non può che avvenire per gradi. Chi si occupa di mediazione intende che uno dei princiapli strumenti di tali trasformazioni sia proprio l’utilizzo della figura del mediatore. Infatti, il suo ruolo all’interno dell’Istituto sarebbe proprio quello di sopperire alle mancanze di un sistema che, preoccupato di garantire l’uguaglianza formale, a tuttora sembra non sia in grado di garantire quella sostanziale costituzionalmente intesa. L’operato del mediatore andrebbe in tal senso. Il suo obiettivo è costruire circuiti comunicativi per far circolare informazioni; gestire la socialità organizzata in modo da favorire la relazione con i detenuti immigrati. L’obiettivo finale sarà la collaborazione attiva tra operatore e mediatore, al fine di far acquisire al servizio quegli strumenti, inizialmente forniti dai mediatori, affinché possano soddisfare anche l’utenza straniera.

La questione della sovra rappresentazione degli stranieri nelle carceri italiane ha destato l’interesse di diversi studiosi, dai sociologi ai giuristi, in quanto fenomeno preoccupante sotto diversi aspetti. Nel corso degli anni, si sono formate due teorie interpretative del fenomeno criminale fra gli immigrati. Partendo dall’analisi delle statistiche penali, al fine di studiare le connessioni tra devianza ed immigrazione si sono formate due correnti di pensiero che approdano a risposte diverse. Secondo Salvatore Palidda: “Un’interpretazione analizza le statistiche della delittuosità come indicatori di un’attitudine criminale degli stranieri più accentuata di quella degli autoctoni [ed un’altra, invece] li interpreta come prova della criminalizzazione degli immigrati ed in generale degli esclusi”320. I sostenitori della prima teoria rilevano che la particolare propensione alla devianza criminale da parte degli immigrati scaturisce dal non trovare quelle opportunità di inserimento sperate che li avevano spinti ad emigrare. Una sorta di condizione forzosa li spinge così verso la criminalità, oppure, per altri versi, si riscontra una

criminalità ricercata, esito di un diffuso senso di deprivazione relativa. Per tali motivi, gli immigrati delinquono più degli autoctoni321. Fra i sostenitori non estremisti di questo filone troviamo Marzio Barbagli con il suo testo

Immigrazione e criminalità in Italia 322.

Il secondo filone sostiene fortemente la teoria della criminalizzazione dei migranti. Questi autori, fra cui Alessandro Dal Lago, partono dall’interpretare i dati delle statistiche penitenziarie come indicatori anzi tutto della “produzione dell’attività delle forze di polizia e dell’amministrazione della giustizia”323. Questo significa che tali dati parlano più che della criminalità effettiva, di quella perseguita e di quella costruita socialmente324.

Il maggior rischio è quello di favorire sentimenti collettivi ostili nei confronti della popolazione immigrata, e nel convincimento che l’equazione immigrato uguale criminale sia verità non discutibile (per esempio possiamo fare riferimento anche ai recentissimi episodi razzisti nei confronti della popolazione rom). Tale sentimento ostile spinge sempre più l’opinione pubblica verso un allarmante etichettamento dell’immigrato come criminale, e verso un ‘allarme sociale’ legato all’annosa questione della sicurezza urbana delle nostre città. In un articolo già citato di Massimo Patarini, pubblicato intorno agli anni Novanta, leggiamo: “Quale effetto della costruzione sociale dell’immigrato come diverso e socialmente pericoloso, oggi in Italia, le carceri si riempiono sempre più di extracomunitari”325.

