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Nonostante le esperienze di mediazione, partite come sperimentazioni, si siano successivamente estese e consolidate in tutta Italia, la mediazione interculturale si presenta ancora oggi come un intervento controverso di policy, che alcuni non esitano a considerare inutile in quanto visto come strumento di mantenimento delle differenze, che andrebbero invece superate puntando direttamente su misure d’integrazione, come ad esempio l’insegnamento della lingua italiana.

Al di là di queste posizioni fortemente critiche, resta il problema, sottolineato anche dal documento redatto dal CNEL della definizione univoca di questa figura professionale, del suo ruolo, delle sue funzioni, delle competenze professionali, dei requisiti e dei percorsi formativi, degli ambiti di impiego e dei tipi di rapporto di lavoro.

Ad emergere è uno scarto sostanziale tra la teoria sulla mediazione, sempre più ricca e sofisticata, e la pratica, che appare invece sempre più incerta e flessibile, a seconda di quelle che sono le esigenze nei diversi ambiti di inserimento. Se nei servizi anagrafici compare soprattutto l’elemento della traduzione, della compilazione dei moduli e della risposta alle richieste di informazioni, nell’ambito scolastico compare invece l’elemento della relazione interculturale, tra bambini, tra famiglie straniere ed insegnanti e così via. Dunque, la pratica della mediazione include una molteplicità di compiti: dalla traduzione alla facilitazione, alla comunicazione interculturale; si tratta di compiti che, nella pratica, non sono però sempre facilmente scindibili. Tutto ciò rende complicato definire in modo preciso ruolo e funzione della figura del mediatore.

In ogni modo, come abbiamo già sottolineato nella seconda parte di questo lavoro, l’Italia, paese di nuova immigrazione, ha mostrato sin dall’inizio una certa apertura nei confronti della diversità culturale. L’articolo 1 della legge n. 943/1986 riconosce l’eguaglianza fra lavoratori immigrati e italiani nell’accesso ai diritti sociali, e il diritto di protezione della cultura e della lingua d’origine. Tuttavia, come abbiamo osservato in precedenza, è solo la legge n. 40/1998 a parlare esplicitamente di mediazione interculturale. Tali indirizzi di policy dell’immigrazione appaiono del tutto coerenti con le numerose sperimentazioni avviate agli inizi degli anni Novanta in molte città del Centro-Nord.

Questo è anche il caso di Bologna, dove i mediatori iniziano ad essere formati e inseriti nei vari servizi intorno agli anni Novanta, sia nell’ambito socio- sanitario, con l’esperienza del Centro per la salute delle donne straniere e dei loro bambini, sia in quello scolastico con le sperimentazioni del CD/Lei (Centro Documentazione/Laboratorio per un’educazione interculturale). La mediazione ha poi rivestito un ruolo fondamentale negli interventi promossi dall’ISI (Istituzione Servizio Immigrati), che ha gestito le politiche per gli immigrati promosse dal Comune tra il 1997 e il 2001, con una vocazione interistituzionale. L’ISI ha infatti

utilizzato operatori stranieri presso i propri sportelli, promuovendo anche importanti iniziative di formazione.

La Giunta Regionale dell’Emilia Romagna, come già ampiamente detto nella seconda parte, ha approvato nel 2004 il profilo di riferimento della professione del mediatore interculturale. Successivamente, con Delibera di Giunta n. 265/2005 ha approvato gli standard dell’Offerta Formativa367. Tale delibera individua quattro tipi di competenze necessarie affinché il mediatore possa svolgere la sua funzione, e cioè:

• la capacità di diagnosi dei bisogni e delle risorse dell’utente immigrato; • la capacità di orientamento della relazione utente/immigrato/servizi, per

cui il mediatore deve saper fornire ad entrambe le parti in gioco gli elementi conoscitivi necessari ad impostare una relazione corretta;

• l’intermediazione linguistica, di comprensione e decodificazione delle lingue in uso nella relazione utente/servizio;

• la mediazione interculturale, che consiste invece nell’interpretare i codici culturali e nel facilitare lo scambio tra le parti.

La definizione delle competenze e degli standard dell’offerta formativa, tuttavia, non è stata sufficiente a far sì che il ruolo dei mediatori fosse riconosciuto a livello istituzionale. La Provincia di Bologna denota un certo ritardo nella programmazione delle attività formative e nella certificazione delle competenze. In altre province, ad esempio Ferrara, Modena, Piacenza, Parma, Ravenna, questo processo è stato già avviato in ragione anche del necessario cambiamento. Lo scopo di questo nuovo sistema prevede una previa valutazione delle competenze e una programmazione del percorso a posteriori. Vi sono, infatti, parecchi operatori ai quali va riconosciuta la loro formazione pregressa; altri, invece, devono colmare alcune lacune con percorsi formativi specifici; altri ancora, pur avendo accumulato una grande esperienza lavorando come mediatori, non possiedono alcuna formazione. Da quanto è emerso da alcuni colloqui telefonici condotti con funzionari e tecnici della Regione Emilia Romagna, la situazione è molto complessa e disomogenea, ecco perché la Provincia di Bologna

367 Per una conoscenza più approfondita del profilo del mediatore culturale e degli standard dell’offerta formativa consulta il sito della Regione Emilia Romagna: http://www.regione.emilia- romagna.it.

denota questo ritardo. E poi, ancora, c’è tutta la trafila della formazione degli esperti chiamati a valutare i percorsi dei mediatori: chi, come e quanti mediatori faranno parte di questa sperimentazione? Ad oggi ancora tutto è fermo, tutto da vedere, tutto da decidere. Ovviamente:

[…] questa qualifica non è sufficiente per permettere l'ingresso nel mondo del lavoro. E' ovvio che noi speriamo che questo succede, però è il mondo del lavoro che deve riconoscere la professione. La qualifica non è purtroppo una garanzia. Anche se nei casi dei servizi sociali tutto va per qualifiche. Parliamo sempre del pubblico, dove il sistema delle qualifiche ha più valore. Nel privato molto di meno. Nel pubblico i percorsi sono molto professionalizzati, ma c'è sempre bisogno di avere dei riferimenti precisi, degli standard, delle lauree per esercitare delle professioni. Qui il problema è che questa qualifica, se è stata inserita nel sistema regionale, in accordo con l'assessorato alle politiche sociali, vuol dire che ha un riscontro nel mercato del lavoro e si sentiva la necessità di "dare una forma" alla qualifica. [Elisabetta di Pardo].