Nel nostro immaginario collettivo la maschera è il simbolo del teatro, l’emblema dell’illusionismo su cui si fonda la rappresentazione drammatica, l’icona dell’ambiguo rapporto che nel corso dello spettacolo si stabilisce tra l’attore e lo spettatore. Nella tragedia greca l’eroe indossa una maschera che rivela la sua individualità. In latino, infatti, il termine persona significa maschera, e le parole erano la voce della maschera.
L’uso della maschera da parte degli attori come dei coreuti accompagnò le rappresentazioni tragiche fino alla più tarda età. Il loro impiego, e quindi le motivazioni che spingevano a conservarla, permetteva a ciascun attore di
impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili, in un teatro dove si faceva ricorso soltanto ad attori di sesso maschile.
La maschera permetteva a colui che la indossava di stabilire una distanza rispetto al ruolo. Ad esempio, in tutte le feste alla corte di Francia, e soprattutto nei carnevali, indossare una maschera è una occasione che ci libera dal personaggio che abbiamo costruito nella nostra vita quotidiana, di liberarci dagli infiniti ruoli direbbe Goffman70. Si finisce, quindi, con il credere che tale personaggio sia la nostra unica realtà. Indossare una maschera, a volte, permette all’altra voce, quella che sussurra o che talvolta grida dietro al ruolo, di prendere la parola. “Nella tragedia, è la maschera –afferma Morineau– che consente di stabilire un dialogo tra la voce del ruolo e l’altra voce, che noi chiameremo voce interiore”71.
Nella mediazione i mediati, apparentemente, non portano delle maschere, ma il ruolo con il quale si presentano è un ruolo invisibile, ed è proprio da questo ruolo che essi devono uscire. Molto evocative a questo proposito sono le parole di Andrea Tagliapietra: “Da ultima Medusa, con i tratti deformi di una maschera orrida e grottesca, rappresenta per l’immaginario greco l’estrema alterità, l’orrore terrificante di quel che è assolutamente altro, l’indicibile, l’impensabile, il puro caos”72.
La civiltà moderna si è allontanata da Dioniso, e anche da Apollo. La scomparsa dei rituali e di numerose feste non hanno lasciato posto agli eccessi dell’uomo. “Potevano così vivere, per delega, le loro fantasie più folli: l’incesto, l’omicidio…Accettando la realtà di tali desideri, potevano liberarsene”73. Fortunatamente, alcune di queste feste ancora oggi sopravvivono. Ne è un esempio il carnevale dove gli uomini possono mascherarsi da donne e le donne da uomini. Le differenze sessuali vengono abolite, in modo che ognuno può vivere il proprio lato femminile e maschile. Tutti i tabù vengono trasgrediti.
Nei gruppi di formazione alla mediazione, quando si simula una mediazione nel momento culminante del dramma si fanno indossare ai confliggenti delle vere maschere. “Il risultato –afferma Morineau– è sempre
70 Cfr. Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna, 1969. 71 Jacqueline Morineau, op. cit., p. 73.
72 Andrea Tagliapietra, op. cit., p. 31. 73 Jacqueline Morineau, op. cit., p. 36.
sorprendente: mascherati e privi dell’uso della parola, i protagonisti hanno unicamente i loro corpi e i loro gesti per potersi esprimere e, sistematicamente, essi lasciano cadere la maschera. Non possono più utilizzare le parole che li avevano portati a incontrarsi attraverso i ruoli e a ingannarsi reciprocamente. Ciascuno agisce, allora, con la sua voce interiore”74.
Il fatto di indossare delle maschere permette ai mediati di toccare il vero livello del dramma conflittuale, che attraverso le parole viene negato e celato. A volte, dietro una esplicita richiesta di separazione, si nasconde un agonico grido di riconoscimento, di unione e di amore. Le maschere diventano un utile strumento di conoscenza, grazie al quale si risparmia il tempo di ‘fiumi’ di parole che dissimulano la realtà. C’è da aggiungere però che, purtroppo, durante le mediazioni reali non è possibile utilizzare le maschere.
A partire dai territori del mito greco, l’enigma dello specchio sarà l’enigma dell’Altro e dello Stesso, l’enigma dell’identità e della differenza, il luogo in cui si genera la tensione che crea il simbolo. Il simbolo è ambivalente, polisemico, sfuggente, ma ha una relazione intima e profonda con ciò che viene simboleggiato. É come una barzelletta, se viene spiegata perde tutta la sua capacità di far ridere la gente. Anche il simbolo, una volta spiegato, perde la sua efficacia. “Lo specchio –afferma Tagliapietra- è la soglia del mondo dei segni e della mediazione, perciò è immediato e non si può significare. Lo specchio restituisce ciò che appare ma, insieme, mostra l’essere di ciò che appare, di ciò che è segno potenzialmente menzognero, indica la verità del suo essere altro da ciò che nel mondo dei segni appare”75. Utilizzando un linguaggio simbolico, il mediatore consente alla persona una via diretta verso i luoghi del suo profondo. Lo specchio sembra essere allora il simbolo adeguato per questo percorso che dall’identità ritorna all’identità attraverso la differenza, connettendo unificazione e separazione.
Lo specchio è anche simbolo dell’illusione, perché quello che vediamo nello specchio non esiste nella realtà, e simbolo della conoscenza, perché guardandomi nello specchio io mi conosco. Il raddoppiarsi di Dioniso76 nella sua immagine riflessa racchiude il ‘mistero’ della creazione, come perdita dell’unità
74 Ivi, p. 74.
75 Andrea Tagliapietra, op. cit., p. 25.
per la pluralità delle parti. L’illusione dello specchio fa vedere i molti là dove invece è Uno, per cui nel molteplice si ritrova rispecchiata l’unità del medesimo. Il mediatore deve intraprendere un lavoro su se stesso ripulendo continuamente il suo specchio. Solo dopo un lungo training e una sofferta evoluzione riuscirà a riconoscere l’intensità delle sue emozioni. Per essere veramente specchio il mediatore deve accogliere l’immagine e non deformarla, non distorcerla. Il mediatore deve essere umile, e lo specchio è una cosa umile. Egli può essere paragonato ad una famosa immagine dei tiratori d’arco zen. Quando un arciere zen tira la freccia è pienamente nel presente, è non-egoico, è distaccato anche dallo stesso intento di colpire il bersaglio77. Il mediatore rinvia il suo io sento direttamente come un arciere zen, senza passare per il livello mentale. Spetta poi al mediato utilizzare questa freccia: egli può anche decidere, in piena libertà, di restare sulla soglia della propria emotività e negare l’accesso al proprio ‘giardino segreto’.