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Non si può definire la deontologia della nuova professione di mediatore se non si avvia un percorso di riconoscimento istituzionale del ruolo e la definizione formale delle competenze. A livello nazionale, la nascita di un tavolo di lavoro interregionale sul sistema di formalizzazione e certificazione delle competenze, nonché sugli standard professionali, fa intuire che qualcosa si sta muovendo, anche se ancora siamo lontani da un vero e proprio riconoscimento istituzionale. La definizione di un profilo professionale giuridicamente formalizzato a livello nazionale è un importante premessa per garantire la necessaria credibilità ad operatori che agiscono in settori delicati, a stretto contatto con target molto spesso socialmente vulnerabili. Nel caso contrario, questa figura rischia di rimanere ambigua, debole e poco chiara sia rispetto al proprio ruolo deontologico sia al proprio profilo contrattuale. La centralità posta sul concetto di standard professionale e un adeguato servizio di formalizzazione e certificazione delle competenze consente quindi di intendere la qualifica non più come titolo formativo, bensì come titolo professionale formale.

La Regione Emilia Romagna, nell’ambito del contesto normativo definito dalla Legge Regionale n. 12/2003 in tema di istruzione e di formazione e a seguito dei dispositivi attuativi della legge stessa, contempla la figura professionale del

mediatore interculturale nel nuovo repertorio delle qualifiche professionali regionali a partire dal mese di settembre 2005. Naturalmente, si tratta di una qualifica spendibile solo sul territorio regionale.

Due elementi molto importanti della deontologia sono: il processo di decentramento culturale e le questioni dell’etica professionale. Un bravo mediatore equilibrato e competente deve aver fatto pace con la propria cultura e con quella del paese di accoglienza. Lo strumento che gli permette di svolgere tale ruolo è il processo di decentramento. Esso avviene attraverso un lavoro di osservazione e di approfondimento dei significati culturali delle manifestazioni quotidiane; si tratta di un lavoro profondo su se stessi che ha bisogno di sedi permanenti per la formazione. Gran parte della nostra cultura di appartenenza è a noi sconosciuta, poiché consiste in gesti e atteggiamenti che assumiamo in modo inconscio, routinario, e che emergono in maniera intenzionale. In particolare, il decentramento per il mediatore corrisponde a:

 dotarsi di strumenti di analisi che gli permettono di capire quali siano gli impedimenti alla comunicazione tra italiani e immigrati;  non rappresentarsi l’immigrato in modo stereotipato, ma cogliere la

sua complessità culturale, la sua collocazione anche conflittuale rispetto alla società di provenienza;

 circoscrivere e gestire i propri processi identificatori con il singolo immigrato.

Per inquadrare, invece, il tema dell’etica professionale diventa necessario tener conto di alcune variabili. Un mediatore culturale, seppur inserito in un servizio pubblico, se vuole mantenere la sua primaria funzione di intermediazione non può agire come un qualsiasi operatore pubblico. E’ di fondamentale importanza invece che egli mantenga la giusta distanza dai due partners della relazione, che non si sostituisca a questi, che non assuma un ruolo di rappresentanza, di difesa (la cosi detta advocacy) della persona immigrata.

Va anche detto che il mediatore ha una funzione di intermediazione in una funzione non paritaria, dove l’operatore italiano mantiene una collocazione di potere per il ruolo, ma anche in quanto appartenente al gruppo dominante. In questa relazione è molto importante che il mediatore stia vicino alla persona

immigrata attraverso un ruolo di facilitatore, di sostegno alla contrattualità della persona. L’intervento del mediatore è simile in questo ad un intervento di

empowerment.

Elementi essenziali dell’etica professionale sono la neutralità e la trasparenza della comunicazione. Con neutralità del mediatore si intende la capacità di non sostituirsi all’altro, di essere consapevole ed agire i limiti del proprio ruolo. Il suo sarà cioè un ruolo non decisionale all’interno dell’interazione. Inoltre, neutralità per un mediatore significa capacità di distanza emozionale, di gestione dei piani di identificazione, di decentramento culturale.