I quartieri dove risiedono gli stranieri vengono considerati dalla popolazione autoctona a rischio, aree in cui possono esplodere episodi di disordine e di microcriminalità. Come contenere questo disagio e governare la con-vivenza con gli immigrati secondo criteri razionali e nel rispetto dei diritti dell’individuo? A questo proposito Angelo Caputo in un suo articolo sottolinea la

321

Comunque, c’è da dire che in Italia spicca l’assenza di riferimento ad una tradizione teorica e argomentativi che potrebbe rovesciare i termini di questo dibattito. Nessun riferimento ai lavori di Sutherland, il quale rifiuta l’associazione immigrazione-criminalità. Egli, invece, osserva che la criminalità degli immigrati aumenta con la loro crescente integrazione nel tessuto sociale dei paesi ospiti ecco perché gli immigrati di seconda generazione delinquono in misura maggiore rispetto a quelli di prima generazione (Cfr. Vincenzo Ruggiero, Stranieri e illegalità nell’Italia criminogena, in “Diritto Immigrazione e Cittadinanza”, Anno X, N. 2, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 13). 322 Cfr. Marzio Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, il Mulino, Bologna, 1998. 323 Ibidem, p. 65.

324 Cfr. Giovanna Paietta, Dici immigrato e scatta la paura, in “Il Manifesto” 26 febbraio 2000 e ancora Furio Colombo, Le nostre città malate di paura, in “La Repubblica”, 6 maggio 2000. 325 Massimo Pavarini, art. cit., pp. 7-12.

necessità “di coniugare la doverosa tutela dei diritti fondamentali della persona con una disciplina della condizione giuridica dello straniero improntata a criteri di razionalità e di effettività, con un assetto normativo equilibrato, stabile, liberato dall’uso simbolico della detenzione degli immigrati irregolari e, quindi, meno permeabile ai picchi dell’insicurezza collettiva”326. Solo in un panorama mutato la mediazione potrebbe divenire, invece che occasionale mezzo a cui ricorrere per contenere realtà divenute insostenibili, un metodo che si coniughi ad altri strumenti messi a disposizione dalle istituzioni e che abbia come fine ultimo quello di favorire la convivenza fra soggetti e gruppi di differente matrice culturale.

É chiaro che i progetti per la mediazione all’interno degli Istituti penitenziari dipendono in moltissimi casi dalle politiche locali. Quanto vissuto in carcere è pur sempre una riproduzione, anche se estremizzata e problematica, di quanto accade fuori. Questo significa che realtà locali che fanno di più per l’integrazione hanno una rete di servizi esterna forte e attiva che lavora per l’inserimento degli immigrati. Dove accade ciò, queste attività permeano anche la struttura carceraria, se non altro per la maggiore sensibilizzazione al fenomeno e quindi la maggiore predisposizione all’aiuto e all’apertura di tutta la comunità d’accoglienza, fuori e dentro le mura del penitenziario. Un esempio riuscito di quanto appena detto è la Regione Emilia Romagna, dove l’esperienza di mediazione culturale è stata oggetto di un lavoro molto articolato iniziato nel 1998 e a tutt’ora in itinere nei singoli Istituti penitenziari della Regione. La particolarità di questa realtà, unico caso in Italia, è che ci si trova di fronte ad un ‘progetto’ di rilievo regionale che ha interessato praticamente tutte le istituzioni: gli Istituti penitenziari, i Comuni, le Province e naturalmente la Regione e il P.R.A.P. (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per l’Emilia Romagna).

Il progetto avviato in questa regione si propone di creare le basi e le direttive di un lavoro che poi si dovrà concretizzare all’interno di ogni singolo Istituto con la realizzazione di sportelli informativi per la popolazione straniera detenuta. Ha partecipato al progetto anche la Cooperativa sociale (CSAPSA)

326 Cfr. Angelo Caputo, Verso un diritto speciale per gli immigrati?, in “Questione Giustizia”, N. 6, 2000, p. 45.

specificamente competente in tema di integrazione etnico-culturale, con il mandato di diffondere gli esiti e di promuovere una riflessione sulla mediazione a livello regionale attraverso specifici seminari. In concreto, tale progetto attiva proprio un’esperienza pilota all’interno della Casa Circondariale di Bologna e, contestualmente, in quella di Modena, trattandosi di due realtà piuttosto significative, visto l’alto numero di detenuti, e in particolare di detenuti stranieri.

In conclusione, se la mediazione vuole divenire uno strumento sul quale realmente investire, i progetti attraverso cui realizzarla devono tener conto delle criticità. Come tutte le nuove professioni, quella del mediatore necessita di attenti percorsi formativi e di un’attenzione da parte delle istituzioni che renda questa figura socialmente legittimata e pienamente inserita nei contesti in cui è chiamata ad operare.