Molto difficile, è molto difficile. Poi ci sono delle persone che per esempio non la vogliono la mediatrice noi lo chiediamo sempre, perché la SENTONO TROPPO VICINA e dicono, parlo sempre dei temi che sono affrontati nel consultorio, che non se la sentono di parlare con una della sua comunità del fatto che sono incinte o che non lo sono, per le interruzioni di gravidanza mi spiego? Perché pensano che la mediatrice possa parlarne alle altre, quindi ecco che gli devi dire che è un operatore tenuto al segreto professionale come siamo tutti noi quindi ci vuole un ruolo che protegge se non sono solo chiacchiere. Cioè se io so che lei, parlo di una collega italiana, ha detto una cosa o ha fatto veder la cartella fuori ecc. la prendo e le dico senti tu non lo dovevi fare, tu adesso la smetti. Ma perché lo dico? Perché abbiamo un ruolo che condividiamo abbiamo una deontologia professionale, ma una mediatrice senza ruolo non è protetta. [Maria Giovanna Caccialupi]

Dietro alla trasparenza della comunicazione c’è la richiesta di traduzione letterale (detta anche fedele). Questa, in molti casi, può essere addirittura un ostacolo alla comunicazione. Teniamo conto, infatti, che una lingua è fatta di codici, di valori e di esperienze che cambiano da un paese all’altro, per cui una traduzione letterale può confondere ed essere spesso causa di fraintendimenti. Ciò emerge con chiarezza nelle parole di una mediatrice intervistata:

Il mediatore non è un traduttore è un decodificatore. Il mediatore deve essere in grado di decodificare al di là del linguaggio. Non è solo la traduzione letterale che può anche non significare nulla se non conosci il silenzio dell’altro […]. Se tu conosci quella cultura capisci subito con chi hai a che fare. [Leyla Dauki]

Inoltre, è indubbio che la persona immigrata intrecci il primo rapporto di fiducia con il mediatore culturale, anche se questa relazione è importante per creare una facilitazione nell’accesso e nell’uso dei servizi. Risulta quindi di grande importanza che l’operatore italiano sia consapevole di alcuni processi strutturali della relazione con persone immigrate. L’appartenere a lingue e mondi culturali diversi, soprattutto nella prima fase di accoglienza, non facilita una relazione di vicinanza o di affidamento con l’operatore italiano, il quale rischia di sovrapporsi nell’interpretazione della situazione della persona, di fraintendere e di problematizzare. “La competenza professionale dei due professionisti -come afferma Anna Belpiede- la chiarezza dei rispettivi ruoli, il rispetto della comunicazione reciproca nelle diverse tappe dell’intervento, il rapporto di fiducia sono elementi fondamentali per il crearsi di un buon rapporto”354.

C’è anche da dire che non sono definibili, in via generale, le regole deontologiche a cui attenersi nella professione di mediatore/trice culturale, perché le funzioni e gli ambiti di azione cambiano, i gradi di autonomia si ampliano o si restringono a seconda del contesto organizzativo dell’intervento, delle relazioni con i partners ecc. Per esempio, fare il mediatore presso le questure o i tribunali non è la stessa cosa che farlo presso i servizi scolastici. Nel primo caso il ruolo agito è di stretto interpretariato ed è limitato lo spazio di azione del mediatore; in ambito scolastico, viceversa, conta molto la partecipazione, l’entropatia355, perfino la creatività del mediatore. Per questi motivi non esiste una metodologia di intervento standard, prefissata; piuttosto, ogni mediatore segue un proprio approccio personale, un proprio stile che dipende dalla formazione acquisita e molto dalla personalità e dall’esperienza personale.

Sia dal confronto tra istituzioni e agenzie europee, sia dall’esperienza italiana emergono degli orientamenti su alcune regole di base da rispettare per il

354 Anna Belpiede, op. cit., p. 40.

355 Piero Bertolini definisce l’entropatia come un modo simpatetico di con-sentire con l’altro. Ciò richiede un impegno anche personale, in quanto si tratta per ciascuno di saper vedere nell’altro ciò che sarebbe egli stesso se fosse al suo posto (Cfr. Piero Bertolini, L’esistere pedagogico. Ragioni e

limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, La Nuova Italia, Firenze, 1988, p. 82.

lavoro nei servizi pubblici. Partendo da diverse fonti possiamo sintetizzare queste regole in almeno sette punti356:

1. l’accordo dell’utente all’intervento del mediatore;

2. la presentazione del ruolo del mediatore da parte dell’operatore; 3. il chiarire all’utente che quanto verrà detto nel colloquio sarà

comunque tradotto;

4. l’esplicitazione del ruolo non decisionale del mediatore;

5. la richiesta di rinviare il colloquio di fronte a troppe pressioni di una delle due parti;

6. la richiesta di esonero all’intervento nelle situazioni di gravi dilemmi deontologici;

7. esplicitare sempre al servizio le motivazioni di un rifiuto all’intervento. Al di là di ciò, resta comunque il fatto che alcune questioni critiche concernenti l’etica professionale del mediatore culturale restano di complessa soluzione. In primis, perché non è definibile in via generale una regola di comportamento sempre valida, secondariamente perché le situazioni cambiano a seconda del servizio dove si opera. Al fine di fornire un esempio pratico di come possano trovare applicazione, e di come vengono concretamente definite le funzioni del mediatore/trice, prendiamo in considerazione alcuni punti di un progetto del Centre National de la Médiation di Parigi, che ha elaborato un proprio Codice deontologico. Ne riportiamo di seguito alcuni punti che riteniamo dovrebbero essere tenuti in considerazione anche nelle situazioni che riguardano più direttamente il nostro paese357:

Titolo 2 (Doveri della mediatrice e del mediatore) Articolo 6 – Indipendenza

La mediatrice o il mediatore hanno il dovere prioritario di salvaguardare, in ogni sua forma, l’indipendenza inerente la sua funzione. Il legame di subordinazione esistente (nel caso di dipendenza da un ente pubblico o privato) tra mediatrice/mediatore e il suo datore di lavoro, riguarda unicamente le condizioni materiali nelle quali la mediatrice o il mediatore esercitano la loro funzione in

356 Cfr. ISM (Inter Service Migrants), Inchiesta europea, L’interpretariato in ambito sociale, 1998. 357 Stefano Castelli, La mediazione, cit., pp. 97-98.

seno al servizio organizzato e in nessun caso concerne lo svolgimento stesso degli atti di mediazione che, non essendo sottoposti a controllo gerarchico, restano liberi e soggetti al segreto professionale di cui all’articolo 8. In nessun caso la mediatrice o il mediatore dipendente possono accettare da parte dell’ente datore di lavoro la limitazione della propria indipendenza o disposizioni in contrasto con le regole professionali e deontologiche della mediazione.

Articolo 7 – Neutralità

La funzione della mediatrice o del mediatore […]determina un dovere generale di riserbo e, più in particolare, di neutralità nei confronti delle parti. Quale che sia la loro opinione in coscienza, la mediatrice il mediatore osserveranno sempre il rispetto di questo dovere. Se per ragioni che gli sono proprie, la mediatrice o il mediatore ritengono di non essere in grado di rispondere a un tale dovere, invocheranno la clausola di coscienza prevista nell’articolo 11.

Articolo 8 – Segreto professionale

Il mediatore è tenuto, nei confronti dei terzi, al segreto professionale in condizioni analoghe a quelle previste dal codice penale. Questo segreto copre l’identità e ogni elemento della vita privata delle persone portato a conoscenza del mediatore, oltre alle informazioni e ai documenti confidenziali che avrà ricevuto. Nel campo privato delle persone, questo segreto si estende a tutto ciò che il mediatore ha visto, ascoltato e compreso nel corso dell’esercizio della sua funzione. Nel conflitto, il mediatore non può tenere conto, nella conduzione della mediazione, delle informazioni confidenziali comunicate da una delle parti se non espressamente autorizzato dalla parte stessa.

Articolo 9 – Incompatibilità

Il mediatore deve astenersi dall’intervenire quando, per propri interessi materiali o morali, potrebbe essere sospettato di non assolvere alla sua funzione in conformità con le regole deontologiche, in particolare con quelle relative alla indipendenza e alla neutralità.