Capitolo 3

FORMAZIONE E PROFESSIONALIZZAZIONE

Eccoci… inconsapevoli spettatori davanti a una finestra, attenti e scrupolosi osservatori di un semplice attimo…

D. Saccozza

3.1 – La questione della formazione e del riconoscimento dei titoli

I primi corsi di formazione per mediatori culturali in Italia risalgono al 1992327. Essi partirono a carattere sperimentale soprattutto nelle città del nord del paese, dove più forte era la presenza d’immigrati. A partire da quella data, ogni Ente o Regione si è auto orientato e auto organizzato. Difatti, a tutt’oggi, non esistono direttive nazionali, ma solo delibere, protocolli e convenzioni a livello delle singole regioni. Ad esempio, la Regione Piemonte ha emanato una direttiva che determina gli standard formativi a cui devono adeguarsi i progetti formativi degli enti proponenti. Un’altra Regione, l’Emilia Romagna, a cavallo fra il 2004 e il 2005, all’interno della qualifica professionale del “mediatore interculturale” definisce gli standard formativi a cui tutti i mediatori culturali dovranno uniformarsi attraverso il riconoscimento di competenze pregresse, e l’acquisizione di quelle mancanti attraverso percorsi formativi appositamente costruiti.A questo proposito, uno dei ‘testimoni privilegiati’, intervistati durante la ricerca sul campo, ha affermato:

327 In via generale, comunque, come afferma Eugenio Zucchetti “la situazione italiana della formazione professionale per immigrati presenta un quadro disorganico, caratterizzato da mancanza di progettazione, frammentazione dell’offerta, discontinuità temporali, incertezze finanziarie. Essa risente di una serie di vincoli che le provengono sia dalla programmazione regionale (riduzione dei finanziamenti, ma soprattutto mancanza di continuità dei finanziamenti stessi, oltre che eccessiva burocrazia) sia dalle direttive e dalle linee del Fondo Sociale Europeo, pur se è dalle limitate sperimentazioni attivate nell’ambito dei programmi comunitari che è derivata in questi ultimi anni l’innovazione maturata in questo settore” (Eugenio Zucchetti, La

formazione professionale, in Fondazione ISMU, Sesto rapporto sulle migrazioni 2000, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 211).

Sono poi gli Enti di formazione, che progettano le attività e le plasmano secondo l’esperienza professionale posseduta dagli operatori, rispetto alle unità di competenze. Se si verifica, che gli operatori non sono totalmente in possesso di queste competenze è ovvio che la formazione va integrata. [Elisabetta Di Pardo]

Dal 1998, attraverso l’intervento del FSE e per effetto degli indirizzi legislativi che prevedono questa figura nei servizi pubblici, oltre che per l’accresciuta presenza dell’utenza immigrata che si rivolge ai diversi servizi, si assiste ad un netto aumento delle attività di formazione e ad una sempre maggiore presa in carico del processo da parte delle istituzioni. Spesso i percorsi formativi sono costruiti quale esito di una sinergia fra enti pubblici e privati. Inoltre, diverse sono le associazioni di migranti e nativi che hanno promosso e gestito corsi di formazione professionale. Negli ultimi anni le tradizionali agenzie di formazione presenti nelle varie regioni italiane hanno avviato progetti di formazione per mediatori, spesso in collaborazione con le associazioni di migranti.