Naturalmente, oltre ai doveri il codice deontologico al Titolo III contempla anche i diritti. Tra questi ricordiamo in particolare:

Titolo 3 (Diritti del mediatore o della mediatrice) Articolo 11 – Rifiuto

Il mediatore ha sempre il diritto di rifiutare di prestare la propria opera facendo appello a una clausola di coscienza, cioè per ogni motivo che dipenda esclusivamente dal proprio giudizio. Può anche ritirarsi da una mediazione in corso a condizione di motivare il

proprio disimpegno e di dare alle parti la possibilità di continuare l’azione intrapresa, in particolare attraverso la ricerca di un altro mediatore.

I regolamenti interni di alcuni Centri ed Associazioni, nonché i tirocini e i corsi di formazione sparsi un po’ in tutta Italia, si sono ispirati a questo codice. Anche nei racconti dei mediatori da noi intervistati i riferimenti ai diritti e ai doveri del mediatore emergono, tra le righe, in relazione a quelli prima citati.

TERZA PARTE

LA CITTA’ DI BOLOGNA: MIGRAZIONE E

MEDIAZIONE

Ricevere non è affatto riempire un vuoto, ma far partecipare agli altri di una certa pienezza. Gabriel Marcel

Capitolo 1

RAPPORTO SULL’INTEGRAZIONE

1.1 - La ricostruzione del contesto cittadino

Tra gli obiettivi della nostra ricerca vi è l’analisi e la comprensione del ruolo dei mediatori culturali nella città di Bologna. Qui le istituzioni locali hanno mostrato, fin dall’inizio, un particolare interesse per le tematiche legate all’integrazione dei cittadini stranieri e per quelle riferite al tema della mediazione e dell’intercultura. Ricostruire il contesto cittadino bolognese ci permetterà di indagare come e quando l’immigrazione è entrata nell’agenda politica locale, quali attori hanno posto per primi il problema e in quali termini. “In altre parole – afferma Tiziana Caponio– si tratta di descrivere la genesi delle politiche, con una particolare attenzione alle reti mobilitate sulla questione, e al ruolo del governo locale nei diversi contesti”358.

I comuni italiani, e in particolare quelli del Nord, sebbene con non pochi limiti, hanno agito da pionieri nelle politiche per gli immigrati, facendosi carico

358 Tiziana Caponio, Città italiane e immigrazione. Discorso pubblico e politiche a Milano,

Bologna e Napoli, il Mulino, Bologna, 2006, p. 114; cfr. anche Francesco Grandi, Emilio Tanzi(a cura di), La città meticcia. Riflessioni teoriche e analisi di alcuni casi europei per il governo

non solo dei problemi di accoglienza, ma anche e soprattutto di quelli dell’integrazione359. Questo è messo bene in evidenza dai progetti che vanno dall’inserimento lavorativo, alla mediazione culturale all’abitazione (attraverso l’accesso ad una graduatoria per gli alloggi di edilizia popolare), talora messi in atto anche in assenza di precise linee di finanziamento.

La legge n. 40/98, come abbiamo già visto, sancisce il passaggio da una fase di attivismo spontaneo ad una di maggiore programmazione e coordinamento degli interventi sul territorio. Di fatto, però, questi finanziamenti confluiscono nel fondo per le politiche sociali delle Regioni; ne consegue che le politiche di integrazione per gli immigrati dipendono direttamente dalle scelte strategiche di queste ultime in materia di welfare360. Inoltre, la recente legislazione in tema di immigrazione fa affidamento sui Comuni per quanto riguarda l’accoglienza e la gestione delle situazioni più problematiche: dalle donne straniere vittime di tratta ai richiedenti asilo.

I cittadini stranieri sono ormai una presenza consolidata e in progressivo aumento a Bologna come in tutta la sua provincia. Si tratta di una popolazione abbastanza giovane, che vive soprattutto in famiglia e che mostra una sempre più spiccata tendenza alla stabilizzazione, nonché un quadro di provenienze nazionali estremamente eterogeneo. Al 31 dicembre 2005 gli stranieri residenti nel territorio provinciale risultano 61.568, pari al 6,5% della popolazione complessiva, con un aumento del 10,3% rispetto al 2004 e del 57,1% rispetto al 2002. Un minore su 10

359 Come scrive Enzo Colombo in riferimento a ciò: “La località dunque, nel costituire il luogo concreto delle interazioni spazialmente situate, contemporaneamente caratterizzata dall’essere multiculturale e globale, costituisce l’ambito privilegiato per la comprensione e la produzione di pratiche di (non) inserimento e di (mancato riconoscimento della) cittadinanza” (Enzo Colombo,

Le migrazioni contemporanee tra globalizzazione e localismo, in Francesco Grandi e Emilio Tanzi (a cura di), op. cit., p. 19).