Oggi, il quadro dell’offerta formativa è ampio e contraddittorio e soffre di un momento d’incertezza, legato al riconoscimento del profilo professionale e della conseguente standardizzazione del percorso di studi. A questo proposito, la Vice Sindaco del Comune di Bologna Adriana Scaramuzzino durante l’intervista ha così dichiarato:

Relativamente ai contenuti della formazione, certamente occorrerà distinguere gli ambiti in cui questa figura agisce e le sue specifiche funzioni. Quanto e come resterà connessa con il problema linguistico e quanto invece dovrà andare verso altri saperi e professionalità del sociale, così come alcune innovative esperienze sembrano indicare. Insieme a ciò occorrerà definirne il curriculum formativo di accesso, e contemporaneamente definire percorsi di riconoscimento per le centinaia di operatori in servizio per i quali sarà necessario stabilire accordi per riconoscere le più variegate forme di formazione da cui provengono gli operatori attualmente in servizio. [Dott.ssa Adriana Scaramuzzino]

É dunque oramai risaputa la necessità di una formazione qualificante e di un percorso successivo, che approfondisca e potenzi le acquisizioni possedute e

aiuti a riflettere sull’esperienza sul campo. In Italia, i Master e i corsi di formazione per mediatore culturale pullulano e, pian piano, questa attività sta diventando un vero e proprio business, anche per questo diventa difficile orientarsi e scegliere. Certamente è assodata la necessità di una formazione qualificante unita ad un percorso successivo di formazione continua, che approfondisca le conoscenze già acquisite e aiuti a riflettere sull’esperienza concreta. L’iter formativo di base e in itinere diviene pertanto un punto centrale di questa nuova professione328.

Molte, però, sono le questioni aperte su questo tema. La prima è la disomogeneità delle varie offerte formative, sia per quanto riguarda tempi, contenuti e metodi, che per quanto attiene al riconoscimento ufficiale degli attestati. In aggiunta, vi è la necessità di ricercare un’armonia fra richieste del territorio, formazione e sbocchi occupazionali senza la quale si rischia di creare false aspettative su possibili occasioni di lavoro. A questo proposito vale la pena riportare quanto espresso da una mediatrice nel corso dell’intervista:

Se mi venisse offerta la possibilità di fare mediazione lo farei: il problema è chi decide che io possa fare questo percorso. Il problema è a monte, il problema è chi decide il background pregresso, chi fa la valutazione, perché nel momento in cui tu indirizzi una persona è chiaro che non si può tornare indietro, non sarebbe corretto e giusto nei suoi confronti. [Leyla Dauki]

In molti casi l’accesso ai corsi è stato regolato attraverso una preselezione tesa a valutare, oltre che il titolo di studio (generalmente elevato fra gli aspiranti corsisti), il livello di conoscenza della lingua italiana, la preparazione culturale e civica rispetto al contesto di vita del paese ospite, la motivazione e la disposizione al lavoro sociale. Normalmente, si tratta di persone che per le loro caratteristiche personali hanno un taglio mentale e culturale che li spinge a volersi interessare a qualcosa di più del proprio inserimento nel mondo del lavoro e della società. I corsi hanno in genere una durata annuale e comprendono sia una parte d’insegnamento teorico, che una di tirocinio nei diversi servizi. Il tirocinio ha come scopo di portare alla conoscenza diretta e reale del funzionamento dei

servizi, delle risorse di cui dispongono, delle caratteristiche del bacino d’utenza, nonché della metodologia d’intervento adottata dal servizio.

Il percorso formativo di questa figura professionale, anche da quanto emerge dalle interviste svolte nella città di Bologna, prevede un modulo base e successivamente moduli che approfondiscono le aree specifiche d’intervento. La definizione stessa di mediazione culturale va circoscritta e situata rispetto all’ambito e al servizio nel quale si opera. Gli approfondimenti riguardano le particolarità dell’area socio-sanitaria italiana, le principali nozioni giuridiche, ma anche elementi di psicologia e di antropologia. Attraverso la padronanza di metodi e di strumenti di tipo socio-antropologico, il mediatore dovrà essere in grado di decodificare i bisogni dell’utente straniero, ma anche quelli dell’operatore dei servizi.

La conoscenza approfondita della normativa e delle caratteristiche del funzionamento e dell’organizzazione dei servizi permettono ai mediatori di fornire informazioni e indicazioni sui percorsi praticabili all’interno del sistema pubblico e del privato sociale. Orientando la domanda in modo adeguato, si svolge un’azione che facilita e permette pari opportunità all’accesso e alla fruibilità dei servizi. Alcuni servizi, più di altri, corrono il rischio di un uso improprio della