360 A questo proposito il vice Presidente del Forum Metropolitano delle Associazioni Roland Jace nel corso di un’intervista ha affermato: “Intanto c’è qualcosa che non va quando parliamo dell’investimento, proprio non ci può essere investimento chiaro se la normativa sull’immigrazione continua a rimanere al Ministero degli Interni, già questo presuppone che io sono una persona sospetta, QUINDI GIÀ LA MIA CONDIZIONE IN ITALIA E’ UNA CONDIZIONE DI CHI E’ SOSPETTO, SU CUI BISOGNA INDAGARE, SU CUI BISOGNA SORVEGLIARE GIORNO E NOTTE. Tra l’altro abbiamo visto che le poche proposte che sono arrivate dal Ministro delle Politiche Sociali per il vero sono state subito bloccate dagli altri due Ministeri di Giustizia e Interni che devono collaborare con questo, quindi non credo che quello che c’è stato detto in campagna elettorale venga effettivamente rispettato, poi tra l’altro sono costretti a fare una legge perché devono rispettare le direttive europee che non stanno rispettando. C’era, infatti, l’obbligo di ratificare quelle direttive entro il 2006 e nessuno lo sta facendo, non le ha fatte il governo di centro destra, non le sta facendo il governo di centro sinistra” (Bologna 09/12/2006 intervista a Roland Jace, vice Presidente del Forum Metropolitano delle Associazioni dei cittadini non comunitari di Bologna e Provincia, ex mediatore culturale).

in provincia è straniero. Essi provengono da 149 paesi diversi: marocchini, albanesi e rumeni sono le comunità più rappresentate in provincia, mentre in città sono presenti soprattutto filippini, cinesi, bangladesi e sri-lankesi. Questo scenario, e le questioni che implicitamente pone, richiedono un approccio programmatico di medio-lungo periodo, capace di considerare la necessità di strutturare sistemi di accoglienza, la questione abitativa, i diritti di cittadinanza, la comunicazione interculturale e la mediazione pedagogico-comunitaria. Queste sono le priorità che la Provincia di Bologna, in accordo con le Zone, ha posto al centro della programmazione dei nuovi Piani Sociali di Zona triennali 2005/2007. In particolare, nelle linee di indirizzo troviamo nelle priorità di intervento anche le seguenti necessità:

• considerare la comunicazione interculturale e la mediazione pedagogico-comunitaria attraverso un sistema di interventi mirati a sviluppare la conoscenza e il rispetto reciproco fra le comunità, a far apprezzare la ricchezza insita nelle diversità nella costruzione delle identità, a mitigare il negativo effetto dei mass-media nella diffusione di pregiudizi e stereotipi, ad indirizzare l’agire istituzionale e sociale relativamente ad un contesto sempre più diversificato culturalmente;

• ciò comporta praticamente la promozione di progetti di comunicazione interculturale di servizi/interventi di mediazione socio- culturale, il sostegno ai centri interculturali del territorio ed alle associazioni di cittadini stranieri.

Il principio guida dell’operatività è in tutti casi quello che rimanda all’approccio interculturale, mentre sul piano metodologico è imprescindibile il riferimento alla messa in rete ed alla massima integrazione delle risorse, delle politiche e dei servizi.

Inoltre, i Piani Sociali di Zona prevedono la realizzazione di un programma finalizzato chiamato Piano territoriale provinciale per azioni di

integrazione sociale a favore dei cittadini stranieri immigrati, gestito dalle amministrazioni provinciali, con l’obiettivo di integrare e sviluppare le attuali reti di servizi, in un’ottica di qualificazione, di continuità e di progressivo consolidamento territoriale delle politiche rivolte agli immigrati stranieri, da

realizzare nell’ambito dell’integrazione tra competenze e soggetti diversi, pubblici e privati361.